I casi del 29 giugno del 1857 misero in chiaro un doppio errore, della rivoluzione e del governo ad un tempo; della rivoluzione, che lasciò fuggirsi il quarto d'ora della vittoria, aspettando un segnale, e si vide in rotta senza pure aver combattuto; del governo, che fu còlto all'impensata, non ebbe vera notizia del tentativo se non tardi, ed anche questa manchevole.
Si disse dai lodatori ad ogni costo che l'autorità sapeva tutto, ma che non volle sgominare i disegni dei rivoltosi, poichè mirava a coglierli tutti quanti in una retata. Ciò non è punto da credersi, perchè la retata non diede alcun frutto. Altri (e furono di parte clericale, che allora osteggiava il governo piemontese, come quegli che non voleva essere nè carne nè pesce, nè soffocare ogni germe di rivoluzione a pro' degli altri governi italiani, nè gittarsi alle imprese più arrisicate con suo danno gravissimo), altri accusarono il governo di sapere ogni cosa, ma di aver lasciato correre, perchè i tentativi di Livorno e di Napoli, dai quali avrebbe potuto cavare un costrutto, non andassero falliti. L'invenzione fece capolino su pei diarii della sètta; ma parve più acuta che verisimile.
Ed ora torniamo al nostro racconto. Abbiamo lasciato Lorenzo Salvani che si recava al suo posto di combattimento, sulle otto di sera, in una viottola del sentiero di Prè.
II
Dove si legge come andasse a finire l'impresa di Lorenzo Salvani.
Il nostro giovinotto era stato poco dianzi dal capo della rivolta, ed aveva avuto un lungo colloquio con esso lui, tanto per indettarsi d'ogni cosa che avesse a fare, quanto per istabilire i modi più adatti a collegare l'impresa col centro dell'azione, e poterne avere, ad ogni occorrenza, consiglio od aiuto.
Per ciò che si riguardava a lui, comandante di quella perigliosa fazione, egli doveva andarsene al suo ritrovo di Prè. Colaggiù avrebbe trovato cento uomini, con armi e munizioni giusta il bisogno, parte raccolti al pianterreno di una casa a lui già nota, parte in uno stambugio, o cantina, o stalla che fosse, di rimpetto alla casa anzidetta, donde, per la strettezza del vicolo, avrebbe potuto agevolmente, e senza pericolo, comunicare ad ogni ora, ad ogni istante, con essi.
Questi cento uomini posti sotto il comando di Lorenzo, erano divisi in due drappelli, ad ognuno de' quali erano assegnati due uffiziali, scelti tra i più animosi e tra i più esperti dallo stesso Salvani. Il primo drappello, che doveva esser raccolto al pianterreno della casa sovraccennata, era guidato da due ottimi popolani, il Martini ed il Fresia, uno dei quali aveva fatto le campagne del 1848 e 1849, e l'altro, di fresco uscito dal servizio militare, conosceva benissimo il fatto suo. Al secondo drappello era preposto un Nava, lombardo, anch'egli prode soldato e un Doberti, genovese, giovine, adolescente quasi, ma ardito e volenteroso che nulla più. Seguivano i capi squadra, che non istaremo a nominare, i quali ripetevano il loro grado e l'ufficio da cotesto, che eglino avevano, ciascheduno per sè, tirati nell'impresa e raccolti a manipolo gli amici.
Il tentativo della Darsena doveva cominciare al segnale convenuto per l'azione simultanea di tutti i centri particolari della rivolta in città. E il modo in cui questo tentativo aveva ad esser condotto, non è da raccontarsi in queste pagine. Basti sapere che, oltre ai mezzi consueti della guerra, c'era un sottil stratagemma, immaginato da Lorenzo ed approvato dai capi; i quali, poi, facevano assegnamento sopra altri spedienti e fortunate combinazioni, che nemmeno s'hanno a dir qui a guerra finita, anzi neppure cominciata.
Nell'andare al ritrovo e dovendo passare per le vie più popolose di Genova, Lorenzo si stupì di non veder più gente del consueto a passeggio. Gli pareva che a quell'ora sull'imbrunire, e con tutta quella carne in pentola, dovesse notarsi in città maggior brulichio di persone. Ma tosto si fece a pensare che, essendo già forse tutti gli uomini più deliberati al loro posto, quella tranquillità delle vie poteva essere un buon segno; e con questo pensiero in mente giungeva nel vicolo, dov'era la meta del suo viaggio. Colà gli avvenne come ai destrieri generosi, che l'odor della polvere da cannone li scuote, li rinfranca, li rende più baldi. La lotta era imminente; il pericolo incominciava: Lorenzo rizzò alteramente il capo, e l'animo suo si riebbe, si fece pari all'altezza dei casi.
Dopo avere sbadatamente alzati gli occhi e sbirciata una scritta, entrò difilato in un andito buio. Esperto come era del luogo, si inoltrò con passo sicuro fino alla svolta di una parete: trovò brancicando un uscio, e bussò leggermente due volte.
Chi è? gli fu chiesto di dentro.
Patria! rispose sommesso, accostando le labbra alla commettitura dell'imposta collo stipite.
A quella parola, magica come il famoso Sesamo di Ali Babà nelle __Mille e una notte__, l'uscio si aperse, e il Salvani entrò prontamente nel vano.
Il comandante! disse una voce.
Ah, siete voi, Martini? Buona sera! I nostri uomini ci saranno già tutti, a quest'ora
Magari ci fossero i due terzi, ed anco la metà, che sarebbe tanto di guadagnato! rispose il Martini. Io ci ho il sospetto che molti siano dal notaio a far testamento, e non giungano che a pappa fatta se pure non sarà una frittata.
Quest'ultima parte del periodo, il Martini se la tenne tra' denti, e noi la riferiamo, tanto per dipingervi l'uomo. __Ex ore tuo te judico__, dice il proverbio latino. Il Martini, come le sue parole dimostravano, era un capo ameno, se altro fu mai, sempre ricco di facezie, strambotti ed altre piacevolezze, anche nei momenti più gravi; vero tipo di popolano genovese, col suo ingegno naturale e non senza una certa coltura letteraria, frutto di buona volontà, anzichè di studi fatti. Aveva trentacinque anni; era scapolo; aveva combattuto in Lombardia, ed era giunto al grado di sottotenente nella difesa di Venezia; tornato in patria, aveva ripigliato il suo antico mestiere di bottaio, e cacciava innanzi i cerchi a colpi di mazzo, colla medesima ilarità, colla medesima lena operosa, con cui s'era guadagnato il cerchio di filo d'argento, intorno alla fascia della sua berretta da volontario. Nè tra il pialletto, la spina, il mazzo, il cocchiumatoio e gli altri ferri dell'arte sua, dimenticava la politica, vero ed unico ferro, stiam per dire, dell'anima sua. Nelle ore d'ozio, leggeva sempre; si metteva quotidianamente in corpo l'__Italia del Popolo__, il __Movimento__, e quant'altri fogli stampati gli capitassero sotto le mani; nè soltanto li leggeva, ma vi faceva le sue chiose, e se mai lo scrittore gli usciva di riga, avevate a sentirlo, come lo pettinava colla sua lingua! Ma quando, per contro, gli andava a' versi una cosa, non c'era santi a levargliela di testa, e si sarebbe buttato nel fuoco, se ciò fosse bisognato a provare che aveva ragione. Pensava col suo capo, insomma, se talvolta operava secondo il cenno degli altri. Nella rivolta, verbigrazia, egli c'era, non tanto perchè questa gli piacesse, o gli sembrasse sicura, quanto perchè molti succianespole, diceva egli, molti ciarloni, buoni a nulla, non parlavano d'altro che di menar le mani, ed egli voleva vederli un po' da vicino, i larghi promettitori, e fare a chi lavorasse più sodo. Il Salvani, severo, scarso di parole, gli era piaciuto; nè meno era piaciuto egli, col suo carattere schietto ed aperto, al Salvani, che anzi lo aveva voluto della sua banda, e suo primo uffiziale.
Alle parole del Martini, Lorenzo aveva crollato il capo e dimenate le labbra.
Diamine! esclamò egli, dopo una breve pausa. E quanti sono?
Qui venticinque, ed Ella fa ventisei. Là di rimpetto, or fanno tre minuti, erano diciotto. Ora ventisei e diciotto, se bene ho imparata l'aritmetica, fanno quarantaquattro, e da quarantaquattro a giungere sui cento, mancano ancora cinquantasei. Lorenzo si fece scuro in volto, e in cambio di dimenar le labbra, come aveva fatto prima, le morse, in un impeto di suprema amarezza.
Qui venticinque, ed Ella fa ventisei. Là di rimpetto, or fanno tre minuti, erano diciotto. Ora ventisei e diciotto, se bene ho imparata l'aritmetica, fanno quarantaquattro, e da quarantaquattro a giungere sui cento, mancano ancora cinquantasei. Lorenzo si fece scuro in volto, e in cambio di dimenar le labbra, come aveva fatto prima, le morse, in un impeto di suprema amarezza.
Per fortuna, diss'egli poscia, quasi volesse ingannar se medesimo, non sono appena le otto e mezzo, e gli amici possono capitare da un momento all'altro.
Sì, aspettiamoli, questi veri Italiani! soggiunse il Martini, accompagnando la sarcastica frase con un moto ondulatorio del suo atletico torso. Ah, comandante! Noi in Italia, sia detto con sua licenza, siamo di gran chiacchieroni, col nostro __Elmo di Scipio__ irrugginito e coi nostri __giuriam!__ dove non si mette altro che il fiato. E la veda, non mi fa mica meraviglia che siamo così pochi alla posta. Io n'ero così certo, come della esistenza del figlio unico di mia madre. Ma, per l'anima del Ferruccio, e di tanti altri valentuomini che si citano così spesso e volentieri, io sono stupefatto di non veder qui certi ammazza sette e storpia quattordici, che gli sapeva mill'anni di far le schioppettate, ed erano sempre lì a spingere, a tacciar gli altri di mala voglia. Se mi cascano sotto l'ugne, questi figli di Bruto
C'è il Garasso? chiese Lorenzo, che metteva i nomi dove il Martini non aveva messo altro che gli epiteti. E il Dellaquinta e il Gasperini, ci sono?
Neanche l'odore! rispose il buon popolano. Già, del Garasso ho sempre dubitato, io, e metterei la mano sul fuoco che egli è una spia.
Che cosa dite, Martini?
So quel che dico, e glielo ripeterò a lui, e gli romperò anche il grugno, se ardirà farsi vivo. Quanto agli altri due, non ci hanno altro peccato che la vanità, ed è questa che li fa uscire in tante smargiassate. In fondo son disperatacci che vorrebbero aver quattro soldi, e farebbero patto di non metter più elmi di Scipio, nè giurar morte ai tiranni, per tutto il tempo di lor vita.
E il Tarlati, e il Geremia?
Oh, ci sono, questi due, ci sono; ma il primo, mogio mogio, s'è accovacciato nella paglia e dorme dalla paura; il secondo è ubbriaco fradicio, e non fa che rompere il capo alla gente. Lo senta; grida come un dannato.
E accostandosi ad un uscio semichiuso, donde giungeva ai due interlocutori dell'anticamera un suon confuso di gente raunata, lo spalancò gridando:
Zitti là, che vi farete sentire di fuori! Ecco il comandante!
Lorenzo Salvani entrò allora in una stanzaccia male rischiarata da una lucerna a beccucci, posata nel mezzo d'una gran tavola d'osteria, e da due o tre moccoli di candele steariche, piantati nel collo di altrettante bottiglie vuote. Lucerna e candele avevano tanto di moccolaia fungosa, che dava assai più fumo che luce, nè certo aiutava a diradare la nuvola fitta che l'assiduo fumar delle pipe aveva formata sulle teste dei congregati. I quali sedevano, in numero di quattordici o quindici, intorno alla tavola, piena stipata di fiaschi, bottiglie, bicchieri, picce di pane e fette di salame qua e là distese su brandelli di carta. Altri parecchi dormivano della grossa sdraiati lungo le pareti, sopra alcune bracciate di paglia, e se n'udiva il russo accompagnare le voci avvinazzate dei più verbosi seduti.
Un altro dormiva a gomitello, su d'un angolo della tavola, non udendo lo strepito che gli si faceva alle orecchie; due o tre altri comparivano dal vano dell'uscio di una camera vicina, dov'erano le armi, in atto di sperimentare lo scatto dei fucili, o le lame delle sciabole, che erano là dentro in quantità. E le voci alte e fioche dei seduti, l'acciottolìo de' bicchieri, lo strepito delle armi e il russo de' dormenti, facevano una babilonia da non dirsi a parole.
All'apparire di Lorenzo tutto quel frastuono cessò. Il comandante! fu la parola che corse sommessamente lungo le sponde della tavola.
Il comandante? ripetè, ma più alto, una voce fessa e impacciata dal vino. Viva il comandante, e si beva alla sua salute!
Zitto, Geremia! gridò il Martini. Tieni la tua parlantina per questa notte.
O come, sor tenente? voi togliete la libertà della parola? chiese con un ridevole strascico di frasi il poco biblico Geremia. Non siamo qui radunati per salvare la libertà, noi? La libertà è libera, io dico; viva la libertà! Parlo bene, o parlo bene?
Il comandante, a cui era rivolta questa burlesca domanda dell'ubbriaco (e lo dimostrava il gesto di Geremia, che accostava militarmente la palma rovesciata dalla mano alla visiera del caschetto), rispose asciuttamente:
Sì, avete ragione; ma se fate chiasso fin d'ora, darete la sveglia ai nemici, e non si potrà più far nulla, per questa povera libertà.
Ben detto! ha ragione il comandante! soggiunsero molte voci.
Ma, io dico balbettava Geremia. Io dico che l'uomo
È ubbriaco! proseguì un altro, daccanto al beone, dandogli sulla voce.
Ubbriaco io? io che ho bevuto appena tre bicchieri di vino?
Bevine un quarto, interruppe il Martini, e falla finita. Se ti garba, potrai andar sulla paglia, a tener compagnia al Tarlati, che russa come un contrabasso.
In quel mentre si udì picchiare all'uscio. Il Martini andò ad aprire, colle solite cautele. Erano altri cinque che giungevano al ritrovo.
Trentuno! disse il tenente. Vuol forse Ella che io vada a dare un'occhiata agli altri, nella cantina di rimpetto?
Sì, da bravo. Martini, andate!
E ciò detto, Lorenzo si diede a passeggiar per la camera, dopo aver accettato dalle mani di uno della brigata un bicchiere di vino, del quale non bevve altro che un sorso. Poco stante, fu di ritorno il tenente.
Orbene?
Ventiquattro laggiù, e con questi trentuno, cinquantacinque in tutto.
L'animo di Lorenzo s'era già acconciato a questa mala sorte; epperò il giovane comandante non si fermò a fare altre malinconiche considerazioni sulla scarsezza del numero. Entrato in una cameretta attigua, insieme col Martini e col Fresia, chiamò i sott'ufficiali presenti all'appello, per far la nota dei congregati e dividere, come si poteva la meglio, le squadre. Erano smilzi manipoli, ma bisognava contentarsi. Quanto agli uomini che ancora potevano giungere innanzi l'ora della mischia, Lorenzo comandò che dovessero entrare nelle squadre meno numerose.
Non dissimilmente si adoperò nella casa dirimpetto, dov'erano uffiziali il Nava e il Doberti. Intanto, i seduti a desco e i dormenti sulla paglia furono chiamati a star su, salvo tre o quattro che, non potendo reggersi pel vino cioncato, sarebbero stati d'impaccio anzi che d'aiuto ai compagni; e si venne alla distribuzione delle armi e delle cartucce.
Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c'era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.
Ma questi son cassoni, non fucili! diceva uno.
Che cassoni? soggiungeva un altro. I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.
Ci vuol pazienza, amici! diceva Lorenzo, che incominciava a perderla. Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.