Alessandro Manzoni era stato dunque poeta e profeta; poichè aveva fin dal Ventuno vaticinato il grande consenso di tutto il mondo civile alla causa italiana. Nel Quarantotto infatti, tutto ciò che vi era di buono e di generoso nell'Europa civile di quel tempo, si raccoglieva veramente intorno alla rivoluzione italiana e faceva voti per lei.
La grande poesia del Quarantotto dunque, come vi ho detto in principio, o Signore, sta nei fatti principalmente e nelle condizioni degli animi.
E questo è ciò che quasi sempre si avvera. Non domandate che la poesia si renda interprete di ciò che avviene nel cuore umano quando il cuore umano è gonfio di passioni, quando la passione grida essa impetuosamente le sue voci non traducibili con parola precisa. Vi è una legge psichica di cui fanno testimonianza le storie di tutte le letterature, o Signore: i due grandi fattori della poesia sono, da una parte, l'aspettazione e la speranza che guardano innanzi, dall'altra il ricordo e il desiderio che si volgono indietro. La poesia o spera o ricorda. Quando l'uomo ama nel parossismo della sua passione, sia anche poeta come Dante e come Petrarca, non aspettate da lui dei versi d'amore. I versi d'amore egli li compone, e sono veramente degni dell'arte, quando spera e sogna la felicità agognata, oppure quando ricorda con dolcezza e con tristezza la felicità che è fuggita da lui. Questi i due momenti psichici, i due fattori veri della poesia. Quello che avviene degli individui, doveva anche avvenire nella grande collettività del popolo italiano. Non è nell'orgasmo, non è nell'esaltazione, non è tra le luminarie e i baccani e le ansie dell'aspettazione, che la musa (la quale come disse Parini, formulando un canone eterno dell'arte «orecchio ama pacato e mente arguta e cuor gentile») poteva meditare e comporre il grande carme degno degli avvenimenti.
La poesia, lo ripeto, fu nei fatti. E se qualcheduno di questi fatti vogliamo ricordare, io potrei dirvi che la più alta poesia del Quarantotto esalò da un meraviglioso accordo, che i fatti inaspettati fecero balenare alle anime pensose e aspettanti di tutto il mondo civile, tra l'amore della libertà e l'amore della religione. Fu davvero un momento storico, meraviglioso, o Signore; perchè, se voi percorrete la storia del nostro Risorgimento, voi troverete che nessuno ha mai detto e spero che nessuno dirà mai che fra amor di patria e religiosità vi sia un dissidio incompatibile. Ma è un fatto, che una certa diffidenza fra l'una cosa e l'altra vi è sempre stata, e purtroppo vi è ancora. Da Dante Alighieri, di cui il cardinale Beltrando Del Poggetto voleva disperder le ceneri perchè lo aveva in odore di eretico, alle censure ecclesiastiche dei libri di Antonio Rosmini, i sintomi e i sospetti di questo dissidio (non diciamo ora per colpa di chi) si sono sempre, più o meno, manifestati in Italia. E non fu questa l'ultima causa (diciamolo con coscienza d'uomini liberi) delle nostre divisioni e della debolezza nostra di fronte alle altre nazioni!
Poco prima dell'epoca di cui ci occupiamo, Giuseppe Mazzini aveva inalberata una fiera tradizione ghibellina, che non ammetteva patto nè temporale nè spirituale col sacerdozio cattolico. Cesare Balbo invece questo patto lo accettava e lo voleva. Si formò insomma una tradizione neoguelfa accanto a quella tradizione ghibellina; e gli animi ne rimanevano perplessi e dolorosi; e le coscienze timide non sapevano a cui fidarsi. L'amore di patria, come tutte le sante cose che la natura istilla nel cuore dell'uomo, mandava le sue querule voci, ma queste voci parevano superate e fatte tacere da una voce anche più autorevole Quando, a un tratto, ecco che un vento liberatore spazza via tutta questa nebbia e nel cielo rasserenato appaiono congiunte, affratellate, la patria e la fede, perchè Pio IX dal balcone del Vaticano aveva benedetto l'Italia Ecco uno degli aspetti veramente poetici del Quarantotto! Un altro aspetto egualmente poetico di questa epoca, anch'esso intimamente connaturato colla storia, risultò da questo, che il movimento politico redenzionista suscitatosi nella penisola e in essa maturato con lunga preparazione, mercè l'apostolato del Manzoni, del Balbo, del Gioberti, del Rosmini, del Troia, e dello stesso Mazzini, si differenziò dai movimenti anteriori per la sua maggiore modernità. Guardate infatti: dal '96 al '31 gli Italiani erano insorti sempre in nome di un ideale classico molto austero e molto elevato, ma un po' troppo lontano dalla immediata percezione del nostro sentimento. Era il grande ideale classico di Roma antica, erano i fasci, i littori, la grande Repubblica conquistatrice del mondo, e tutto quell'insieme di reminiscenze e di anacronismi, che il Giusti aveva già schernito colla frase «i grilli romani.» Invece il Quarantotto, preparato da tutta una letteratura e da tutta una cultura italiana più moderna, richiamò il sentimento della nazione a qualche cosa di meno devulso, di meno separato da noi. Per forza di avvenimenti l'Italia del Quarantotto non mira più a Roma antica, mira piuttosto al Medio Evo; voglio dire a quello che il Medio Evo conteneva di tradizione ancora viva, ancora permanente in mezzo a noi. Lo stesso neoguelfismo aiutava in questo. Quindi i poeti evocano, piuttosto che Roma antica e Bruto e i Gracchi, la Lega Lombarda e le Crociate; e i giovani volontari vanno al campo avendo sul petto una croce fiammante che significa insieme un ideale politico e religioso. Il Quarantotto evoca i liberi Comuni d'Italia, insorgenti eroicamente in nome dei loro civili diritti, in nome dei loro focolari e delle loro chiese, e combattono e vincono l'Imperatore. Legnano, Roncaglia; ecco i nomi che fervono nelle menti, che splendono alla fantasia come dei fari!
VIn questo il romanticismo ebbe la sua parte. Tutte quelle evocazioni storiche uscite dalle liriche, dai poemi e dai romanzi, avevano familiarizzato le fantasie dei nostri giovani e delle nostre donne con quanto di più cavalleresco e di più poetico aveva il Medio Evo. Tra quel cavalleresco medioevale e i nuovi sentimenti suscitati dai fatti nuovi esisteva una reale affinità, una corrente di simpatie e di impulsi, che la classica Roma non avrebbe più potuto suscitare. Noi non guardavamo più al Campidoglio e alla Legione antica, guardavamo al Carroccio, guardavamo ai cavalieri della Morte, che avevano giurato di morir tutti piuttosto che permettere che l'altare del Comune benedetto dal Vescovo cadesse in mano dello straniero. Un potente alito di poesia cristiana correva nell'aria ed empiva i cuori.
Ma, come opera d'arte, io ve lo ripeto, la grande poesia non nacque e forse non poteva nascere. Mancava quella temperatura ideale nè troppo calda nè troppo fredda, che è condizione necessaria al nascere e maturarsi della pura opera d'arte, della poesia veramente degna di vivere nei secoli. Pensate inoltre, o Signore: il Quarantotto fu una gran luce, ma ebbe ancora, come sapete, le sue fosche ombre. Io mi sono astenuto da qualunque giudizio politico durante il mio discorso e non declinerò ora da questo mio proposito, perchè voglio lasciare intera libertà ai conferenzieri che mi succederanno di giudicare uomini e cose; ma credo di non rendere che un omaggio alla verità storica da tutti riconosciuta, ripetendovi che il Quarantotto, se fu una gran luce, ebbe ancora delle ombre tristissime. Sotto tutti quei fiori, molti rettili strisciarono E per non essere trascinato dall'attraentissimo argomento, mi contenterò di ricordare una sentenza di Massimo d'Azeglio, il quale, scrivendo al suo amico Pantaleoni, diceva: «Credevamo di essere degli uomini e ci siamo accorti di essere dei fanciulli.» La sentenza non potrà, io credo, essere tacciata di severità.
E venne infatti la catastrofe, la grande catastrofe punitrice. Vennero l'assassinio di Rossi, le sconfitte Lombarde, le discordie pazze, le illusioni fanciullesche, i tumulti minacciosi, la fuga a Gaeta, e finalmente Novara, la tragica Novara. Carlo Alberto, dopo avere per un giorno intero cercato la morte sugli spaldi della fulminata città, dovette persuadersi che, se l'onore era salvo, tutto il rimanente era perduto! Ma pensò che egli poteva ancora rendere un grande servigio alla sua povera Italia, togliendosi di mezzo e lasciando il figliuolo, senza rancori e preconcetti, libero a trattare col vincitore i patti della triste resa.
E venne infatti la catastrofe, la grande catastrofe punitrice. Vennero l'assassinio di Rossi, le sconfitte Lombarde, le discordie pazze, le illusioni fanciullesche, i tumulti minacciosi, la fuga a Gaeta, e finalmente Novara, la tragica Novara. Carlo Alberto, dopo avere per un giorno intero cercato la morte sugli spaldi della fulminata città, dovette persuadersi che, se l'onore era salvo, tutto il rimanente era perduto! Ma pensò che egli poteva ancora rendere un grande servigio alla sua povera Italia, togliendosi di mezzo e lasciando il figliuolo, senza rancori e preconcetti, libero a trattare col vincitore i patti della triste resa.
Poi seguì un periodo che per sè stesso potrebbe essere argomento di un lungo discorso. Il giovane Re sorgeva appena sul trono, e d'ogni intorno era circondato da insidie, da accuse, da bieche discordie, da diffidenze innominabili. Ebbene, o Signore, appena comincia l'epoca dei tristi ricordi, ecco che la poesia, come vera e grande opera d'arte, accenna a rifiorire. Giovanni Prati, che è stato mediocre nel canzoniere di Carlo Alberto, diventa il poeta sacro dell'anima italiana quando intuona una solenne e melanconica melodia all'arrivo delle sue fredde spoglie dalla terra dell'esilio, dove il Re magnanimo era andato a morire. Comincia, o Signore, la divina ispirazione delle memorie! Il poeta, rivolgendo uno sguardo indietro, trova accordi inusitati e crea una visione che è una delle più potenti, non dubito di affermarlo, che abbiano mai lampeggiato a fantasia di poeta italiano. Tutta la Trenodia pel ritorno delle ceneri di Carlo Alberto è un misto di palinodie dolenti e di speranze generose, di rimproveri ai popoli, di rimproveri ai Principi. Per un momento il poeta accenna a voler riunire gli uni e gli altri in un sentimento profondo di pietà e di commiserazione scambievoli, quasi col proposito di riprendere insieme, ammaestrati dai comuni errori, la via aspra e gloriosa. Ma poi, avvertito da un istinto infallibile che lo spinge a fissare gli occhi nell'avvenire, Giovanni Prati volge la sua ultima parola al giovane Re del Piemonte. E anche questa parola, sussurrata all'orecchio del Monarca, in mezzo a tante insidie, a tanta diffidenza, a tanti maliaugurî, che, come sinistri augelli, allora svolazzavano intorno al trono, anche questa parola è improntata di un profondo carattere di poesia: poichè è la poesia della speranza!
Vittorio, Vittorio! Tu giovane Anteo,
Per questa dolente nel fiero torneo,
Tu l'ultima lancia sei nato a spezzar!
La croce sabauda, che ornò sette troni,
Dinanzi alla furia de' tuoi battaglioni,
Raggiando sull'armi l'antico splendor,
Segnal di vittoria per gli occhi dei forti,
Segnal d'allegrezza per l'ossa dei morti,
Verrà benedetta sull'Adige ancor!
Ed ecco che la poesia italiana, la quale nell'orgasmo e nello stupore dei grandi avvenimenti non aveva trovato la parola sua, ecco che la trova nei giorni memori dello sconforto; e fa essa rifiorire la speranza! Quasi per dare una nuova conferma a quella sentenza di Federigo Schiller: che le cose di quaggiù, hanno bisogno di morire nella realtà, per rivivere e rifulgere immortalmente nell'ideale dell'arte
LA POESIA DEL GIUSTI
CONFERENZADIISIDORO DEL LUNGOSignore e Signori,
Chi dice «poesia del Giusti» (della quale, in relazione con la poesia italiana, mi propongo parlarvi) intende comunemente qualche cosa di agevole e svelto, nato senz'ombra di artifizio, un concepimento simultaneo e un'unione così schietta d'idea e di parola, che la parola vela appena l'idea senza punto impacciarla, e letto che si è ci pare che la cosa non potesse proprio esser detta altro che in quel modo lì. Nè fanno ostacolo il verso o la rima: perchè i metri sono quasi sempre i più snelli, i più vivaci, i più carezzevoli; nè il verso chiede mai al metro nulla di più di quello che il metro, secondo il suo naturale congegno e le pose sue ovvie, conceda; e la rima, la rima sembra appostata in fondo al verso a riceverlo a braccia aperte, e che se vi accadesse di ripetere quelle cose conversando, incappereste in quelle rime anche voi. Conversando, sicuro; perchè il Giusti è il poeta più conversevole che vi paia aver mai conosciuto: e quando egli scherza con voi, voi ne sentite la voce, voi lo vedete sorridere, e ammiccare, e comporre il viso, come il discorso richiede; cosicchè non manchi a quel tanto che la parola scritta ha di muto, non manchi (tale è, leggendo, l'illusione) l'avvivamento del tono, dello sguardo, dell'atteggiamento, del gesto.
Qual altro dei nostri poeti ci fa simile impressione? qual altro ci procura sensazioni consimili?
Ma la dimanda è troppo affrettata. Prima di rispondere, bisogna, a voler rispondere con giustizia, bisogna pure riflettere, se alcun altro de' nostri poeti facili e piacevoli ci fa pensar tante cose e tante altre sentirne; e dico, cose alte, nobili, a pensare, profonde o commoventi a sentire; quante si sentono o si pensano leggendo i suoi versi. Tutto quel «piccolo mondo antico» fra il '31 e il '49, che ci sfila gaiamente dinanzi per la lanterna magica di quei componimenti motteggevoli e ironici; co' suoi personaggi grotteschi e contraffatti, o disorpellati delle loro lustre, o messi addirittura al nudo del loro brutto e cattivo, o piantati alla berlina con le loro debolezze, o trascinati al redde rationem delle opere loro: cotesto piccolo mondo, del quale egli v'invita a ridere, ve lo atteggia per modo dinanzi, che nel giudicarne voi dobbiate sempre fare appello ai sentimenti vostri migliori. Al sentimento della rettitudine, nel giudicare i Gingillini e i Girella, i Granchi e i Ventola, i Presidenti di buon governo e i loro Birri a congresso al sentimento dell'umana dignità, nel far la debita stima di quell'aristocrazia sfiaccolata, di quei parassiti del regio rescritto, di quelle croci di Santo Stefano sul petto dei mal arricchiti, di quelle scritte matrimoniali combinate fra l'albagìa spiantata e l'ambizione plebea: al sentimento della moralità educatrice, se motteggia sull'imperiale e real giuoco del lotto, o sul reuma d'un cantante, sull'abuso sentimentale del cloroformio, sulle bugie degli epigrafai: al sentimento sanamente affermato della umana fraternità, se sfata con ironica iperbole le pericolose utopie umanitarie, le ipocrisie degli abolitori della guerra: al sentimento della pedagogia naturale, o diciamo senz'altro al prezioso senso comune, se fra gl'Immobili e i Semoventi rivendica la libertà del fanciullo che i taumaturghi del metodo vorrebbero plasmare a macchina, e averne fantocci tutti d'un pezzo e d'un getto: al rispetto delle memorie ispiratrici, se vi descrive il ballo esotico nel vecchio palazzo appigionato dai posteri di Farinata, o scaglia sul viso dei gaudenti, dimentichi in carnevale perpetuo, il brindisi che esalta le gloriose quaresime degli eroi trecentisti: alla carità santa d'Italia madre, quando per l'incoronazione austriaca sfilano in complice schiera i principotti italiani; o lo Stivale fa, dall'orlo al tallone, la sua storia dolorosa; o il poeta in Sant'Ambrogio di Milano, fra que' poveri Croati e Boemi mandati qua a odiare ed essere odiati, sospira una patria per se e per loro; o inculca e ribadisce a quelle polizie miopi e sordastre il delenda Carthago dell'indipendenza dallo straniero; o protesta al suo Gino Capponi contro l'insulto codardo alla Terra dei morti.
E poi, quando lo scherzo ha meno alta intonazione, e ritien più del bonario e del familiare, ma sempre con qualche vena di malinconico; le Memorie di Pisa, il Giovinetto romantico, il Profugo di Rimini, l'Amor pacifico, il San Giovanni canonizzato sugli zecchini d'oro, Momo salmista e predicatore, le virtù della Chiocciola, il re Travicello; nessuna di queste geniali comunicazioni della benevola ironia del Poeta passa pel vostro spirito, senza lasciarvi altresì qualche grano di moralità gentile, fermentatrice di bene.