Venendo ora ai nomi, alcuni firmavano i loro scritti, altri no. Il Candioli, per esempio, si nascondeva dietro un Comte de***; ma trovava il modo di dire cinquanta volte in un giorno che le tre stelle della Dora non avevano altro scopo fuor quello di usar riguardo ad una famiglia qui ne s'était jamais encanaillée dans les lettres.
Quanto al poeta della trilogia, egli firmava per la prima volta in sua vita; Ariberto Ariberti.
Com'era andata la faccenda? Nicolino era stato persuaso a sbattezzarsi, da un discorso dell'amico Ferrero.
Sentimi;gli aveva detto costui;vuoi salire in fama di poeta? Non basta esserlo, bisogna parerlo. Ora, quel tuo nome di Nicolino non è abbastanza poetico; ti dirò anzi schiettamente che non lo è punto. Un poeta ha da avere un bel nome, che i giovani e le donne possano ripetere volentieri. Vedi, per esempio, il Foscolo. Si chiamava Nicolò come te. Nicolò Foscolo! Ti pare che quel nome potesse andare, pel futuro cantor dei Sepolcri? A lui per il primo non parve affatto, poichè incominciò un giorno dal chiamarsi timidamente, e come per via d'esperimento, Nicolò Ugo Foscolo; indi, buttata la parte inutile, trovò la vera armonia del suo nome, «Ugo Foscolo», cinque sillabe che non morranno mai più.
Quelle ragioni erano sembrate il nec plus ultra a Nicolino Ariberti, che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorrà biasimarlo del suo capriccio innocente, in un mondo che è così largo di perdono a tante altre cose, niente affatto innocenti? Dopo tutto questa di foggiare il nome a somiglianza del casato, è moda antica e prettamente italiana. Per non ricordare che un esempio illustre, citerò Galileo Galilei.
La comparsa della Dora aveva fatto chiasso. Si era riso un pochino intorno a quella novità di un giornale bilingue; e un certo Messaggiere, che non la perdonava a nessuno, e neanco ai figli de' ministri, aveva posto meritamente que' signorini in canzone. La celia era parsa così grave, che i collaboratori della Dora, raccolti in solenne adunanza al caffè dell'Aquila, avevano lungamente ed altamente disputato, per vedere se non fosse il caso di andare a chiederne ragione al beffardo collega. Fortunatamente per lui, prevalse l'idea di rispondere inchiostro per inchiostro, sebbene colla giunta del sale e del pepe, che doveva, nell'animo loro, esser peggio di un colpo di spada.
Del resto, a far rimanere questa nel fodero, aveva contribuito largamente la lode che, secondo il conte Candioli, era data nei salotti aristocratici al nuovo giornale. Il avait du premier coup conquis sa place; cosa di cui non era da dubitare anche prima della pubblicazione; ma che doveva sempre dar gusto e vendetta allegra di certi lazzi plebei.
Soltanto una cosa dava molestia ai collaboratori della Dora e ne amareggiava un pochino il trionfo. Quel francese del Candioli era maledettamente scorretto, ed essi da molte parti avevano udito farne l'appunto. Per contro, il signorino sosteneva che il giornale era tutto quanto scorretto; faute d'un bravo correttore che rivedesse le bozze di stampa. Ariberti gli teneva bordone; un correttore gli parea proprio necessario, attento, di buona volontà, e che si contentasse di poco, per non aggravare il bilancio della Dora. Questa fenice dei correttori il nostro Ariberti l'aveva già in pronto, e, sentendosi sostenuto dal Candioli, ne aveva anche detto il nome.
Tutti avevano fatto buon viso alla proposta, salvo il Ferrero, la cui gratitudine perseguitava Filippo Bertone fino al punto di non lasciargli guadagnare venti lire al mese. S'intende che Ferrero parlava in nome dell'economia. C'è sempre una ragione onesta, per commettere una bricconata. Che diamine! L'economia insegnava di andare cauti fino a tanto non ci fosse la vendita del giornale in rispondenza delle spese di stampa. Soltanto quando fosse raggiunto quel modestissimo scopo, si sarebbe potuto prendere il correttore, ed anche pagarlo un po' meglio; che quanto a lui lo avrebbe voluto coi fiocchi, dovesse anche costare un centinaio di lire. Frattanto, poichè non potevano spendersi neppure le venti, si lasciasse la proposta in sospeso e ognuno dei collaboratori pensasse a correggere con maggior diligenza le sue bozze, anche a tornarci su due o tre volte.
Per altro, il conte Candioli non era rimasto persuaso, et pour cause. Nel medesimo giorno egli aveva preso in disparte Nicolino cioè, no, diciamo d'ora innanzi Ariberto Ariberti.
Est-ce que votre ami Berton connait le francais?
Sicuramente; il povero giovane sa un po' di tutto, e quel poco lo sa bene, come tutti coloro che hanno dovuto imparare senza maestri.
Eh bien, fatelo venire domattina da me; c'intenderemo. Io non ho pazienza a rivedere le mie bozze di stampa. C'est une corvée, et mon état est de ne pas en faire.
Da questo discorso del Candidi coll'Ariberti ne avvenne che la prosa francese del contino nel secondo quaderno della Dora, uscisse stampata in forma cristiana. Ci si mostravano poi certe frasi, ci si rigiravano certe tournures, che il nobile autore non avea pur sognato di metterci. Ma egli si guardò bene dal protestare; che anzi!..
Ce pauvre Berton! mais savez-vouz qi'il a de l'intelligence?aveva detto egli all'Ariberti in un impeto di entusiasmo.
In un altro di questi lucidi intervalli, il conte Candioli, che, per ragione della sua povera prosa, non isdegnava di salir qualche volta le scale d'un quinto piano in via Santa Teresa, aveva perfino tentato di far smettere a Filippo il suo venerando giubbone di color tabacco. Sventuratamente non l'aveva pigliata pel suo verso, e si era impuntato ad offrirgli i suoi spogli. Filippo Bertone non era orgoglioso più del bisogno, ma non vedeva ragione di romper fede al suo povero soprabito, per far sapere alla gente che indossava gli abiti smessi dal conte Candioli. Quanto poi a farsene fare di nuovi, come il suo mecenate gli propose da ultimo, profferendosi a pagarne la spesa, egli non ne vedeva ancora la necessità. In fondo in fondo, non voleva elemosina. Guadagnava venti lire al mese per mettere in buon francese il tunisino del signor conte, e per allora ne aveva di catti.
Tornando al giornale, se la prosa del Candioli cominciava, a passare, le liriche amatorie dell'Ariberti avevano dato a conoscere un poetino di garbo, una speranza nuova della patria, un astro nascente, e tutto quel che vorrete. Il nostro giovinetto entrava anche lui nell'orto della fama, così fieramente custodito dai draghi della critica, e vi gustava (dirò così per continuare la metafora seicentistica) i primi frutti della gloria, come sarebbe quello che Orazio ha espresso in un felicissimo verso, così recato in italiano da non so quale traduttore:
Ir mostro a dito e udirsi dire: è desso.
Una sera, per venire agli esempi, una sera egli era al teatro Regio, seduto nel suo scanno presso l'orchestra. Il nostro Ariberti non poteva già più contentarsi di rimanere in platea. La cosa era buona per un filosofo; ma per uno studente di legge, per un avvocato in erba, non poteva più andare. A fare questo gran cambiamento nelle sue consuetudini, mancavano, a dir vero, i quattrini; ma la necessità rende l'uomo ingegnoso. E per comodo dello studente in angustia, nacque lì per lì un avvocato che doveva partire da Torino, per andarsi ad allogare non so dove, e che non poteva portar seco tutta quanta la libreria. Gli autori utili, anzi necessari, che si potevano avere in quella occasione e a buon patto, erano molti, da Bortolo di Sassoferrato al Deluca, e da questo al Merlin, col Pardessus (avrebbe detto Candioli) par dessus le marché. In conseguenza di questa bella trovata erano venuti per la posta da Dogliani i denari dell'abbonamento alla sedia chiusa del Regio. E perciò avvenne che, quella sera di cui si parla, il sullodato astro nascente, in giubba a coda di rondine, petto di porcellana, e cappello a stiacciata, fosse visibile sull'orizzonte del Regio, dalle otto alle undici, in quella che un'altra e più vivida stella sfolgorava da un palchetto di seconda fila. Era essa, come il savio lettore avrà già indovinato, la bella marchesa di San Ginesio; la quale, pari a tutte le belle donne l'ultima volta che si sono vedute, era in quella sera più bella che mai.
Ir mostro a dito e udirsi dire: è desso.
Una sera, per venire agli esempi, una sera egli era al teatro Regio, seduto nel suo scanno presso l'orchestra. Il nostro Ariberti non poteva già più contentarsi di rimanere in platea. La cosa era buona per un filosofo; ma per uno studente di legge, per un avvocato in erba, non poteva più andare. A fare questo gran cambiamento nelle sue consuetudini, mancavano, a dir vero, i quattrini; ma la necessità rende l'uomo ingegnoso. E per comodo dello studente in angustia, nacque lì per lì un avvocato che doveva partire da Torino, per andarsi ad allogare non so dove, e che non poteva portar seco tutta quanta la libreria. Gli autori utili, anzi necessari, che si potevano avere in quella occasione e a buon patto, erano molti, da Bortolo di Sassoferrato al Deluca, e da questo al Merlin, col Pardessus (avrebbe detto Candioli) par dessus le marché. In conseguenza di questa bella trovata erano venuti per la posta da Dogliani i denari dell'abbonamento alla sedia chiusa del Regio. E perciò avvenne che, quella sera di cui si parla, il sullodato astro nascente, in giubba a coda di rondine, petto di porcellana, e cappello a stiacciata, fosse visibile sull'orizzonte del Regio, dalle otto alle undici, in quella che un'altra e più vivida stella sfolgorava da un palchetto di seconda fila. Era essa, come il savio lettore avrà già indovinato, la bella marchesa di San Ginesio; la quale, pari a tutte le belle donne l'ultima volta che si sono vedute, era in quella sera più bella che mai.
Unico cavaliere (essendo lo spettacolo appena incominciato,) stava nel palchetto della marchesa di San Ginesio un signore di mezza età, che all'aria fredda e svogliata s'indovinava essere il marito. È notevole la cura che questi signori così largamente favoriti dal codice civile pongono a far conoscere i loro diritti ed in pari tempo la fiacchezza con cui sono disposti a difenderli. Pronti, ilari e pieni di smancerie, quando vanno in giro, aliando negli orti del prossimo, costoro vi appaiono stanchi, musoni, pieni di tedio, quando l'ufficio della accompagnatura li trattiene per poco a quattrocchi colle dolci metà. Quell'aria di olimpica noia par che dica alle genti: «Signori, se credono che io ci provi gusto a star qui, s'ingannano a partito; io mi divoro i miei proprii sbadigli, come Saturno i figliuoli. Vengano liberamente e vedranno come piglio il portante. Animo, dunque, en avant les cavaliers!»
Anche la signora moglie profitta di questo matrimoniale intermezzo, per cento atti e vezzi che non riguardano punto il suo annoiato compagno. Si prova due o tre volte sul cuscino; si rassetta la veste, perchè non istia troppo tirata, e perchè faccia agli occhi dei riguardanti un bel partito di pieghe; dà una guardata in giro alle prime file e una sbirciata alle ultime; sorride di compassione, al vedere qualche veste, o acconciatura, non più nuova fiammante; si morde il labbro dall'invidia, scorgendo una collana di diamanti o un paio di gocciole che sembrino deriderla coi mutevoli e sfolgoranti riflessi; solleva con grazia il binoccolo incrostato di madreperla e lo appunta su questo o su quel palchetto rivale, non senza lasciar cadere qualche occhiata in platea e nei posti distinti, dove il suo braccio mollemente appoggiato sul davanzale di velluto è fatto argomento di dotte considerazioni e di ascetiche contemplazioni da tutta una Tebaide di scapoli. Insomma, par che canti anche lei il suo verso: «Signori, non facciano caso, è mio marito; otto anni di matrimonio ci hanno ridotti così. Se il Codice non dicesse che la moglie deve seguire il marito, quando egli la accompagna a teatro, lor signori certamente non mi vedrebbero, vittima rassegnata, misurare i miei passi su quelli del mio sacrificatore. Animo, chi si fa innanzi a consolarci quest'ora di martirio?»
Qui per altro va fatta una restrizione. Se nel palchetto della marchesa di San Ginesio il signore di mezza età appariva alla sua aria svogliata il marito di quella Giunone, la signora dal canto suo non somigliava punto a quel tipo di moglie che ho tratteggiato pur dianzi. La marchesa di San Ginesio aveva dato a mala pena uno sguardo alla sala, nell'atto di sedersi al suo posto, ed essendo giunta in principio di spettacolo (cosa piuttosto rara, che molte altre dame non avrebbero ardito di fare) era rimasta intenta alla scena, e più ancora alla musica, senza pure voltarsi, o sogguardare colla coda dell'occhio, al ripetuto cigolare degli usci e al consecutivo fruscio delle sete e dei velluti, che esercitano durante il primo atto di una rappresentazione la pazienza del colto sì, ma pur qualche volta invelenito uditorio.
Alda di San Ginesio si curava poco del volgo profano che le stava dintorno e lo lasciava scorgere senza un ritegno al mondo. Tale per fermo dovette parere la regina di Cartagine a Jarba, quando costui, alla dimanda, del suo confidente: «Qual ti sembra, o signore?» rispose ammirato il suo metastasiano: «Superba e bella».
Difatti, ella era superba. Ma superba per vano orgoglio, o per gentile alterezza d'animo? Questo venìa domandando a sè stesso il giovine Ariberti, mentre, appuntando il binocolo a caso tre o quattro palchetti più indietro, stava di soppiatto ammirando le forme scultorie (è questa la frase moderna, e l'adopero anch'io senza scrupolo) della sua bella Giunone, che parte emergevano e parte trasparivano dai pizzi, dalle trine e da tutti gli altri intessuti nonnulla, di cui si copre la bellezza, ma senza troppo nascondersi.
Verso la fine del primo atto, l'uscio del palchetto che l'Ariberti non perdeva di vista si aperse, e il voltarsi leggermente che fecero le teste dei coniugi verso il fondo indicò l'arrivo di un visitatore. Le visite lassù erano la gran seccatura del nostro innamorato, che vedeva la marchesa costretta a rimaner lungamente colla faccia rivolta dall'altra banda, le spalle contro la parete, e la persona quasi nascosta a lui nella penombra del palchetto. Inoltre, chi erano essi e con quali intenzioni andavano, tutti quei bene inguantati Achei, a intrattenerla mezz'ora per ciascheduno di cento sciocchezze e a respirare la loro parte d'aria a due spanne dalla sua bocca? Fossero state dame, alla buon'ora; ma uomini!
Per questa volta, sebbene si trattasse di un uomo, l'Ariberti non uscì fuori dai gangheri. Era apparsa dal fondo e si illuminava beatamente in mezzo a quelle dei due coniugi la faccia gloriosa del contino Candioli; un paio di baffi biondi che andavano a smarrirsi nella cascata di due ventole bionde, uscenti senza soluzione di continuità da una bionda zazzera, spartita a mezzo il cranio e tagliata sui lati a punta di spazzola: poi, nei vani lasciati da questa ricca vegetazione di canapa, un fronte piccino e un paio d'occhietti grigi, un naso e un mento angolosetti anzi che no; a farla breve, un bel tipo di cagnolino inglese, che, coll'aiuto del parrucchiere e del sarto, ma più ancora per aver noi fatto l'occhio alla estetica nuova, può anche dirsi ai tempi nostri, un bel giovine.
E questo bel giovane, entrato pur dianzi nel palchetto della marchesa di San Ginesio, non aveva, siccome ho raccontato, fatto dar ne' lumi il nostro Ariberti. Egli ricordava tuttavia due sentenze ed una promessa del conte Candioli. Le sentenze dicevano: «froide, ainsi que le sont généralement toutes les grasses; taille de guêpe et pied d'Andalouse, voilà comme je les aime». La promessa poi era questa; «non dubitate, Ariberti, noi rispetteremo la vostra Giunone». Ora, se la promessa non lo raffidava poi troppo, ben gli parevano sufficiente malleveria le due sentenze del contino, per quanto, a suo giudizio, una fosse bugiarda e l'altra dinotasse un pessimo gusto, almeno nella sua prima metà. Chiedo scusa alla taille de guêpe; non son io che giudico in via sommaria; ho un personaggio alle mani, che pensa a suo modo, e gli fo il dragomanno.