La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I - Various 3 стр.


E poi, quando lo scherzo ha meno alta intonazione, e ritien più del bonario e del familiare, ma sempre con qualche vena di malinconico; le Memorie di Pisa, il Giovinetto romantico, il Profugo di Rimini, l'Amor pacifico, il San Giovanni canonizzato sugli zecchini d'oro, Momo salmista e predicatore, le virtù della Chiocciola, il re Travicello; nessuna di queste geniali comunicazioni della benevola ironia del Poeta passa pel vostro spirito, senza lasciarvi altresì qualche grano di moralità gentile, fermentatrice di bene.

E abbiate altresì presenti fin d'ora altre poesie del Giusti (pur abbandonando alla bibliografia le generiche e non caratteristiche, o nate morte che vogliate chiamarle) abbiate, dico, presenti, fra le vitali e vive quelle che non appartengono alla sua Satira: nelle quali, sia nelle poesie che chiamerei addirittura sentimentali, sia in quella Canzone reminiscente all'Alighieri maestro, egli è quanto alla forma un altro poeta, ma l'anima del Poeta, anche in codeste liriche, voi la sentite pur sempre la stessa.

Poeta, dunque, di profondo sentimento è, per sua propria missione, questo pur così amabile ed agile verseggiatore; questo umorista è, innanzi tutto, un moralista; questo satirico, nell'atto che ammonisce e sgrida, altresì persuade e commuove. E rilevati espressamente tali suoi caratteri, i quali è facile si accompagnino a difetti di aridità, pesantezza, accigliatura pedantesca; se, tuttavia, ci rinnoviamo la dimanda: Chi altri de' nostri è, alla pari del Giusti, poeta (come mi è venuto detto) conversevole? la risposta, nella quale credo dobbiamo convenire lettori e critici, è che nessun altro.

Di quanti altri, invero, sappiamo a memoria tanto e così svariatamente e a pezzi e bocconi, quanto di lui? E non è un saperne a memoria per averne voluto o dovuto imparare; è l'essersi egli fatto imparare senza che noi ce ne accorgessimo, solo per quel farci tanto pensare e sentire, con immagini e parole e locuzioni e rime trovate così a proposito e tanto di nostro genio:

Dal

Girella, emerito
di molto merito,

al Credo bestemmiato da Gingillino,

Io credo nella Zecca onnipotente
e nel figliuolo suo detto Zecchino;

dalla Ghigliottina a vapore, che

fa la testa a centomila
messi in fila,

alla visione papale del Gioberti, di

prete Pero, buon cristiano
lieto semplice e alla mano,

che

vive e lascia vivere;

dalla

pallida capelluta
parodia d'Assalonne,

alla coppia felice, che

l'amorosa si chiama Veneranda
e l'amoroso si chiama Taddeo;

dal giro pe' chiostri

contando i tumoli
degli avi nostri,

alla partenza da Pisa, lasciando

la baraonda
tanto gioconda;

dal

Viva la Chiocciola,
viva una bestia
che unisce il merito
alla modestia,

all'esopiano re Travicello

piovuto ai ranocchi;

dal più o meno manzoniano

Apollo tonsurato
che dall'Alpi a Palermo
insegna il canto fermo,

alla patriottica baffuta Babele, che succhia

sigari e ponci;

dal «Toscano Morfeo» e dal «Rogantin di Modena», al padre X. conservatore dello statu quo: dal Congresso di Pisa che suscita le escandescenze del solito Rogantino, tirannetto

da quattordici al duetto,

all'idillio pacifico, che si direbbe scritto per l'Europa d'oggi,

Nè mai tanto apparato
d'anni crebbe congiunto
all'umor moderato
di non provarle punto.
Dormi, Europa, sicura:
più armi, e più paura.

Rispostici pertanto a quella dimanda, che nessuno de' nostri poeti c'è come il Giusti affiatato e accostevole, un'altra subito ce ne facciamo: Donde attinse egli tale sua qualità? Fu natura? fu magistero? Ne trovò egli, studiosamente cercandolo, il segreto? o senz'altro, gli venne fatto così? Com'è che mettendoci in traccia di suoi predecessori, questi non si rinvengono, anche ragguagliando uomini a tempi, arte a vita sociale e civile, nè fra i Satirici propriamente detti, dall'Ariosto pel Menzini all'Alfieri; nè molto meno fra i Satirici urbani, che dai Latini anche più direttamente assumono il Sermone e l'Epistola: e neanco poi, dove più si spererebbe, fra i burleschi, dal Berni pel Fagiuoli e il Pananti al Guadagnoli?

Infatti, la satira del Cinquecento, della quale l'Ariosto è rappresentante meraviglioso, riflette spiccatamente il Rinascimento, che tutta informa la poderosa letteratura di quel secolo principe, ed è ancor essa, pur con andatura disinvolta e sprezzante, poesia signorile e dotta. La satira dei Secentisti, anche quando col Menzini si atteggia a vivacità fiorentinesca, non cessa di avere per nota sua dominante la declamazione retorica e l'amplificazione curiale. L'Alfieri poi, sfrondando cotesto frascame a buon dritto, però dissangua e stecchisce; e troppo gravemente, all'energia dello stile fa in lui difetto la spontaneità della lingua. Inoltre, il metro consacrato alla Satira è la terzina, la grave e magistrale terzina; come del Sermone è il verso sciolto, che il Gozzi accarezza blandamente, e il Parini magistralmente atteggia e trasforma: metri, l'uno e l'altro, nei quali la virtualità epica prevale sulla lirica, e perciò l'intonato e il governato sull'andante e familiare. Troppo dunque siamo, rispetto a chiunque di quelli scrittori, troppo siamo discosti dalla maniera del Giusti.

E questa medesima ragione del metro, già di per se pone distacco assai fra lui e i cosiddetti burleschi, sinchè la forma tradizionale anche di costoro séguita ad essere la terzina, o Capitolo, dal possente Berni e dal Lasca spigliato al corrivo Forteguerri o allo sprolungato Fagiuoli o al Saccenti triviale. Solamente quando il Pananti sostituisce a quelle divenute ormai dicerie la stanza narrativa de' poemi giocosi; la stanza narrativa, in sesta o ottava rima, che altri novellando (innominabili) avevano esercitata più o meno toscanamente, e che il Pananti atteggia specialmente al dialogo con felicità nuova; e quando il Guadagnoli, con maggior toscanità di chicchessia, assume cotesta umile e svelta sestina per le facezie de' suoi lunarii, alternando ad essa i metri della più tenue lirica, l'ottonario, il settenario, il quinario; soltanto allora la poesia burlesca toscana ci fa presentire il Giusti: ma Adagio a dare! come dice il popolo: chè chi senz'altro lo aggregasse a quella famiglia di scrittori con la quale pure qualche attacco, massime col Guadagnoli, lo ha, commetterebbe, più che un errore, un'ingiustizia. Perchè bisognerebbe e al Pananti e al Guadagnoli aggiungere una coerenza d'intendimenti sì civili e sì d'arte, che nè l'uno nè l'altro ebbero: bisognerebbe addossare al Giusti un bon po' di quella loro, sia pur simpatica, trasandatezza, dalla quale invece egli anche ne' suoi primi tentativi, anche in quelli un po' birichini e della vecchia maniera, quasi per istinto, si tenne lontano: e poi, forse, sarebbe lecito dire: «Vedete come la poesia burlesca, nel secolo decimonono, si è svolta di mano in mano, dal Pananti passando al Guadagnoli, e da questo salendo al Giusti.» Il fatto è, che essa in que' due rimase burlesca; e nel Giusti, conservando ma nobilitando l'impronta sua paesana, addivenne lei la Satira nuova, che, messa a riposo l'antica, ne adempì con ben altro vigore di effetti le veci.

E nata satira più specialmente della regione toscana, addivenne popolare in tutta Italia, sì perchè a Italia tutta aveva il cuore il Poeta, e sì per le virtù nazionali della lingua toscana. Nè in altre regioni d'Italia nostra fu potuta la satira del Giusti imitare tollerabilmente, come potè essere quella del Guadagnoli dal Fusinato veneto. L'Italia ebbe dalla Toscana il suo Giusti; e basta. Rimase poi all'idioma meneghino la gloria del Porta artista sovrano; e il Piemonte patriottico ebbe un di mezzo fra il Giusti e il Béranger nelle Canzonette dialettali di Angelo Brofferio; e nel dialetto romanesco, il Belli atteggiò a epigramma popolare quel vecchio peccatore aristocratico del Parnaso italiano, il Sonetto; ve lo atteggiò con arguzia che direi non emulata, se non avessimo, parlati dal popolo pisano, i Sonetti di Renato Fucini.

E nata satira più specialmente della regione toscana, addivenne popolare in tutta Italia, sì perchè a Italia tutta aveva il cuore il Poeta, e sì per le virtù nazionali della lingua toscana. Nè in altre regioni d'Italia nostra fu potuta la satira del Giusti imitare tollerabilmente, come potè essere quella del Guadagnoli dal Fusinato veneto. L'Italia ebbe dalla Toscana il suo Giusti; e basta. Rimase poi all'idioma meneghino la gloria del Porta artista sovrano; e il Piemonte patriottico ebbe un di mezzo fra il Giusti e il Béranger nelle Canzonette dialettali di Angelo Brofferio; e nel dialetto romanesco, il Belli atteggiò a epigramma popolare quel vecchio peccatore aristocratico del Parnaso italiano, il Sonetto; ve lo atteggiò con arguzia che direi non emulata, se non avessimo, parlati dal popolo pisano, i Sonetti di Renato Fucini.

II

Ma tornando al Giusti, il quesito sulla originalità della sua poesia, fu, almeno indirettamente, cioè in questi altri termini,  come fosse ella fatta, e in che assomigli o dissomigli a poesia di altri,  fu proposto assai prima che si curiosasse di critica quanto oggi; e dette occasione a uno scritto di Gino Capponi, che è, ad un tempo, e la testimonianza più autorevole anzi l'autentica, e la critica più intima, che della poesia del Giusti si sia avuta, anche dopo le belle pagine del Carducci, del Panzacchi, del Camerini, del Martini, del Masi, del Biagi. Rispondeva il Capponi nel maggio del 1851, appena un anno dopo la morte del caro ospite suo, a un articolo del critico francese Gustavo Planche, il quale era venuto narrando a' suoi compatriotti, essere il Giusti una sorta d'improvvisatore che, impaziente o incurante delle bellezze di stile, accettava senza pensarvi la prima parola che gli scendeva giù per la penna: perciò privo di vivezza, di eleganza, di precisione, di tutte insomma le doti proprie d'uno scrittore che ami e rispetti l'arte sua. Al che il Marchese, con quel suo sorriso benevolo che gli abbiamo conosciuto e quella temperanza che tanto più gravi quanto più miti faceva le sue sentenze, rispondeva, quello essere il ritratto non dell'amico suo ma di altri poeti (i burleschi appunto del penultimo periodo), diversi tanto dal Giusti, quanto «l'età decorsa, in ciò ch'ella ebbe di più sfrontato, discostasi dal sentire della nostra, e dalle norme ch'essa impone ad un'anima e ad una lingua naturalmente gentili.» Di questa lingua avere il Giusti, dai grandi scrittori e dal popolo, anche campagnolo, tratto tutto quanto è di più fino ma insieme di più nascosto, mediante un senso squisito suo proprio, educato sui classici latini e nostri, ed un grande studio ch'egli poneva con ostinata perseveranza nello scegliere le voci e collocarle industriosamente. Da ciò esser venuta alla sua poesia una efficacia piuttosto condensata e ristretta, «intesa com'ella è a penetrare più addentro»; tantochè aveva egli finito col quasi «negare parte di sè alla spedita intelligenza di molti degl'Italiani suoi» (il che è verissimo, e i commenti venuti dopo lo dicono), non che dei Francesi. E a questi più particolarmente volgendosi, e «sfidando la Francia tutta» a cogliere il valore di certi motti giustiani, come quello (negli Eroi da poltrona) sulle sorti future d'Italia «Vattel'a pesca», adduceva il Béranger, «nome» dice il Capponi «che riviene spontaneo a proposito del Giusti»; e dichiarava che non avremmo noi osato, sebbene tanto più familiari e alla lingua e alle cose di Francia che non alla lingua e alle cose d'Italia i Francesi, non oseremmo noi, e saviamente, dare sentenza sul Béranger (come nè su certi altri quasi indigeti di quella letteratura, quali il Lafontaine, il Rabelais), per non risicare di giudicarlo piuttosto facitor di canzonette che poeta. L'onore del qual nome, nel senso di artefice consapevole, e in queste due cose soprattutto insigne, «squisitezza di forma, finezza di espressione», rivendicava egli al Giusti contro la condanna pronunziata dal Planche, che «i versi suoi non vivrebbero».

È passato ormai mezzo secolo; e quei versi vivono, e si ristampano, e (come il Capponi presentiva, nè gliene faceva lode) ce li commentiamo: di che non credo che per quelli del Béranger, ed è pregio suo e della lingua, si sia mai sentito in Francia il bisogno; perchè, cominciando dall'arietta sulla quale, canzon per canzone, sono intonati, è in quelli tutto il di fuori che s'è accolto nell'anima del poeta, e ne rivola fuora trillando; laddove il Giusti (che ammirava il Béranger; ma quando lo chiamavano il Béranger italiano, ci faceva, e non soltanto per modestia, le sue brave eccezioni, cominciando da questa: d'averlo letto dopo essersi «imbarcato da un pezzo») il Giusti aveva lavorato la propria forma con un intendimento del tutto soggettivo e di sua iniziativa, pur mirando a «farsi interprete delle cose che gli stavano d'intorno». Ed invero le forme di que' due Satirici del vecchio mondo, che nel contrasto fra i due secoli «l'un contro l'altro armato» era destinato a frantumarsi, tanto poco, anzi nulla, avevano che fare insieme, che a tentar di adattare (come qualcuno si è provato) alle Chansons la toscanità degli Scherzi, anche quando i soggetti combaciano e si rasentano, si va nel goffo; e qualche imitazione in stile giustesco dal Béranger, per esempio, dal Bon Dieu quella del Creatore e il suo mondo, è, fra le apocrife appioppate al Giusti, delle più intrinsecamente aliene, nonostante le apparenze, dal fare autentico e legittimo di lui.

Il quale, è poi da aggiungere che se avesse potuto ascoltare il giudizio del critico francese, non ne avrebbe fatte grandi meraviglie, perchè già si era trovato, com'egli ci racconta, a sentirsi dimandare da un tale qui in casa sua, se avesse letto altro che romanzi e giornali; e ci racconta altresì, come «prontissimo ad immaginare, e assai lesto ad abbozzare, era poi una tartaruga a dare l'ultima mano, e credeva che la morte sola gli avrebbe portato via il pennello de' ritocchi»: dichiarando espressamente, che quel suo «modo di dir le cose alla casalinga» non provava nulla, e che pur troppo il suo difetto era di non contentarsi mai. E séguita confessando le proprie colpe: la stringatezza cercata; lo studio di apparire; l'aver avuto a combattere con quei metri, «facili in apparenza, difficilissimi in sostanza; i quali se non ti fai sostegno dell'inversione, ti slabbrano da tutte le parti», e la inversione poi va a finire nello «scontorcimento». «Gino Capponi mi aveva ammonito più e più volte d'andar per le piane, d'esser semplice e corrente, di lasciare le lambiccature, le finezze sopraffini, le frasi e le parole vistose; perchè, dice il proverbio, chi troppo s'assottiglia si scavezza» Insomma, a lasciarlo dire, e a dargli retta senz'altro, cioè senza far la tara all'ipocondria di quel povero organismo malato, si finirebbe altro che l'«improvvisatore» denunziato dal Planche, o il «poeta conversevole» che io ho cominciato, Signore mie, dal ripresentarvi come una vecchia comune conoscenza si finirebbe, dico, a concludere che Giuseppe Giusti è uno dei più pedanteschi e impacciati scrittori che abbiano mai esercitata la pazienza delle nove sorelle.

III

Il vero è, ch'egli aveva, come nessuno de' contemporanei suoi, anche de' maggiori, riassunta alle lettere la toscanità della lingua, tornando alle fonti genuine del parlar popolare, ma questo poi atteggiando con vigoria d'artista in quelle forme di satira che gli eran balzate alle mani, nemmen lui sapeva come, e esperimentatele dapprima in gingilli di poco sugo, e alcuni anche sguaiatelli e volgarucci, con molta diffidenza di sè medesimo, le aveva poi deliberatamente elette siccome acconcie al suo disegno, quale gli si era venuto maturando nella mente. E questo era di far servire la Satira a qualche cosa di ben alto; ossia al fine nazionale, verso cui tutte convergevano, serrandosi sempre in più stretto fascio, le volontà e le intelligenze italiane; e di questo ufficio della Satira vera e propria privilegiare la così detta Poesia giocosa, «ripulendola» son sue parole «dalla vana chiacchiera, dalla disonestà, dalla inutilità, che l'hanno «deturpata anco nelle mani dei maestri». Su qualche tentativo da lui fatto di poesia politica nelle forme tradizionali di tanti canzoneggiatori mediocri, egli scrisse di sua mano senz'esitare: «prosa rimata».

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