Rinaldo ardito - Lodovico Ariosto 2 стр.


Resa sommariamente ragione di questa qualunque siasi fatica, onde impetrare alla medesima, se non il suffragio generale, almeno il benigno compatimento dei dotti, potremmo addurre a favor nostro le assidue e gravi cure sostenute di buona voglia nel breve ma spinoso aringo, non che le vinte difficoltà, che parvero quasi insuperabili al Baruffaldi, il qual pure avea tanta dimestichezza cogli scritti dell'Ariosto8. E la conferma della di lui genuina confessione si presenterà a chiunque si dia a confrontare le stanze da esso pubblicate per saggio di questi Frammenti, dalla pag. 310 alla 314 della rammentata Vita del Poeta, con quelle stesse ristampate da noi; e speriamo che questo ragguaglio porrà in maggior chiarezza le diligenze da noi usate.

Forse non mancherà chi disapprovi ed anzi condanni lo zelo di aver messo in luce un'Opera mutila ed informe in molte parti, quale sfortunatamente si è questa. Per costui non abbiamo discolpa, nè sapremmo fargli altra risposta, che mostrandogli un gran numero di opere di sommi scrittori greci e latini, che hanno avuto la stessa sorte, avvalorando la nostra sentenza col giudizio di tale, che nè la materia nè il luogo consentono di nominare9. Gli additeremmo ancora tanti e tanti bellissimi antichi capolavori in bronzo ed in marmo, che si ammirano ne' Musei, i quali non sono che insigni monumenti dell'Arte più o meno frammentati. E questi scritti e questi monumenti ci saran sempre di modello, rimanendo a testificare dell'eccellenza degl'ingegni che li produssero, ed a rimproverare mutamente l'incuria, l'ignoranza o la perversità degli uomini che li ridussero in tale stato, e risveglieranno nel cuore dei buoni almeno il desiderio che sorga chi vaglia a ristorarne del danno.

Finalmente poichè colla stampa collettiva di più componimenti d'uno stesso Autore (i quali pubblicati a parte in varie occorrenze divengon rari e fuori di commercio) si provvede alla maggior diffusione dei medesimi, e posson considerarsi come rami che si ricongiungono al tronco principale, così credemmo incontrare il pubblico gradimento riproducendo la gentilissima Canzone colla quale Messer Lodovico piangeva la partenza da Firenze per oltremonte della sua Ginevra10. Il Ch. Sig. L. M. Rezzi la trasse in luce per la prima volta da un codice miscellaneo Barberiniano, in occasione dei fausti sponsali di Donna Carlotta Luisa Barberini col Marchese Raffaele Casali del Drago, rivendicandola con critico ragionamento al nostro Autore, e ponendone in bella mostra i delicati pregi che l'adornano.

CANTO I

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I

Così poteansi ritenere appena
I cavalier di non entrar la ciuffa11,
E a ciascuno il tardare era gran pena,
Nè può star fermo e si apparecchia e buffa;
Di quei si parla che hanno animo e lena,
Chè a un vil codardo incresce ogni baruffa,
Come chi va alla forca, e che prolunga,
Perchè quanto più può tardi vi giunga.

II

Artiro e Salomone alla avanguarda,
L'uno Affricante, e l'altro Cristiano,
Stan per ferirsi in punto, e ciascun guarda
Al segno general del capitano;
Or dato il segno, alcun più non ritarda,
E all'inimico va cum12 l'arme in mano;
Ma prima ch'entri in così orribil guerra,
Feraguto vo' trar dall'aqua in terra.

III

Ormai tanto che dentro vi è caduto,
Che non dovrebbe aver di ragion sete;
Sapete come cade13 Feraguto?
Cum quale astuzia cade augello in rete;
Egli avea già nelle aque il cuor perduto,
Nè ad altro pensa che alla strema quiete,
Che essendo armato, e d'armi di gran pondo,
Non potendo nuotar, discese al fondo.

IV

Nè crediate ch'al fondo già restasse,
Anci14 di là dal fondo fu tirato,
Che una dama gentil subito il trasse
Fuora delle acque in luoco assai più grato;
Nè già pensò che 'l ciel tanto lo amasse15,
Vedendosi nelle onde trabuccato;
Ma il cielo il tutto a suo modo dispensa,
E spesso all'uomo avvien quel che non pensa.

V

Come chi per errore o per disgrazia,
Cui sotto il ceppo ha il col16 per esser morto,
E fatta gli vien poi subito grazia
Prima che moia o per ragione o torto,
Che attonito rimane e il ciel ringrazia,
E quasi muor di subito conforto:
E così appunto a Feraguto accade,17
Vedendosi ritrar dove pria cade18.

VI

Fu in una ciambra19 il cavalier condutto
Che tutta di cristallo era smaltata;
Il palco tutto a specchi era costrutto,
E intorno intorno tutta ad or frissata20;
Vedendosi il barone ivi ridutto,
Gli fu tal sorte allor non poco grata,
E tutto che suspetto ancora stava,
Pur più ch'in l'umide acque ivi sperava.

VII

E volto Feraguto alla donzella,
Deh dimmi, dama, disse, se ti agrada,
Chi sei, e come è qua stanza sì bella,
Che in fondo alle acque mi par cosa rada?21
A Feraguto allor rispose quella:
Sappi ch'io fui nemica a quella Fada22
Che poco anzi occidesti, e d'ogni intorno
Faceva a' circumstanti iniuria e scorno.

VIII

E quella son che ti donai quel tanto
Lucido, adorno e prezioso scuto
Cum che vinto hai la Fada e ogni suo incanto,
A te di onore e a' circumstanti aiuto;
E de infiniti sol ti puoi dar vanto
Avere un tal triunfo oggi ottenuto,
Di che grato non solo agli uomin sei,
Ma fatto ne hai piacere insino a i Dei.

IX

La Fada di coloro era nemica,
Che d'altre che di lei fussero amanti;
Anci ogni industria usava, ogni fatica
Per rovinarli; e ben ne ha occisi tanti,
Che indarno è lo espettar, baron, ch'io dica
Quanti ne ha uccisi la malvagia, e quanti
Presi e in pregione morti per disagio,
Vetando loro il cibo, e il stare ad agio.

X

Onde tanto costei Venere adonta
Che sol di lei cercava aspra vendetta,
E23 a tale impresa in fin persona pronta
L'amorosa mia don24 gran tempo espetta;
Ma solo hai vendicato ogni sua onta,
E però ne serai persona eletta,
A Vener grato, e per il tuo valore25
Fortunato serai sempre in amore.

XI

E quantunque infelice per adrieto
Sempre sii stato in l'amoroso laccio,
Nell'avenir serai jucundo e lieto,
Poi che distolte26 ne hai di tanto impaccio;
E perchè intendi quel che ti è secreto,
Quel che richiesto me hai io non ti taccio:
Sappi che ninfa son nasciuta in l'acque,
E di questo liquor sto corpo nacque.

XII

Delle Naiade son la più onorata,27
(Che così d'acqua son le ninfe dette)28
Liquezia ho nome, e a Venere dicata,
Sono delle sue care e più dilette,29
E a te fui col bel serto mandata30
Per animarti a far le sue vendette;
Questa è mia stanza: e qui poserà tanto
Ch'io torni a rivederlo in l'altro canto.

CANTO II

CANTO II

I

Benchè da poi che 'l Redentor del mondo
Dimostar31 volse un sol Dio trino et uno,
Ogni idol falso32 rovinasse al fondo,
Pur fra' pagani ancor ne restò alcuno;
Che li33 altri Dei, eccetto il ver, secondo
Debbe di nuoi34 fedel creder ciascuno,
Erano di Pluton seguaci rei,
Che la gentilità chiamava Dei.

II

Ma per la morte, e pel misterio sacro
Della acerba passion del Verbo eterno,
Qual segnò i suoi di quel santo lavacro
Che lava in nuoi ogni peccato interno,
Restò a Plutone il mondo acerbo et acro,
E ritrarse gli fu forza all'Inferno;
Nè falso alcuno Idio restò a' cristiani,
Ma qualche illusion fra li pagani.

III

E però a alcun di vuoi strano non paia
Se a Feraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell'altre primaia,
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaia,
Se con qualche ragion debbo parlarve:
Non sciò35 come altro giudicar si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.

IV

Toccavassi36 ella e ragionar se odiva,
E porse a quel baron37 lo illustre scuto,
A cui, da poi che 'l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Feraguto:
O sii donna mortale, o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d'ogni speranza,
In l'un scuto mi desti, in l'altro stanza.

V

Ma qui se fai ch'a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch'io non vi fui giamai aventurato,
Pur ch'io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
Che tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette39 ogni passato male.

VI

Ma non sciò, ninfa,40 se ragione o errore
Sia, che sperar mi fa di questo puoco:41
Come esser può che a quella Dea d'amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal luoco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa, e conservarsi, il fuoco,
Il fuoco che più al cor d'ogni altro preme,
Che mal pon stare dui contrari insieme.

VII

Ben mostri, alto baron, vivace ingegno,
Disse la dama, e razional discorso,
Che cum la forza uniti ti fan degno
Di conseguir d'amor dolce soccorso;
Spera, che fine arai al tuo disegno,
E alla sventura tua42 porrai il morso,
Quanto ad Amore e Venere si spetta,
Benchè tua mente in ciò dubbia e suspetta.

VIII

Ma dubitar non dei, che 'l fuoco pasce
In umido43 liquore e si conserva,
Come in vuoi il calor nativo nasce
In radicale umor, che in vita serva
Nel materno alvo l'uomo e nelle fasce,44
E sempre umor da morte lo preserva;
E in la lucerna piccoletta fiamma
In oleo e in altro umor se aviva e infiamma.

IX

Però Venere infiamma e si diletta
Di quello umor che sta col caldo insieme,
Anci nel mar di spuma fu45 concetta
Venere in cambio di genital seme;
La cosa non dirò, baron, perfetta,
Però che l'onestà la lingua preme,
Et a una donna, ancor che meretrice,
Lo inonesto parlar sempre desdice.

X

Il viver di Saturno, e ciò che fece
Al padre suo, mi converria narrarte;
Ma questo ad uomo più che a donna lece;
Bastammi46 a dir la più opportuna parte,
E che come la fiamma in oleo o in pece,
Così in l'umor stia il caldo, dimostrarte;
Nè ti sia cosa nova e inusitata.
Che una Naiade a Vener sia dicata.

XI

O felice colui che intender puote
Il secreto poter della natura!
O quante cose sono al mondo ignote
Che l'uomo di sapere ha puoca cura;
E se fussero a nuoi palesi e note
Procederia ciascun cum più misura.
Da te ben resto chiaro e resoluto,
Rispose a quella dama Feraguto.

XII

Ma pregote, dapoi che mi hai promesso
Favorire47 in amore i miei disegni,
Che quando un tanto don mi fia concesso
Di amar cum frutto, me ne mostri segni;
Che sempre duolse, puoi48 che in speme è messo,
A cui come sperava non li avegni:
Sicchè, dama gentil, fa' poi ch'io sapia
Quando tal grazia in mia persona capia.

XIII

Rispose allor la vezzosetta dama:
Io sempre fui fedele a chi mi crede,
E Vener anco, e chi infedel la chiama,
Non ben dicerne49 quel ch'amor richiede;
Fidelità conviensi a chi bene ama,
E dir si suol che Amor sempre vuol50 fede;
Ma acciò ch'in breve il tuo desir consegui,
Conviene che più oltre ancor mi segui.

XIV

Rispose quel baron: guidami pure,
Se ben volessi, giuso ai regni stigi,
Che disposto51 mi son, dama, condure
Dove ti piace pronto a' tuoi servigi.
Ma mi bisogna52 l'animo ridure
Dove lassai, io credo, Malagigi,
Il qual, se vi rimembra, in l'altro canto
Vi lassai cum ragion jocondo tanto.

XV

Io vi lassai di ciambra già partito
Della regina, e l'uno e l'altro lieto,
Che tanto l'uno a l'altro era gradito
Che ciascun di essi ne restava quieto;
Desidra la regina che finito
Presto sia il giorno al suo piacer secreto,
E sol la notte a lei felice espetta,
Che Amore è cieco, e notte gli diletta.

XVI

E senza altro pensare, un suo fidato
Accorto servitor chiamò quel giorno,
A cui disse, se sei, come hai mostrato,
Sempre nemico a chi mi vuol far scorno,
Prego che vadi più che puoi celato,
E Orlando trovi cavaliero adorno,
E nostro capitan, se sciai qual sia,
E questa gli darai da parte mia.

XVII

E una lettera in mano al messo porse,
Che del suo amore il conte reavisava;53
Dopo molte proferte, il servo corse
Al finto non ma al ver conte54 di Brava:
Il conte poi che del sigil si accorse,
La lettra prese, e altro non parlava,
Anci notando55 il servo, in man la piglia,
In atto d'uom che assai si meraviglia.

XVIII

Sciolsella56, e prima sotto57 lesse
Il nome di chi a lui la scrive e manda;
Subito il resto a leger poi si messe
Di tal tenore = A te si aricomanda,
Conte, colei che per signor ti ellesse,
E sol ti apprezza, e solo ti dimanda;
Pregate, come la notte passata,
Questa altra ancor ti sia racomandata58.

XIX

Rimase il conte alle parol suspeso,
E di notte non scià, nè de che scriva;
Ma pur per coniettura ha in parte inteso
Quel che chiedea la donna, e le agradiva;
Scià ch'ella già lo amava; onde compreso
Ha che di novo in lei lo amor si aviva;
Ma pur di quel che ha letto assai si ammira,
E di novo la lettra or lege, or mira.

XX

E alla proposta subito rispose,
E rescrisse una a lei di tal tenore:
Regina mia, nelle importanti cose
Vostre del regno sol vi mostro amore;
Ma in altre trame occulte et amorose,
Non fui mai vosco; onde pigliate errore:
Nè sta notte nè mai giacqui cum vui;
Credo ch'in cambio mio godesti altrui.

XXI

Diede la lettra il conte al fido messo,
Che alla regina appresentolla in mano;
Ella vedendo il servo, al primo ingresso
Allegrossi, ma poi fu il gaudio vano,
Che poi che della lettra intese espresso
Tutto il tenor, le parve il caso strano
D'esser schernita, e che ciò59 niegi il conte,
Che pure il vide seco a fronte a fronte.

XXII

E cominciò a dolersi la regina
Allor del conte assai cum voce pia;
Lacrimando diceva: ahimè mischina,
A chi dei l'alma e la persona60 mia!
Ad un che fu la notte, e la mattina
Dimostra ingrato che più mio non sia;
E a me che io il vidi, e sciò che fu certo ello
Non si vergogna dir, che non fu quello.

XXIII

Nol vedeste, occhi vui, che le fattezze
Avea del conte? io sciò che non errasti;
Ora son queste, Orlando, le prodezze
Che per mio amore usar prima pensasti?
Se pur non ti piacean le mie bellezze,
(Che poco sono) a che, crudel, le usasti?
A che sì piccol tempo le godesti,
E da me, ingrato, come vil ti arresti?

XXIV

Forse ch'io non ti son piacciuta quanto
Credevi prima, ahimè, solo a vedermi?61
Ma perchè, ingrato, tante volte e tanto
Quella notte tornasti a rigodermi?
Se allor bella non fui, come di manto
Adorna poteva altri e tu62 tenermi?
E se a me più tornar pur non volevi,
Negarmi esser lì stato non dovevi.

XXV

Dall'altro canto il conte Orlando stava
Suspeso assai, nè scià quel che si dire;
La cosa ben come era imaginava,
Ma non la scià per lo ben colorire;
Che essa l'avesse in fal preso pensava
Per cieca volontà, per gran desire,
Nè scià chi possa avere audacia presa
Di essere entrato in una tanta impresa.

XXVI

Non scià come essa lui in fal pigliasse,
Nol cognoscendo al viso e al proprio aspetto,
Nè scià ch'in faccia lui rapresentasse
Salvo Milone, a lei figlio diletto,
Qual non si crede63 che alla madre usasse
Tanta sceleritade, tanto diffetto64,
E stette in tal penser tutto quel giorno;
Ma il conte io lasso, e a Malagigi io torno65.

XXVII

Credendo Malagigi ritornare
Alla regina la notte seguente,
Nel mezzo di quel dolce lamentare,
Che faceva ella del suo error dolente,
Andolla Malagigi a visitare,
Che non sapea della regina66 niente
Quel che dolesse, anci a lei venne allora
Cum la sembianza di quel conte ancora.

XXVIII

Fu dalla più secreta camariera
Portata alla regina la novella,
Come ad essa il gran conte venuto era
Per visitarla, se piacesse ad ella;
Tutta turbossi la regina in ciera,
E in mille parti il sdegno la martella,
E dubita di dui qual debbia fare,
O se lo escluda, o pur lo lassi entrare.

XXIX

Non scià quel che si far, tutta è commossa,
Non scià se contradica o se consenta,
Ma l'amor più che l'ira ebbe gran possa,
Sì che a lassarlo entrar restoe contenta;
La camariera ad introdurlo mossa,
Avanti alla regina lo appresenta,
E Malagigi non sapendo il fatto,
A lei si appresentò cum allegro atto.

XXX

Ma ella cum sembiante assai mansueto,
Cum occhi mesti a guisa di turbata,
Non ben rispose a Malagigi lieto
Come pensò vedere alla tornata;
Ma non per questo se ritrasse adrieto;
Ma dimostra egli faccia allegra e grata,67
E accarecciar68 la donna allor non resta,
Pensando che per altro ella stia mesta.

XXXI

Ma senza altro parlarli, la regina
La lettera del conte al baron diede;
Presella69 quello, e subito divina
Dove il gran sdegno di colei procede:
E più cognosce ancor la sua ruina
Che la lettra del conte in scritti vede;
La lettra lesse, e poi rivolto a lei
Disse, regina, per un scherzo il fei.

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