Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze, soleva dire che i Fiorentini non avevano mai così bene impiegato il loro denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiamò nella Città tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono mai così profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperità economica, ma io credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperità intellettuale e morale. Forse anzi in ciò sta una non ultima ragione del perchè tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia inutile il non avere lo sguardo turbato dalle ingiuste sofferenze di coloro che onestamente lavorano. Credo invece, che giovi assai agli artisti ed ai poeti, i quali si sollevano nel regno dell'arte; giovi, affinchè le creazioni della loro fantasia serbino tutta la sacra purità dell'ideale, il serbare, con la mente serena, una coscienza non tormentata da rimorsi. Ma allora quelle immagini divine dei poeti, dei pittori del Trecento e del Quattrocento, di cui parlammo, non ci appariranno più come l'Angelo di Dante nella bolgia infernale, che traversa sdegnoso, frettoloso la palude Stige. Esse non vengono di fuori, sono nate nella coscienza stessa di questo popolo, nei giorni in cui difendeva la libertà e rispettava la giustizia, sono come la sostanza stessa della sua anima. E così, o Signori, voi vedete, io spero, come lo studio delle origini possa gettare una qualche luce o rischiarare anche i fatti della storia posteriore del Comune e della società italiana.
VENEZIA E LE REPUBBLICHE MARINARE
DIP. G. MOLMENTISignore e Signori,
E dove a chi potrei oggi meglio parlare di Venezia, se non a voi qui in Firenze, in Firenze così legata alla città delle lagune anche da recenti prove d'affetto? Voi la conoscete, ma è sempre curioso il ricordarla la storia di codeste genti veneziane, che non aspettano la loro fortuna, come limosina dal caso, ma la conquistano colla prodezza e l'accorgimento: si fanno innanzi tra la larva d'impero dei Cesari bizantini e i rinnovantisi invasori stranieri, divengono signori di grandi traffichi e conquistatori di vaste provincie, fiaccano l'orgoglio dei maggiorenti e abbassano l'insolenza del popolo, piantano il vessillo repubblicano sulle torri del palazzo imperiale di Bisanzio, divengono i guardiani d'Italia contro gl'infedeli della religione e gli infedeli della libertà; non s'abbassano mai nè anche quando li stringe da presso il nemico: passano, a traverso la storia, eroi talvolta, talvolta uomini pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichità alla romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accennerò, o signori, alle umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare d'Italia se non per ciò che con Venezia ha rapporto.
Quella regione, da una parte racchiusa dall'Adige e dal Timavo, dall'altra lambita dalla curva settentrionale del golfo Adriatico e difesa dalle Alpi tirolesi e carintie, era conosciuta dai Romani col nome di Veneto. Le origini degli abitanti si collegavano ad Ilio, secondo una tradizione non del tutto creata dalla boria nazionale, ma ravvalorata dai versi dell'Eneide (I, 246). Eneti viene dal greco e vuol dire laudabiles, ma ai veneti cronachisti la nobiltà del cuore non basta e trovano che la voce enetici viene da Enea.
La regione era lieta di città popolose e fiorenti: Padova, Aquilea, Altino, Verona; di paesi ferventi di vita: Ateste, Monselice, Concordia, Treviso, Vicenza, Oderzo, Belluno, Ceneda, Acelo (Asolo). Collocati alle porte orientali d'Italia, caddero primi, nel V secolo, sotto l'impeto delle turbe barbariche, che diruparono dalle Alpi. Gli abitanti, dinanzi a quelle disperate catastrofi, cercarono rifugio là dove le acque dei fiumi dell'Italia superiore, giungendo al mare si fermano, stagnano, si dilatano in lagune. Nulla però in esse d'insalubre. Il Lido, stretta lingua di terra, che separa dal mare la laguna, è rotto in varie aperture, in vari porti, che lasciano libero il corso delle acque. Il flusso marino, che ora copre or lascia a secco quei fondi melmosi, porta via ogni germe mefitico. Nulla di triste. Il cielo, che non splende del troppo vivo fulgore meridionale e non ha la fredda vaporosità del settentrione, si rispecchia nelle acque con quei magici riflessi, con quella smorzatura di toni, con quelle armonie di tinte, che educarono l'occhio dei pittori veneziani. Erano isole, se non deliziose e frequenti, come alcuni sognarono, non abbandonate e squallide, come credettero altri, e abitate e conosciute dai naviganti del tempo romano. Si può arguir ciò da alcuni passi che a quelle isole si riferiscono in Mela, in Tacito, in Plinio, nell'Itinerario di Antonino, in Erodiano. I due limiti estremi della regione insulare, non esposta all'ira degli invasori, cui mancava il navilio, erano, da una parte Grado, dall'altra, Capo d'Argine.
Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perchè uno degli aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si riferisce ad Altino, città prospera per commercio, magnifica per edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenità delle ville, degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale:
Æmula Bajanis Altini litora villis.
I primi cronachisti veneti illuminano di luce poetica e religiosa le antiche dimore dei loro padri. Tutti i grandi popoli, dalla Grecia e da Roma a Venezia, hanno carezzata la loro origine leggendaria, e più da essa si sono allontanati, grandeggiando, più si compiacquero non a collegarsi con umili e rozze origini storiche, sinceramente esplorate, ma con quel vago e indefinito della leggenda, che ritrova anche nei primi albori della vita la grandezza. Così le città greche rannodarono le antiche origini con gl'Iddii. Narra la cronaca d'Altino come agli Altinati e agli Aquileiesi Iddio abbia manifestata l'imminente venuta degli Unni. Ciò avveniva nel 452, e si sa come siano intimamente collegate l'origine di Venezia e la leggenda di Attila, intorno alla quale si raccolse ogni ricordanza di distruzione, di sangue, di stragi. Gli uccelli nidificanti nelle mura e sulle torri di Altino fuggirono portando nei becchi i loro nati. Non sapendo una parte di cittadini dove trovare uno scampo, dopo un digiuno di tre giorni pregarono Iddio di manifestar loro se dovessero affidarsi alla terra o alle navi. Si udì una voce: Ascendete sulla torre eguardate verso la parte australe. Molti montarono sulla torre e videro in vicinanza alcune isole, e per tali figure s'intese che doveasi andar là ad abitare. Un terzo circa di cittadini, preceduti dai tribuni e dal clero, si diresse con barche alle lagune e fondò la celebre Torcello. Due sacerdoti, Geminiano e Mauro, incuoravano i fuggitivi e gli spiriti atterriti si commovevano, si sublimavano nelle visioni dell'infinito. Appariva allora a Mauro una bianca nube, dalla quale, insieme con due raggi di sole, scendea la voce di Dio, che imponeva di innalzare in quel luogo una chiesa. Alla voce di Maria, che dava, in altro sito, lo stesso comando, seguiva un prodigioso miraggio: le bianche nubi si squarciarono e lasciarono vedere lidi fiorenti, pieni di popolo e di gregge.
Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.
Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.
Una cronaca, di poco posteriore all'Altinate, quella di Grado, narra che il patriarca Paolo, ritornando coi profughi all'antica patria, Aquileia, ebbe una visione, dalla quale apprese come la sævissima longobardorum rabies avesse distrutto quella città. Egli allora si ritirò a Grado, divenuta poi la più ricca fra le isole veneziane e la sede principale della potestà ecclesiastica.
Eraclea, popolata essa pure da Aquileiesi e dal fiore degli Opitergini, fu sede del governo.
I profughi di Asolo e di Feltre ripararono a Jesolo, più tardi chiamata Equilio, per le razze dei cavalli, che vi si allevavano.
Gli scampati dalla distruzione di Padova si ridussero a Matemauco, l'odierno Malamocco.
Il popolo di Concordia cercò riparo nell'isola, dalle capre che vi condussero i pastori, chiamata Oaprule ed oggi Caorle.
Vissero tutte la fulgida vita della giocondità e della ricchezza. Ora, dove esse sorgevano, si è fatto un triste deserto. Qua e là qualche rudero; eco romita dei vecchi secoli. Vi regnano lo squallore e la malaria.
Esiste ancora in tutta la suprema bellezza dell'arte e delle memorie, Rivoalto, la più modesta di tutte le isole, che a poco a poco unita ad Olivolo, indi a Luprio e finalmente alle Gemine e a Dorsoduro, formò l'odierna Venezia.
L'operosità rinvigorita della sventura e la forza raddoppiata dagli ostacoli animano quella moltitudine di persone, varie di condizioni, di costumi, di sesso, di età, e cento anni circa dopo la distruzione di Attila, i nuovi abitatori delle isole sono descritti con vivi colori da Cassiodoro, in una lettera magniloquente ai tribuni marittimi delle lagune, probabilmente ufficiali inferiori goti, ai quali il ministro, a nome regio, ordina di preparare le navi per trasportare dall'Istria a Ravenna il vino e l'olio.
Provveduti di navilio, arditi sfidano le tempeste del mare e le correnti dei fiumi: erigono case, come nidi d'uccelli marini; collegano la terra con fascine e dighe: ammucchiano sabbia per rompere le onde infuriate: convivono in eguaglianza poveri e ricchi; non invidia, non vizî li macchiano; ogni loro emulazione sta nel lavoro delle saline, da cui nasce il frutto al quale ogni produzione è soggetta e che dell'oro è assai più prezioso.
Nessuna descrizione più attraente, quantunque il ministro di Teodorico fosse disposto ad abbellire il quadro, oltre che dall'indole sua, anche dal bisogno che aveva il suo sovrano di trasportar vettovaglie coi navigli di quei Veneti, i quali del resto riconoscevano nei conquistatori goti l'alto dominio sulle isole.
Tuttavia in questo primo accenno storico, quel popolo risorgente dallo squallore dei bassi tempi alla luce di un'êra novella, si rianima. Noi la vediamo la tranquilla verdura di quelle isolette, specchiantisi nel nitido specchio delle lagune. Oltre alle paludi giuncose, l'occhio si posa sul mare romoreggiante. Qui la pace inconturbata potea destare negli esuli il rimpianto e le memorie delle città disparite, gli splendori distrutti e i tristi albori della nuova patria; là, il furiar delle tempeste e il romoreggiar delle onde rendeano l'imagine dei tumulti della esistenza, di lotte, di pericoli, di gloria. Ma le tranquille melanconie dell'asilo non cullarono quelle anime, da tanti dolori agitate, in una pace mesta. Essi allungarono lo sguardo, oltre le paludi, sul verde Adriatico, e di esso sfidarono le lotte e i pericoli e in esso cercarono la gloria. Lotta e gloria ecco il grido anche dei secoli venturi. L'energia di quegli uomini si eleva ad eguale misura delle difficoltà e degli ostacoli naturali: la loro vita tutta si riassume nello scontrar pericoli, domarli, trionfare; una stessa passione li agita, li comanda, li possiede.
Alla vita frugale e laboriosa seguono più prospere condizioni. S'interrano dossi paludosi: ogni prominenza di sabbia, ogni più breve isoletta è abitata; si regolano i canali tortuosi, si preparano approdi e ripari alle barche, si arginano saline, si elevano mulini, si scavano cisterne, si riducono prati, si piantano vigne. Ma anche nel sicuro asilo della laguna giunge l'eco di battaglie e di stragi, di ribellioni e di lotte. Nella Venezia continentale, da prima si agitano guerre fra Ostrogoti e Bizantini, fra Bizantini e Franchi e Longobardi: poi lotte dei patriarchi di Aquileia e Grado e dei vescovi veneti ora coi Longobardi, or coi Bizantini, e controversie fra il papa e i patriarchi e i vescovi. In breve la pace incominciò a turbarsi anche nella Venezia marittima.
La prima costituzione politica, il reggimento dei tribuni marittimi, fu imitato dai Bizantini, sotto la sudditanza dei quali, sciolti ormai dalla gotica, passarono i Veneti. Confermano ciò, tra le fonti più antiche, la Storia gotica di Procopio, le inscrizioni di Grado del secolo VI, edite dal Filiasi e dal Mommsen, la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono e gli Annali del franco Eginardo. Allorchè i Bizantini perdettero le città più importanti della Venezia terrestre e ritirarono anche dalle isole i loro eserciti, gli abitanti, non più soggetti a un dominio immediato, elessero un libero reggimento militare di tribuni.
Cessati i pericoli e la pietà e i ricordi delle comuni sventure, incominciarono le rivalità fra le isole, più o meno importanti, fra i tribuni maggiori e minori; poi sorsero contese sui confini o sulla proprietà delle terre coi Longobardi vicini, si sentì necessario creare nelle isole un capo unico, un duce, che il popolo, col suo liquido eloquio, chiamò doxe, titolo ritenuto poi sempre e con lievi mutamenti anche nella lingua e nelle relazioni internazionali. Al nuovo capo, eletto a vita, podestà quasi da sovrano, ricchezza di redditi e di insegne, pari alla dignità, spada, scettro e corona; ei giudice di liti e datore di ecclesiastici benefici: a lui il popolo richiedeva perfino la benedizione nelle adunanze solenni. Tuttavia le cause importanti dovevano essere trattate nell'assemblea generale e non già dal doge come sovrano assoluto.
Il primo Doge, Paoluccio Anafesto, con l'assenso o almeno senza opposizione della Corte greca, fu, nel 697, in un'assemblea del clero, dei tribuni e dei più notabili cittadini, eletto in Eraclea.
Paoluccio strinse coi vicini Longobardi un patto, il primo, di cui si abbia memoria nelle storie veneziane, che determinò i confini dei due Stati e le ragioni scambievoli dei commerci.
In Eraclea, la vita ci si presenta assai diversa da quella descritta con idillica poesia da Cassiodoro. Abbiamo accennato come le varie isole dell'estuario fossero asilo agli abitanti delle desolate città di Altino, di Aquileia, di Padova, di Oderzo, di Concordia, di Vicenza. Ma una buona parte di quei fuggitivi s'erano riparati in luoghi, dipendenti anche prima del loro municipio, come Grado, ad esempio, che aveva fatto parte della dizione aquileiese: altri invece erano venuti ad occupar terre, sulle quali i padri loro non aveano mai avuto alcun diritto. Nei primi tempi, la sventura comune non avea lasciato luogo a discutere i diritti di ciascheduno, e poveri e ricchi, come dice Cassiodoro, conviveano colà in eguaglianza. Ma quando tacque il timore dei barbari, sorsero gelosie e contrasti di elementi diversi, tendenti a soverchiarsi a vicenda. Le ire interne, rinfocolate ora dai Greci, ora dai vicini dominatori della terraferma, diedero origine alle due parti veneto-greca e veneto-italica. Di qui torbidi mutamenti di governo. Non più il doge, ma l'annuo governo dei maestri dei militi. Dopo poco si ritornò ai dogi e per togliere ogni gelosia si trasferì la capitale a Malamocco. Alle rivalità dei maggiorenti, alle gare delle due opposte fazioni, s'aggiungeano le discordie e le vendette del popolo, il quale, specie quando il doge tentava rendere dinastico il potere vitalizio, associandosi quale il figlio, quale il fratello, si ribellava, uccideva, incendiava. È un fiero delirar di battaglie e di stragi. Nel 717, Eraclea è assalita e messa a fuoco dagli abitanti di Equilio, che danno morte al doge Anafesto e a' suoi fidi. Nel 737 il doge Orso è ucciso a furore di popolo; nel 741, il maestro dei militi Giovanni Fabriciaco è deposto e abbacinato; nel 755, Galla si ribella al doge Diodato, lo imprigiona, lo accieca, e usurpa il ducato per poco più d'un anno, trascorso il quale, il popolo insorge contro Galla e gli appresta la stessa sorte, ch'egli avea procurata all'infelice antecessore. Nel 764, i nobili macchinano le fila di una congiura, rompono in furibondo partito, traboccan di seggio il doge Monegario e gli strappano gli occhi. Nel 801, circa, il doge Giovanni Galbaio, fautore dei Bizantini, manda il figlio a Grado, con una divisione della flotta, per assassinarvi quel Patriarca, che inchinava invece ai Franchi. Il figlio di Galbaio prende d'assalto la città, imprigiona il Patriarca e lo fa precipitare dalla torre più alta del Castello. Ma, dopo tre anni, il doge Galbaio e il figlio Maurizio debbono fuggir da Venezia per non cader vittime di una congiura, ordita dal nipote dell'ucciso patriarca di Grado. Il partito franco riacquista allora vigore ed è eletto doge Obelerio. Così che non errava il Machiavelli affermando Venezia, forse più d'ogni altro comune italiano dell'età di mezzo, aver provato il furore delle fazioni.