La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892 - Various 9 стр.


Or ecco la discolpa di Messer Amerigo: Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato, per apparar ragione; e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla; perocchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come son quelli che elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio. Il notaio mio dice: Ditemi il nome vostro, perocchè avete il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo becchetto, che è appiccato al cappuccio con uno spillo e recaselo in mano, e dice ch'egli è una ghirlanda. Or va' più oltre, truovo molti bottoni portare dinanzi. Dicesi a quella che è truovata: Questi bottoni voi non potete portare. E quella risponde: Messer sì, posso, chè questi non sono bottoni, ma sono coppelle; e se non mi credete, guardate, e' non hanno picciuolo; e ancora, non c'è niuno occhiello. Va il notaio all'altra che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate gli ermellini. E la vuole scrivere. La donna dice: Non iscrivete, no; chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi. Dice il notaio: Che cos'è questo lattizzo? E la donna risponde: È una bestia. E il notaio non insiste, come non sanno insistere i magnifici signori Priori, che si ricordano delle loro donne lasciate a casa, e conchiudono, come hanno sempre conchiuso in Palagio, esortando messer Amerigo a tirar via, e lasciar correre le ghirlande per becchetti e le coppelle e i lattizzi, e' cinciglioni.

Non volevano forse che il giudice pesarese avesse a ricordare il malinconico distico che un suo collega della Mercanzia aveva scritto sul margine degli Statuti:

S' tu ài niuno a chi tu vogli male
Mandallo a Firenze per uficiale.47

Pur questa volta, la novella del Sacchetti è verace documento di storia; l'Archivio della Grascia serba gli Atti civili del Giudice degli appelli e nullità, e fra quei protocolli appunto ve n'è uno di Giovanni di Piero da Lugo, notaio del dottore in legge ser Amerigo di Pesaro, ufficiale della Grascia del Comune di Firenze, per sei mesi, a cominciare dal XV marzo 1384.

Quel giorno stesso l'Amerighi pubblicò, a' soliti luoghi, un bando per ricordare le pene delle leggi contro chi trasgrediva alla Prammatica sopra 'l vestire. E il 27 marzo cominciarono per parte degli ufficiali le inquisizioni. Vedevano per via alcuna donna con due anelli, ornati di quattro perle, con una cappellina di velluto nero ricamata, con una ghirlanda, con una delle abbottonature proibite? E subito si contestava alle malcapitate (diciamolo col frasario odierno) la contravvenzione. Andava il messo alle case con un mandato di comparizione, e il giorno fissato compariva per la moglie il marito, che riconosceva l'errore e pagava la multa. Così s'andò innanzi un bel po'; ma più tardi dovettero le donne, ammaliziate, cominciare quelle contestazioni, accennate dal novelliere, e naturalmente omesse nel protocollo del notaio. Le inquisizioni si fanno più rare, le condanne meno frequenti e i mariti che compariscono principiano a negare la reità delle mogli, con validi argomenti: una è troppo vecchia perchè possano imputarsele siffatti trascorsi, un'altra era in casa quel tal giorno a quella tale ora, una terza è in lutto e così via E il protocollo si chiude quasi senza registrare più nessuna condanna.

La Signoria e il giudice prima di lei si son dati per vinti; ma non senza sospetto che quelli ufficiali, quei notai, deputati all'odioso ministero, non si fossero lasciati vincere dal fuoco di qualche bell'occhio, dalle carezze di qualche voce lusingatrice. Ahimè nelle coperte della Prammatica di quel tempo, leggiamo la confessione, lo sfogo d'un cuore innamorato, prezioso documento umano fra le pedanterie curialesche degli Statuti. Udite:

Li dulci canti e le brigate oneste
Gli uccelli, i cani e l'andar sollazzando,
Le vaghe donne, i templi e le gran feste
Che per amore solea ir cercando.
Ora fuoco mi sono, oimè moleste,
Quantunque vengo con meco pensando
Che tu dimori di qui or(a) lontana
Dolce mio bene e speme mia sovrana!

Le donne avean trovato alleati nella famiglia del Giudice di ragione: la loro causa era vinta!

Ma per poco, giacchè quasi periodicamente si tornò ad infierire contro la vanità femminile, e altre bufere scoppiarono, sempre di breve durata. Anche tremendi avversari ebbero ne' moralisti che nei trattati del Governo della famiglia, seguitavano a battere cotesto tasto (valga l'esempio del Palmieri); peggiori nemici ne' frati, invasi dal furore di purgare il mondo dai peccati.

Frate Bernardino da Siena nel 1425 continuò a Perugia quei bruciamenti delle vanità che l'anno innanzi aveva iniziato a Roma, facendo un gran falò di capelli posticci e contraffatti, d'ogni lasciva portatura, di balzi da scuffie, dadi, carte, tavolieri e altre cose diaboliche, preludendo alle grandi fiammate che nel 1497 fece a Firenze il Savonarola, e che gli furono di pessimo augurio. Ma fra tanti oppositori, non mancavano i buoni avvocati. Nell'aprile 1461 un predicatore che aveva vociato dal pergamo in Santa Croce contro le donne, ricorse alla Signoria, e nel Consiglio dei Richiesti si trattò, nientemeno, di proibire la moda. Ma Luigi Guicciardini, padre al grande storico e politico, disse aver risposto a un milanese, giudicante a sproposito dell'onestà delle donne fiorentine dall'abito sfoggiato e dall'incedere, che se l'abito parea disonesto, elleno erano a' fatti assai diverse48.

VIII

Ma queste leggi suntuarie, ritoccate o come oggi direbbero rimaneggiate ogni momento, più che offendere le donne colpivan la borsa dei loro mariti; nè, giova notarlo, si restringevano agli ornamenti, sibbene frenavano o volevan frenare anche il lusso e l'abbondanza delle nozze, dei battesimi, dei conviti e dei funerali. I cortei nuziali non potevano eccedere il numero di dugento persone. I sensali de' matrimoni dovevano denunziare innanzi i nomi degl'invitati. Le donora alla sposa eran regolate dalla legge, e così le cerimonie nuziali; il cuoco il quale dovrà apparecchiare per qualche sposalizio era tenuto a rapportare all'ufficiale del Comune il numero delle vivande e dei piattelli, e le vivande non potevano essere più di tre: non più di sette libbre di vitella, e i capponi, i paperi o gli anitroccoli permessi dagli statuti. Del pari eran regolate le esequie, il numero dei torchi di cera, le vesti dei morti e dei congiunti che seguivano il funerale: i doni dei battesimi insomma ogni benchè menoma cosa49. Chi contravvenisse a tali disposizioni, condannato a multe assai gravi.

Perchè il Comune, anche allora, cercava dovunque argomenti per tasse, gravami e balzelli, e lo studio dei cittadini, massime di quei furbi mercanti, era tutto in cercare di alleggerirsi delle gravezze, di rubare con qualche onesta licenza50.

Il Comune ruba tanto altrui, che io posso ben rubar lui, è un dettato antico riferito dal Sacchetti51; il quale anche lamenta le lungaggini nelle pratiche del Comune, perfino verso chi volea donargli le proprie castella52. Ciascuno tirava l'acqua al suo mulino, dice Marchionne Stefani, e anch'egli aveva il mulino suo53. S'ingegnavano tutti a difendersi dalle gravezze e com'è sempre usanza, scrive quel cronista, gli animali grossi e possenti saltano e rompono le reti.

Perchè il Comune, anche allora, cercava dovunque argomenti per tasse, gravami e balzelli, e lo studio dei cittadini, massime di quei furbi mercanti, era tutto in cercare di alleggerirsi delle gravezze, di rubare con qualche onesta licenza50.

Il Comune ruba tanto altrui, che io posso ben rubar lui, è un dettato antico riferito dal Sacchetti51; il quale anche lamenta le lungaggini nelle pratiche del Comune, perfino verso chi volea donargli le proprie castella52. Ciascuno tirava l'acqua al suo mulino, dice Marchionne Stefani, e anch'egli aveva il mulino suo53. S'ingegnavano tutti a difendersi dalle gravezze e com'è sempre usanza, scrive quel cronista, gli animali grossi e possenti saltano e rompono le reti.

Anche Francesco Datini, accostandosi a quelli che tenevan lo Stato, provvide a' casi suoi, in quegli anni nei quali le guerre combattute con le armi de' mercenari e le paci fatte a furia di denaro esigevano che la imposta si riscotesse in un anno dieci e quindici volte54. Chi non potea con le amicizie e i favori, ci riusciva con l'astuzia, come Bartolo Sonaglini che, essendosi per porre molte gravezze, scendeva ogni mattina sull'uscio di casa e contava a tutti le sue miserie, dicendo: Oimè, fratel mio, io son disfatto. E' mi converrà o dileguarmi dal mondo o morir prigione55; onde quando vennero alla partita di lui ciascuno dicea: Egli è diserto, e guardasi per debito; e l'un dicea: E' dice il vero, chè pure una di queste mattine non ardiva d'uscir di casa. E l'altro dicea: E anco così disse a me Sia come si vuole, dicono gli altri, e' si vuole trattar secondo povero, e tutti a una voce gli posono tanta prestanza, quanta si porrebbe a uno miserabile, o poco più. Fatte le prestanze e passato il pericolo, Bartolo cominciò a uscir fuori e andava dicendo d'esser per accomodarsi coi creditori; e così, a furia di ciance, si liberò dalle prestanze, dove molti altri più ricchi di lui ne rimasono disfatti.

IX

Già i tempi maturavano. Dell'antica e proverbiata semplicità, in tanta sete di guadagni, rimanevano monumento vivente, ma pur rispettato, soltanto quei vecchioni di cui Donato Velluti ci porge uno stupendo ritratto, vivo e vigoroso come una figura di Andrea del Castagno.

Bonaccorso di Piero, fu uno ardito, forte e aitante uomo, e molto sicuro nell'arme. Fece di grandi prodezze e valentie, e sì per lo Comune e sì in altri luoghi. Tutte le carni sue erano ricucite, tante ferite avea avute in battaglie e zuffe. Fu grande combattitore contr'a Paterini e Eretici Era di bella statura, di membra forti e bene complesso. Vivette ben 120 anni, ma ben 20 anni perdette il lume, innanzi morisse, per vecchiaia. Fu chiamato Corso, e benchè fosse così vecchio, udii dire che la carne sua avea sì soda, che non si potea attortigliare, e se avesse preso qualunque giovane più atante in su l'omero, l'avrebbe fatto accoccolare. Intesesi anche bene di mercatanzia, e fecela molto lealmente; intanto era creduto, che venuti i panni melanesi in Firenze da Melano (de' quali molti ne faceano venire) e tutti gli spacciava innanzi fossono aperte le balle; molti ne faceano tignere qui, e perch'era sì diritto, udii dire che un Giovanni del Volpe loro fattore veggendo sì grande spaccio di detti panni, pensò nella tinta fare avanzare più la compagnia, e più debolmente, e con meno costo gli facea tignere; di che essendo passato un tempo i detti panni non avevano quel corso soleano: di che cercando la cagione, trovarono che era stato per la sottilità del detto Giovanni, di che egli il volea pure uccidere.

Il detto Bonaccorso avendo perduto il lume, il più si stava in casa. Avea di dietro al palagio di Via Maggio un verone lungo quanto tenea il detto palagio, in sul quale rispondea tre camere dal lato di dietro, per le quali egli andava, e tanto andava in qua e in là ogni mattina, che facea ragione essere ito tre o quattro miglia, e fatto questo asciolvea, e l'asciolvere suo non era manco di due pani, e poi a desinare mangiava largamente, perocchè era grande mangiante: e così passava la sua vita. Ora perchè si sappia come morì, udii dire a mio padre, che gli venne voglia andare alla stufa, e così andò, nella quale stufa s'incosse un piede; di che essendo tornato e veggendo che per essa cagione non potea andare, nè fare il suo usato esercizio, in sul verone, immantinente sì si (ac)cusò morto. Or avvenne in quel tempo che Filippo suo figliuolo, e mio avolo che fu, menando Monna Gemma de' Pulci sua seconda donna, avendo il dì molto motteggiato dicendo: ora farebbe bisogno a me d'avere moglie, più ch'a figliolmò, che m'aitasse, e molte altre ciance, gli venne voglia, essendo sul letto, farsi portare in sul lettuccio da sedere: di che chiamato mio padre e Gherardo suoi nipoti, avendosi colle mani e braccia appoggiato in sulle spalle loro; subitamente per grande vecchiezza la vita gli venne meno, e morì56

X

Con il ricordo di questa cara e buona immagine paterna, affrettiamoci a' tempi nuovi, al nuovo secolo, di cui ormai rosseggia in cielo, nel cielo della letteratura e dell'arte, la splendida aurora. Già ne scorgemmo i segni annunziatori nell'ottenuto acquisto della ricchezza, nell'affrancarsi così dai vecchi pregiudizi, come dalle severe regole del vivere antico, nelle tendenze egoistiche preparanti lo svolgimento di quel che i moderni critici chiamano individualismo, onde meglio si comprende il carattere degli uomini e della vita della Rinascenza.

L'affetto per il Comune, per la patria e anche per la famiglia, già s'affievolisce col desiderio acuto de' godimenti, di che non era avara la vita a chi volea gustarne le dolcezze. L'incredulità fa capolino; lo scetticismo, la sensualità, minacciano di prendere il sopravvento. Coteste generazioni, dopo i terribili terrori delle pestilenze, scampate all'infuriar del contagio, doveron quasi meravigliare, stupire di risvegliarsi alla vita.

Dalla grande moria del 1348 ai primi del '400, i cronisti ne registrano molte altre: ricordiamo quelle del 1363, del 1374, del 1400, del 1411, del 1420 e del 1424. Un nostro erudito spogliando il libro de' morti degli Ufficiali della Grascia, noverò dal 1.º maggio al 18 settembre 1400, ben 10908 morti, la massima parte fanciulli57. Della peste del 1348, oltre alla classica e grandiosa descrizione del Boccaccio, troviamo vivi e dolorosi ricordi nelle cronache famigliari, ne' diarii, ne' memoriali.

Dovè essere un pauroso, un raccapricciante spettacolo! Giovanni Morelli racconta che in un'ora si vedeva ridere e motteggiare il vicino o l'amico e nell'ora medesima il vedevi morire. La gente cascava morta per istrada su per le panche come abbandonata, senza aiuto o conforto di persona. Molti impazzivano e si buttavano nel pozzo, o giù dalle finestre o in Arno, dal gran dolore o dalla orribile paura. Tanti morirono senza esser veduti e infracidavano su per le letta, molti si sotterravano ancor vivi. Avresti veduto una croce ire per un corpo e averne dietro tre o quattro prima giugnesse alla chiesa58. Si calcola che in Firenze morissero i due terzi delle persone, cioè de' corpi ottantamila59. Della moria del '400, veggiamo un'efficace pittura in una lettera di Ser Lapo Mazzei. Qui non s'apre appena appena bottega: i rettori non stanno a banco: il palagio maggiore senza puntelli: nullo si vede in sala: morti non ci si piangono, contenti quasi solo alla croce60. Era uno spavento: i figliuoli morivano, cadevan gli amici, i vicini, i conoscenti, gl'ignoti; nel colmo della estate, passavano i cento al dì; nel luglio vi fu un giorno che furon dugento.

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