Gli albori della vita Italiana - Various 6 стр.


Giovanni Villani, il quale affermava che il fatto del Buondelmonti, nel 1215, aveva la prima volta diviso la cittadinanza di Firenze, dimenticava di averci precedentemente detto, che nel 1177 la guerra civile era già cominciata per opera dei grandi, cioè degli Uberti, che combatterono sin d'allora il governo consolare. Ciò prova che il fatto del Buondelmonti fu uno di quei tanti episodii, che seguirono spesso in tutti i Comuni del Medio Evo, ma non ebbe una vera importanza politica, perchè non fu causa, ma conseguenza della guerra assai prima incominciata.

Noi abbiamo dunque un secondo periodo nella storia di Firenze, il quale è una lunga serie di guerre e rivoluzioni interne, che portano una serie di trasformazioni sociali e politiche del Comune. Vediamo da una parte i nobili col Podestà alla loro testa, dall'altra il popolo comandato dal suo Capitano. Scopo e fine di questa lotta è la totale distruzione del partito aristocratico, il che seguì nel 1293 con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, i quali esclusero affatto i Grandi da ogni partecipazione al governo. Tutte queste rivoluzioni hanno di mira uno scopo costante, hanno un'origine comune, si seguono con un ordine determinato. Non è il caso che domina la storia di Firenze, è una legge storica, che risulta dai varii elementi, che costituirono la società fiorentina nel Medio Evo.

Ma, finita che fu la prima serie di rivoluzioni, con gli Ordinamenti di Giano della Bella, non finiva perciò la guerra civile. Come i nobili del contado, demoliti che furono i loro castelli, non scomparvero affatto, ma entrarono dentro la Città; così, esclusi ora dal governo, non per questo scomparvero affatto, ma s'unirono ad una parte del popolo, cioè ai capi delle principali Arti, e si formò il partito delle Arti maggiori contro le minori, del popolo grasso contro il popolo minuto. Questo rappresentava ora la democrazia già avanzata, quello che oggi diremmo il partito radicale: era l'infima plebe, la quale non capiva, perchè essa, che aveva preso parte alle guerre civili contro i nobili, alle battaglie contro i castelli, dovesse rimanere esclusa dal governo. E quindi, se la prima guerra civile era cominciata per escludere i nobili dal governo, la seconda non fu fatta per escluderne il popolo grasso, ma perchè il popolo minuto voleva insieme con esso avervi la sua parte. E come nel 1293 vedemmo l'ultima conseguenza logica del primo periodo, così nel 1378, col tumulto dei Ciompi, abbiamo l'ultima conseguenza logica del secondo, ed il popolo minuto sale finalmente anch'esso al governo, rimanendo in continuo contrasto coi ricchi. La plebe sin dal principio eccedette nei suoi trionfi, ed allora comparvero sulla scena i Medici, i quali, appoggiandosi ad essa, con accortezza impareggiabile, s'impadronirono del governo. E così la Repubblica, dopo quasi un altro secolo di lotte, finalmente cadde.

Questa storia fiorentina, adunque, non è un mistero, non è una serie di rivoluzioni sottoposte al caso; essa è invece chiara come una proposizione geometrica. Le sue rivoluzioni hanno una causa costante; il suo scopo politico è sempre lo stesso. Dal giorno in cui il Comune ha messo la prima pietra, noi possiamo, se studiamo quali sono gli elementi che lo compongono, determinare logicamente, prevedere sicuramente quali saranno le rivoluzioni, cui esso anderà soggetto. Sotto i Medici noi troviamo che sono scomparse le Consorterie, la cui distruzione era in fatti cominciata sin dal 1293. Troviamo che le Arti ancora esistono, ma hanno perduto ogni importanza politica; vediamo un governo forte, accentrato; una società che par quasi una società moderna. Una grande uguaglianza civile apparisce per tutto; non più classi, nè gruppi separati ed ostili; non titoli di nobiltà; non privilegi di alcuna sorte; dagli ultimi si può salire, a forza d'ingegno, ai supremi gradi sociali. Sotto un tale aspetto può dirsi che il Comune abbia raggiunto il fine cui aveva sempre mirato, abbia ottenuto un vero trionfo.

VIII

Ma questa, pur troppo, è un'ora funesta per lo spirito italiano; è l'ora in cui incominciano la nostra corruzione e la nostra decadenza. La società del Medio Evo più non esiste. Quelle associazioni a cui gli uomini erano stati così affezionati, fra le quali avevano vissuto, per le quali avevano combattuto ed erano morti, si sono disciolte; ma la nazione non si è ancora formata. La piccola patria più non esiste, la nuova ancora non si è formata. L'uomo del Medio Evo è scomparso, e l'uomo moderno è nato, l'uomo, cioè, che deve fidare nelle sole sue forze, nel solo suo ingegno, nella sola sua operosità; ma esso è nato prima che si sia costituita la nazione. La conseguenza è che l'Italiano di questo nuovo periodo, che si chiama il Rinascimento, si trova come ad un tratto isolato nel mondo. Egli non può fidare in altri che in sè stesso, egli non ha nessuno per cui vivere, nè c'è alcuno che viva per lui. Egli si abbandona quindi al suo egoismo personale, nel momento stesso in cui si aumentano, si acuiscono le forze della sua attività e del suo ingegno. La decadenza morale incomincia quando il progresso intellettuale continua più rapido che mai. E noi abbiamo un popolo, in cui la cultura progredisce, in cui la scienza s'innalza, ma nel quale il livello morale continuamente, rapidamente si abbassa. La nostra splendida letteratura rivela anch'essa questa morale decadenza. Noi vediamo apparire sulle labbra dell'Italiano quel cinico sorriso, che ci è così spesso descritto nelle nostre commedie, nelle nostre novelle, in cui si beffeggiano le cose più sante, e l'amore è privo d'ogni sentimento davvero umano, e tutti gli affetti più nobili sono scomparsi, quando non sono derisi. Lo scrittore somiglia allora a quei romanzieri moderni, i quali, descrivendo il demi-monde, credono di descrivere il mondo. E noi vediamo quegli accorti politici italiani, che sono i maestri di tutti in Europa, che rappresentano la sapienza diplomatica, che dovunque vanno sono ammirati, non riescire in casa loro ad altro, che a costruire un mondo, il quale cade sotto il peso della sua stessa corruzione. Vediamo questi uomini, che sono i primi calcolatori del mondo, calcolar sempre e sbagliare tutti i loro calcoli, perchè essi hanno dimenticato che nella vita umana v'è qualche cosa che non si pesa e non si misura, che non si ragiona e non si calcola, ma si sente, ed essi non la sentivano più. I tiranni italiani di quel tempo ci presentano anch'essi un singolare spettacolo. Noi li vediamo apparecchiare i loro veleni, affilare i loro pugnali, ridere di Dio, e tremare dinanzi all'astrologo, da cui aspettano di conoscere l'ora propizia ai loro delitti.

La storia, o Signori, non è una filosofia, non è una predica morale, non fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa vi ripeterà di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, è l'abnegazione; che ciò che solo può rendere l'uomo felice sulla terra, è il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della nostra esistenza, e dal quale solamente la vita può ricevere il suo valore e la sua dignità, quello è il momento in cui il carattere morale s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la decadenza diventa allora inevitabile.

Ma vi è ancora un'ultima osservazione. Gli stranieri, i quali si sono mossi a studiare il Rinascimento, hanno detto: Ecco una nazione, la quale, nel momento in cui più le sue arti e le sue lettere fioriscono, nel momento in cui le più nobili qualità del suo ingegno si manifestano, si corrompe sempre più rapidamente; ecco una nazione che cinicamente ride sempre di tutto, una nazione che, allora quando più fiorisce intellettualmente, è priva di ogni fede. Quelle idee stesse, che saran sempre sua gloria, che essa mise nel mondo con la sua arte, la sua letteratura, la sua scienza, percorrono l'Europa, e ne fecondano la civiltà, perchè vi trovano un'atmosfera morale; ma in Italia non riescono ad impedire la sua decadenza, perchè in essa il senso morale è pervertito. E ne hanno concluso, che, quasi per legge di natura, nel nostro carattere nazionale risplendono l'ingegno e tutte le qualità intellettuali, ma sono invece offuscate le morali. Manca la vera intimità, come essi dicono, del cuore, dell'animo. E però anche nella loro arte gl'Italiani vedono più la forma che la sostanza, più il sensibile che l'intelligibile e l'ideale. Quando si vogliono davvero penetrare i misteri dell'anima, rappresentare la profondità, la santità degli umani sentimenti, occorre rivolgersi alle nazioni germaniche, che vi riescono assai meglio, perchè questo è il loro proprio regno, nel quale agl'Italiani non è dato entrare. Uno storico tedesco di grandissimo valore, che meglio d'ogni altro conosce il nostro Rinascimento, il Burckhardt, a questo proposito, osservava: Ma se fosse proprio vero che il carattere degl'Italiani fu quale voi lo descrivete; se non fossero allora vissuti altri che i Borgia, gli Sforza, i Malatesta, e i più corrotti novellieri avessero davvero rappresentato tutto l'essere morale della nazione, questa sarebbe caduta in un tale abisso da non poterne mai più risorgere in eterno. Il vostro giudizio deve certamente avere qualche cosa di unilaterale, di erroneo. È meglio lasciare in pace i popoli, quando non si è in grado di giudicarli serenamente, sicuramente.

La storia, o Signori, non è una filosofia, non è una predica morale, non fa che constatare i fatti. Ma percorretela in lungo ed in largo, ed essa vi ripeterà di continuo, che l'egoismo veramente, profondamente umano, è l'abnegazione; che ciò che solo può rendere l'uomo felice sulla terra, è il vivere per gli altri; che quando le leggi e le istituzioni ci spingono per questa via a cercare un ideale, cui far sacrifizio della nostra esistenza, e dal quale solamente la vita può ricevere il suo valore e la sua dignità, quello è il momento in cui il carattere morale s'innalza e le nazioni diventano forti. Quando invece gli uomini si rinchiudono, come gli Italiani del Rinascimento, nel proprio egoismo, la decadenza diventa allora inevitabile.

Ma vi è ancora un'ultima osservazione. Gli stranieri, i quali si sono mossi a studiare il Rinascimento, hanno detto: Ecco una nazione, la quale, nel momento in cui più le sue arti e le sue lettere fioriscono, nel momento in cui le più nobili qualità del suo ingegno si manifestano, si corrompe sempre più rapidamente; ecco una nazione che cinicamente ride sempre di tutto, una nazione che, allora quando più fiorisce intellettualmente, è priva di ogni fede. Quelle idee stesse, che saran sempre sua gloria, che essa mise nel mondo con la sua arte, la sua letteratura, la sua scienza, percorrono l'Europa, e ne fecondano la civiltà, perchè vi trovano un'atmosfera morale; ma in Italia non riescono ad impedire la sua decadenza, perchè in essa il senso morale è pervertito. E ne hanno concluso, che, quasi per legge di natura, nel nostro carattere nazionale risplendono l'ingegno e tutte le qualità intellettuali, ma sono invece offuscate le morali. Manca la vera intimità, come essi dicono, del cuore, dell'animo. E però anche nella loro arte gl'Italiani vedono più la forma che la sostanza, più il sensibile che l'intelligibile e l'ideale. Quando si vogliono davvero penetrare i misteri dell'anima, rappresentare la profondità, la santità degli umani sentimenti, occorre rivolgersi alle nazioni germaniche, che vi riescono assai meglio, perchè questo è il loro proprio regno, nel quale agl'Italiani non è dato entrare. Uno storico tedesco di grandissimo valore, che meglio d'ogni altro conosce il nostro Rinascimento, il Burckhardt, a questo proposito, osservava: Ma se fosse proprio vero che il carattere degl'Italiani fu quale voi lo descrivete; se non fossero allora vissuti altri che i Borgia, gli Sforza, i Malatesta, e i più corrotti novellieri avessero davvero rappresentato tutto l'essere morale della nazione, questa sarebbe caduta in un tale abisso da non poterne mai più risorgere in eterno. Il vostro giudizio deve certamente avere qualche cosa di unilaterale, di erroneo. È meglio lasciare in pace i popoli, quando non si è in grado di giudicarli serenamente, sicuramente.

Ed invero queste condanne nazionali, che pretendono essere giudizii imparziali, dimenticano prima di tutto, che la storia del pensiero italiano cominciò allora con Dante e si chiuse con Michelangelo, le due intelligenze, cioè, che hanno in supremo grado quelle qualità appunto che si vorrebbero a noi negare; hanno tutta quella così detta intimità, tutto quel carattere epico, tragico, che nello spirito italiano dovrebbe assolutamente mancare, perchè manca nel Rinascimento. Dante e Michelangelo, si disse, furono due eccezioni. Certo i sommi ingegni sono eccezioni; ma sono pur quelli che meglio rappresentano il paese che li produce. E dimenticano ancora, che la storia da noi conosciuta, da noi studiata si occupa quasi sempre di quei soli ordini sociali che, nel Rinascimento italiano, furono primi a sentire l'azione corruttrice dell'atmosfera politica mutata, e che perciò più rapidamente si erano corrotti, avendo subito preso parte al nuovo vivere sociale. Che se quegli scrittori avessero voluto studiare davvero quali erano allora le condizioni dello spirito italiano, avrebbero dovuto esaminare anche gli ordini inferiori della società, nei quali, in tutti i tempi, le vecchie tradizioni si mantengono più lungamente, e vedere quali sentimenti, quali caratteri erano in essi. Avrebbero allora modificato i proprii giudizii. Una prova sicura di quanto diciamo si ebbe recentemente in due libri, che furono pubblicati dal compianto Cesare Guasti, e sono gli epistolarii d'un oscuro notaio fiorentino e di una gentildonna, che non aveva molta coltura. Ebbene, leggendo tali lettere (quelle del notaio Mazzei sono della fine del XIV secolo e dei primi del XV; quelle della Macinghi Strozzi, sono della fine del secolo XV), leggendole, ci par di tornare quasi due secoli indietro. Noi ritroviamo in esse ancora vivi tutti quei più puri sentimenti morali, che ricordano i tempi in cui la Repubblica veniva fondata, quando Firenze viveva sobria e pudica, e possiamo non solo scoprire un altro lato della società di quel tempo, ma vedere anche quali furono veramente gli uomini che fondarono la libertà, quali i loro animi quando essi crearono quelle grandi istituzioni, che i politici e letterati del Rinascimento cominciavano a disfare. Chi vuole accuratamente conoscere il Rinascimento e l'opera sua, per cavarne giudizii generali sull'indole del popolo italiano, dovrebbe pur distinguere ciò che in esso sopravvive del passato, e dà ancora frutti di cui il solo Rinascimento sarebbe stato incapace. Nel popolo, negli ordini inferiori della società, questo passato sopravvive sempre più tenacemente, e si può meglio studiarlo. Anche ai nostri giorni si ritrovano qualche volta gli avanzi di un passato assai lontano, che non dobbiamo trascurare nelle società moderne, se vogliamo conoscere bene il tempo in cui viviamo. A giudicarla tutta, la società bisogna esaminarla da tutti i lati.

Certo quando noi guardiamo in Firenze il Duomo, il Palazzo Vecchio e gli altri monumenti che gli stranieri tanto ammirano e tanto studiano, dobbiamo ammirarli anche noi. Ma, sebbene assai pochi vi pensino, non meno ammirabile è la condizione in cui la Repubblica fiorentina lasciò le campagne della Toscana, non per le amene colline, non per le ricche messi, ma per l'armonia sociale che vi regna, per le condizioni economiche in cui l'antica Repubblica pose il contadino. Nel 1289 i Fiorentini fecero una legge, la quale, con un linguaggio che sembra quello stesso dell'Assemblea Costituente in Francia, dichiarava che la libertà è sacra, inalienabile, che è voluta da Dio, è necessaria alla prosperità di tutto il popolo, e liberava perciò i contadini da ogni servitù. E sono questi i tempi medesimi, in cui s'iniziava quel contratto agrario che fino ai nostri giorni fu tanto ammirato, che il nobile animo del Sismondi chiamava uno dei grandi monumenti della sapienza civile degl'Italiani, che gli economisti moderni dichiarano uno dei mezzi più efficaci a liberare la società moderna dal pericolo sociale d'un conflitto di classi, da cui essa sembra minacciata. E questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della società spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Così si chiamarono allora, e così si chiamano oggi. E allora come ora, o Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che è tanta parte della prosperità nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come noi, e crescere con la sua la nostra felicità. E questo fu fatto dai Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto sentimento morale.

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