Non c'è bisogno;soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.Io non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione, è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.
Oh, questo, poi.
Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente, e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con te.
Scusami;disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia dell'amico, i più brutti versacci del mondo;ma la tua retorica non mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo, bisogna parere.
L'accidente prima della sostanza!esclamò facetamente Filippo Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.Io direi anzi il contrario.
Sì, cambia pure a tuo modo,rispose l'Ariberti, purchè in fondo io abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose, create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?
Certo;replicò Filippo Bertonema assicurata questa, non hai libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora di pace?
E crepi l'avarizia; non è egli vero?soggiunse ironicamente l'Ariberti.Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!
Io! No, certo;rispose Filippo, reprimendo un sospiro;non ho ancora avuto tempo.
Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una donna come l'ho incontrata io
Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber
Che! Ti parlo dell'ultima.
Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?
Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a teatro.
Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.
-Ma sai,diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,che tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo, giungerai presto alle mille e tre.
No, questa è proprio l'ultima;esclamò l'Ariberti con accento di convinzione profonda;oramai lo sento, non amerò più altra donna. Figurati, amico mio, una vera Giunone.
Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.Conosci Giove?sei forse entrato nelle sue grazie?
No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.
Ho capito; l'Olimpo era a teatro;notò Filippo, con quel suo fare malizioso ed ingenuo.E poi, finita la stagione teatrale
Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per prepararmi all'esame; poi le vacanze ed ora ed ora capirai che mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.
Per correre sotto le finestre della signora Giunone.
Non so dove abita.
Bravo! Sei molto avanti.
Ma che farci? La vedevo sempre al Regio e ci volle un secolo perchè sapessi il suo vero nome. Sulle prime non era dentro di me che un pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una bella donna», senza bisogno di andare più in là.
Certamente;balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro stagioni;senza andare più in là.
Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio, innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.
E avrai più coraggio quest'anno?
Oh sì! l'ho giurato;rispose solennemente l'Ariberti.Ho scritto nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?
Anzi, mi farai un vero regalo.
Te li dico Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.
Sì, sì;disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di vedere la sua bella vicina.
E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva, dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per quel poco che valgono.
E questi versi,disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e lodati,li farai giungere a lei?
Spero;rispose l'Ariberti;chi sa che non le cadano sott'occhio? Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale letterario, artistico, e scientifico, e capirai
Ah, bene! E chi ci scrive?
Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte Candioli.
Candioli! Quello sciocco?non potè trattenersi dallo esclamare Filippo.E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?
Note di viaggi, ricordi parigini
Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?
Hai ragione;disse l'Ariberti ridendo;ma il conte Candioli scriverà a dirittura in francese.
Eh, in questo caso,notò Filippo, chinando la testanon dico più altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.
Senti;soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di tenerezza per Filippo Bertone;vuoi scriverci anche tu?
Io? Che cosa potrei scrivere io?
Ma quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico e tu saresti proprio la mano di Dio.
Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.
Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.
Mi passi i tuoi manoscritti,soggiunse egli, a modo di conclusione,ed io li consegno al direttore che sarà probabilmente il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè, trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?
No; non mi va;rispose Filippo accigliato.
Perchè?
Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico, pronti a scoprirsi e gridare: ecce, ad sum qui feci, se il lavoro piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo, segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra. Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.
Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.
Del resto, ti ringrazio della profferta;ripigliò Filippo, con accento malinconico,ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho, grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno. Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio, perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo, intendiamocisoggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul palcoscenico della vita,non torrà che io ti accolga volentieri quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo aereo nido.
Grazie!mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza. E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più glorioso di uno stinco di santo.
E a proposito di nido,continuò Filippo Bertone,ti ricordi degli uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido, abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o sarà la mia tomba.
Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano, questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè. Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le proprie ferite, come per quelle degli altri.
CAPITOLO V
Della gloria di Ariberto Ariberti e di qualche sciocchezza ch'ei fece.
Un mese dopo questi discorsi e gli altri del caffè dell'Aquila, Torino aveva la sua meraviglia, come Rodi, come Efeso, come Tebe, e come altre città ugualmente fortunate nei tempi antichi. Era venuto alla luce il primo numero del giornale La Dora; il più bel saggio d'ibridismo che si vedesse mai nel regno animale. Ah no, scusate, volevo dire nella repubblica letteraria.
C'era in quel primo numero tutto il banno e l'eribanno della scolaresca del primo anno di legge, con qualche rappresentanza delle altre facoltà. Il programma, intitolato modestamente Nos intentions, era stato scritto dal Ferrero in italiano e voltato in francese dal conte Candioli, che gli aveva dato (giusta la confessione del suo autore) una tournure, una noblesse, un cachet, di cui difettava pur troppo il testo italiano. Il sullodato Candioli aveva poi cominciato la stampa del suo Voyage au pays des rêves, che era il racconto della sua gita a Parigi. Il sullodato Ferrero stampava il primo capitolo de' suoi Tre mesi sull'Arno, nel quale da autore che ama i suoi comodi, egli giungeva a mala pena a Viareggio. Del Balestra c'era una canzone; del Vigna una cicalata intorno agli amori di Tibullo, con citazioni analoghe. E non mancava neppure quello studio critico sui Nibelunghi, che il Vigna aveva tolto per roba da mangiare. L'Ariberti dava fuori una trilogia lirica; nientemeno! La prima parte s'intitolava: Sotto i salici, e cantava amori contadineschi; la seconda: Sotto i pioppi, e cantava amori in villeggiatura; la terza: Sotto i portici, e l'amore, come si vede, da questa terza categoria d'alberi, entrava a dirittura in città, facendo anche una scappatina nella seconda fila di palchi del teatro Regio, per ossequiare la bella marchesa di San Ginesio.