Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.
Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dellacquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.
Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.
Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.
Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.
Non si era accorta dellarrivo dellamico, che si era affrettato a prenderle con forza il capo fra le mani, chiamandola con foga.
«Carmen, Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».
Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, laplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.
La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutta un tratto e abbandonandosi fra le braccia dellamico, che la stese sul tappeto, incosciente.
Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.
Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po dacqua; entrando nel salone da ballo, ebbe limpressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta dacqua fresca.
Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nellangolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con laria disordinata e laspetto trafelato.
Sembrava avesse davvero fretta, quelluomo, ma era lunico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.
Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.
«Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco lacqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.
La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dellamico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.
«Carmen, svegliati, ti prego!».
Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto lalto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.
Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare dun tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.
Ronald fece un salto allindietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento allaltro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.
«Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.
«Certo, Carmen. Ti porto subito».
Sollevò di peso lamica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.
Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.
Fortunatamente, la Volvo che allarrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.
Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dellauto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.
Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.
Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nellappartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.
Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.
Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.
Unindagine complessa
I wish I was a sailor with someone who waited for me
I wish I was as fortunate as fortunate as me
I wish I was a messenger and all the news was good.
(Pearl Jam)
Lunedì.
Passati i giorni peggiori di quella fredda primavera costaricana, passò poco a poco anche il picco dellinfluenza di Castillo.
Dopo il periodo di pit-stop, era finalmente pronto per tornare al lavoro, carico di energia e buoni propositi.
Quella mattina si svegliò presto, uscì fischiettando dalla doccia, si rasò rapidamente, si inondò di dopobarba Denim e decise di indossare, quasi per celebrare il rientro al lavoro (era la prima volta in tanti anni che si assentava per due settimane di fila) il vestito di velluto nero col panciotto che tanto lo faceva sembrare un vecchio giocatore di biliardo.
La cosa gli piaceva, considerato anche il fatto che lui, amante della goriziana, negli anni universitari aveva passato più tempo sul tavolo verde che sui libri del corso di giurisprudenza.
Per colazione la signora Conchita gli preparò un caffè doppio accompagnato da tre churros appena fritti e Castillo la ringraziò con un sonoro bacio sulla guancia.
Lei, come sempre, tentò di fingere disinteresse per quella casta manifestazione di affetto, ma fu tradita da un mal celato sorriso di soddisfazione.
Era una donna ancora affascinante, aveva occhi verdi incastonati in un viso ovale e lunga ciglia nere, gli zigomi alti e un sorriso perfetto.
I lunghi capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle e qualche filo argenteo iniziava a manifestarsi qua e là; ciò non la preoccupava affatto e questo non faceva che aumentare il sentimento dellispettore Castillo, innamorato e orgoglioso della poca importanza che sua moglie attribuiva a mere questioni di apparenza.
«G-grazie, amore m-mio» disse faticosamente Castillo, affondando i denti nel churro più dorato e chiudendo gli occhi a ogni morso per sottolinearne la prelibatezza.
«Di nulla, caro» rispose la signora Conchita, dandogli le spalle e aprendo le ante della finestra della cucina, certa di trovare, sotto il cielo plumbeo, un acquazzone: suo marito, quando pioveva, balbettava.
E quando la pioggia era particolarmente intensa, come quella mattina, le parole proprio sembrava non volessero uscire dalla bocca.
In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dellispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.
Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.
Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, laltra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.
Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte allaltra.
Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano a credere potesse essere naturale; aveva un sorriso solare baciato da una dentatura da pubblicità e due gemme verdi al posto degli occhi, chiara eredità cromosomica della madre.
Era la maggiore e fisicamente la differenza fra le due era lampante; a ventidue anni era già una donna, con le rotondità del seno e dei glutei sempre in bella evidenza, nei vestiti stretti che amava indossare.
Castillo sopportava non senza preoccupazioni quella situazione, per la poca fiducia che aprioristicamente nutriva nei confronti della nuova generazione, ma si sforzava di confortarsi pensando ai bei voti scolastici della figlia che, secondo i suoi insindacabili canoni, era una brava ragazza.
In Carmen erano invece ancora presenti i tratti delladolescenza e a ventanni, diversamente da buona parte delle sue coetanee, non aveva ancora terminato lo sviluppo fisico.
I seni erano solo accennati, era di quasi dieci centimetri più bassa della sorella e pesava venti chili in meno.
Sul suo viso, dai lineamenti aspri enfatizzati dalla magrezza forse eccessiva, risaltavano curiose lentiggini concentrate soprattutto sulle gote; i capelli lunghi e mossi, non curati, contribuivano a creare il personaggio alternativo che le piaceva interpretare fuori dalle mura domestiche, in particolare nelle occasioni in cui riusciva ad accodarsi a Mar e alla sua compagnia.
«N-notte i-impegnativa, ragazze?» chiese Castillo, prima di sorseggiare il caffè nero bollente che, dopo i giorni dinfluenza accompagnati da tristi tisane ristoratrici, gli sembrò più buono che mai.
La signora Conchita scaldò dellacqua e vimmerse due bustine di the, sapendo che avrebbe fatto bene agli stomaci ingarbugliati delle figlie.
Il profumo dellinfuso pervase rapidamente la stanza e sembrò avere un effetto benefico immediato su Mar, che passò in pochi secondi dallo stato di catalessi nel quale si era presentata in cucina a quello di iperattività che tanta invidia provocava a Castillo, ormai lontano da quei ritmi che appartenevano al suo passato di brillante universitario.
Le domande della figlia maggiore lo investirono senza preavviso.
«Papà, torni al lavoro oggi? Hai voglia? Stai seguendo qualche caso? È successo qualcosa dinteressante in questi giorni? Hai visto come piove? Speriamo tu non debba parlare troppo! Mamma, questo the è buonissimo! Carmen, ti vuoi svegliare?» e così via.
Carmen, stringendo fra le mani la tazza fumante preparata dalla madre, rimase nel suo stato catatonico.
Pur incalzato dalle domande della figlia maggiore, lispettore Castillo abbassò la serranda del proprio ascolto e si estraniò dai successivi dieci minuti di conversazione - se di conversazione si poteva parlare, considerando che anche la signora Conchita in quelle situazioni preferiva rinunciare a intervenire nel flusso irrisolto di domande della figlia.
I pensieri iniziarono poco a poco a fluirgli liberi.
Si concentrò sui principali fatti di cronaca nera avvenuti durante il periodo passato a letto, sforzandosi di individuare quelli che potevano scaturire in nuovi lavori per lui e per lo Slavo.
Aveva bisogno di impegnare la testa, dopo i giorni a letto, e percepì una piacevole carica di adrenalina montargli poco a poco dallo stomaco.
Una raffica improvvisa di vento fece sbattere le ante della cucina.
«S-signore mie v-vado al l-lavoro. Splendida g-giornata, eh? Ci vediamo questa s-sera».
Sinfilò limpermeabile verde, afferrò il primo ombrello che gli capitò a portata di mano e soffiò un bacio verso le sue donne, che ricambiarono il saluto, a parte Carmen, che rimase immobile con la tazza fra le mani.
LAlfa 159 attendeva Castillo dallaltra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: lispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.
La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano leffetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dallintensità della pioggia.
Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.
Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di unoccasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.
Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dallauto, comprò un quotidiano allangolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso lufficio, poco distante.
Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.
Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.
Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.
Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.
Optò allora per lintervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.
Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi delluniversità, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dellassolo finale.