Venezia. Ciminiere Ammainate - Alfredo Aiello 10 стр.


La lotta per “cacciare” il proprietario durò due anni, un periodo di tempo lunghissimo per un settore che ancora oggi si basa su una forte politica commerciale in un mercato altamente concorrenziale. Dopo due anni, non era facile rimettere la Galileo sul mercato, né trovare un imprenditore disposto a rilevare l’azienda. Del resto, come ha ricordato Roverato, il bene più prezioso era il prestigioso marchio e i concorrenti a quello, e solo a quello, aspiravano. Iniziò così, dopo l’uscita di scena del vecchio proprietario, un ulteriore periodo difficile e, nel marzo del 1998, 170 lavoratori sui 253 rimasti si videro recapitare la lettera di licenziamento. Fu allora che i lavoratori occuparono l’azienda (non era la prima volta) e la conclusione fu l’acquisizione della Galileo da parte di un’azienda del Bellunese, la Ital-Lenti, che si impegnò a riassumere un centinaio di lavoratori. Successe tutt’altro e l’attività non ha più ripreso a Marghera, mentre si è mantenuto in funzione il Centro servizi di Milano, con diverse decine di addetti. La Ita Lenti ha, di fatto, comprato il solo marchio, rivelando in tal modo il suo vero disegno. Non esiste la prova certa che la linea sindacale finita in minoranza fosse quella giusta, ma esiste la prova che la linea prevalsa è risultata sbagliata, proprio come sosteneva chi non la condivideva. Sbagliare è certamente possibile, resta da stabilire se gli errori hanno un costo. Un costo vi è stato per l’imprenditore, estromesso dalla proprietà; per le banche, che non sono riuscite a recuperare alcune centinaia di miliardi; per i lavoratori, che hanno perso il posto di lavoro (ma hanno scelto consapevolmente una linea sindacale risultata incapace di rispondere ai problemi della loro azienda). E i sindacalisti che hanno portato avanti quella linea? Risultano gli unici a non aver pagato il costo di un proprio errore. Un quesito si pone: è credibile un sindacato che non affronta un tema come quello della responsabilità? La Fiom nazionale, dopo la sconfitta alla Fiat, nel 1980, produsse cambiamenti radicali nel proprio gruppo dirigente, ma non sempre si è seguita questa strada. Nel caso Galileo questo dibattito, purtroppo, è mancato.

La sfida di una nuova cultura del lavoro

La complessità attuale richiede un approccio prudente, ma non per questo deve venir meno il principio della responsabilità prima soggettiva e poi collettiva. Qui si gioca la credibilità di una classe dirigente che dovrebbe essere in “formazione permanente”. La personalizzazione della politica e il sistema elettorale maggioritario accentuano la dicotomia partitica e producono atteggiamenti di contrapposizione. Forse bisognerebbe non solo dare centralità ai programmi politici ma anche introdurre nei programmi temi più audaci, che potrebbero essere forieri di freschezza nel dibattito. Pensiamo al tema del lavoro. Possiamo chiederci con Rozzi: «Davvero il lavoro è sempre un’espressione costruttiva dell’uomo?» (63 Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, Il Mulino, Bologna 1997, p. 7).

In certe culture primitive è così presente la consapevolezza della distruttività del lavoro da trasformarsi religiosamente in rito, per esempio quello che ripara la terra “ferita” dall’aratro.

“Questo elemento di violazione e di violenza è presente in ogni fabbricazione, e homo faber, il creatore del mondo dell’artificio umano, è sempre stato un distruttore della natura. L’ animal laborans, che con il suo corpo e con l’aiuto di animali addomesticati alimenta la vita, può essere il signore e padrone di tutte le creature viventi, ma rimane ancora il servo della natura e della terra; solo homo faber si comporta come signore e padrone di tutta la terra” (64. Arendt H., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano 1989, pp. 99-100).

Oggi vi è la consapevolezza sempre più diffusa che la natura non è inesauribile: distruzione di risorse, inquinamento, spreco sono il prezzo pagato alla nostra opulenza. Nel futuro del mondo capitalistico avanzato, e quindi anche di Porto Marghera, il lavoro tenderà a essere un luogo di convivenza e di scambi anche per la diminuita necessità del lavoro come tradIzionalmente inteso e realizzato. Forse sta in questo passaggio quello che a volte appare come un vero e proprio smarrimento della classe dirigente veneziana, un passaggio che vede aumentare le possibilità di sostituire il lavoro tradizionale, centrato sulla performance, con l’attività. È drasticamente diminuito, direbbe Marx, il lavoro vivo, grazie ai considerevoli progressi tecnologici. E, nello stesso tempo, è aumentato il lavoro rivolto alle persone. Sono cresciute, nello stesso settore industriale, attività non produttive di beni materiali: comunicare, vendere, organizzare, formare professionalmente. Sono tutte attività che hanno al centro la cura dell’uomo e sono caratterizzate dal rapporto non invasivo, non distruttivo con la natura. Ciò rappresenta un netto cambio di direzione e può darsi che per questo «imprenditori, sindacalisti, politici, abbiano paura di una perdita di potere sul lavoro» (65. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, p. 52).

O forse il sistema economico è impossibilitato ad accogliere un simile cambiamento. Dahrendorf si chiede e si risponde:

«Esiste un punto di aggancio nel campo dell’istruzione, che può contribuire a spianare la strada dalla frantumante società del lavoro all’attraente società dell’attività? A questa domanda non ho risposta» (66. Dahrendorf R., Per un nuovo liberalismo, Laterza, Bari 1988, p. 159).

Si è impreparati dinanzi alle aumentate possibilità di cominciare a sostituire il lavoro tradizionale con l’attività, verosimilmente perché viviamo sotto la spinta di un modello di economia capitalistica con il suo problema che «non è in primo luogo produrre ancora più merci, ma produrre sempre di più gli uomini destinati a consumare queste merci» (67. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, p. 86).

Anche a Porto Marghera la cultura dell’industrialismo non ha tenuto conto a sufficienza di quanto

«il lavoro che investe la natura sia diverso da quello rivolto all’uomo... fare il poliziotto, l’infermiere, l’insegnante non è un semplice e positivo produrre, ma è innanzitutto far sì che non accada nell’uomo qualcosa di negativo» (68. Rozzi A.R., Costruire e distruggere. Dove va il lavoro umano?, cit., p. 87).

Forse ciò è avvenuto perché la cultura del lavoro è troppo riduttiva e finisce per non considerare la complessità dell’uomo e dei suoi bisogni. Su questo terreno esiste uno spazio politico che può segnare in profondità la prospettiva di un vecchio polo industriale che può e dovrebbe rimanere un degno attore della vita economica di Venezia.

Parte seconda

Parte seconda

SEDICI INTERVISTE SU PORTO MARGHERA 1999-2006

La libertà riservata ai soli fautori del governo... non è libertà.

La libertà è sempre la libertà di chi pensa diversamente.

Rosa Luxemburg

SEDICI INTERVISTE SU PORTO MARGHERA 1999-2006

Gastone Angelin, Porto Marghera e le lotte operaie

Dal 1957 al 1962 segretario della Fiom di Venezia. Dal 1962 al 1972 nella segreteria del Pci di Venezia, prima con l’incarico di responsabile per il territorio di Mestre e poi come responsabile per la zona industriale di Porto Marghera. Dal 1972 al 1975 segretario della Federazione del Pci di Venezia. Dal 1979 al 1987 senatore della Repubblica.

Incontro Gastone proprio mentre è in corso l’intervento militare della Nato in Serbia. Ed è il primo argomento di cui parla. Mi appare sofferente per il dramma umano che si consuma («pagano sempre i più deboli»). Lui che ha conosciuto la guerra e militato da ragazzo nella Resistenza, noto a Venezia per la sua determinazione e coraggio negli anni difficili per la vita democratica del nostro Paese. Nell’analisi politica, però, è molto lucido e chiaro («Le posizioni di Milosevic sono insostenibili, ma 19 paesi con 500 milioni di abitanti non possono usare armi tanto distruttive contro qualche milione di serbi. C’erano altre strade per indurre Milosevic alla ragione»). Veniamo all’intervista.

C’è qualche fatto particolare che segna il 1970 a Porto Marghera?

C’è un punto fondamentale che, parlando della Porto Marghera degli anni Settanta, bisogna tenere presente: in quegli anni il Pci e il sindacato erano il bersaglio giornaliero di Potere Operaio. Il Pci si muoveva su una linea politica volta all’unità dei lavoratori, della sinistra e con l’obiettivo di realizzare alleanze con i “ceti medi”. Potere Operaio si autodefiniva un’avanguardia che trascinava le masse e che rompeva volontaristicamente le compatibilità del sistema capitalistico, che “ingabbiavano” la classe operaia. Potere Operaio riteneva partito e sindacato soggetti di una politica “deviata”.

Come rispondevano Pci e sindacati a questi attacchi?

Senza concedere nulla. Poi i militanti di Potere Operaio “scoprono” il “nemico” che detiene per davvero il potere e ostacola l’avanzamento della classe operaia: la Democrazia Cristiana e la Confindustria. E parecchi di questi militanti, quando Potere Operaio si scioglie, entrano nel Pci. Si avvia così una nuova fase del dibattito politico, a volte anche aspro, nel partito e nella sinistra sulle prospettive del movimento dei lavoratori e sulla linea politica da seguire per la trasformazione del Paese.

C’è qualcosa che può segnare e caratterizzare la fase che si apre nel 1970 a Porto Marghera?

Bisogna, per forza di cose, andare per un momento al periodo precedente e cioè guardare a come si è sviluppata Porto Marghera. Ed è fondamentale, guardando a questo processo, analizzare e capire la questione dei “Poteri”. È opportuno iniziare proprio dalla questione del potere, guardando al periodo antecedente al 1970. Noi, parlo del Pci, ritenevamo decisiva la partecipazione dei nostri militanti, e più in generale dei cittadini, alle scelte che riguardavano la vita collettiva e i processi economici; ciò induceva il gruppo dirigente, a partire dal Comitato Federale, a lunghe e appassionate discussioni. Mentre noi discutevamo, però, gli altri, intendo ad esempio la Democrazia Cristiana e la Confindustria veneziana, decidevano e procedevano nel realizzare le loro decisioni, come l’insediamento in Porto Marghera di industrie come quella, molto pesante, della chimica di base, manifestamente incompatibile con la fragilità dell’ambiente lagunare, al centro di un’area abitata da centinaia di migliaia di persone e a ridosso del centro storico di Venezia.

Erano incontrastati?

Potevano farlo soprattutto perché avevano dalla loro parte i soldi, gli strumenti e il potere politico. Ricordo lo scontro politico agli inizi degli anni Sessanta contro il Consorzio per la Zona Industriale, perché funzionava come strumento di un potere privatistico totalizzante in ordine alle scelte di sviluppo nell’area dettate da convenienze esclusivamente capitalistiche. Va ricordato a questo proposito il Piano regolatore di Porto Marghera, strumento urbanistico per lungo tempo “autogestito” dall’imprenditoria privata. Questo ha indotto altri interventi nel territorio, come quelli gestiti dalla Dc che amministrava il Comune, con cui si è favorita la crescita urbana di Mestre, allora fortemente criticata da sinistra per essere diventata la “città dormitorio” cresciuta in gran parte in funzione di Porto Marghera e favorita dalla speculazione edilizia e sulle aree.

Puoi fare qualche esempio più concreto di utilizzo di questo potere che ha condizionato l’esercizio di quello pubblico?

Nel 1928 è varata la “Prima legge speciale per Venezia e Porto Marghera” e riguarda l’area Bottenighi. In questa legge vi sono dei punti importanti. Uno di questi riguarda le cosiddette “autonomie funzionali” ovvero la possibilità per le imprese di usare in proprio le banchine portuali della zona industriale, per lo scarico delle materie prime e per la spedizione dei manufatti prodotti. Questa possibilità era nettamente alternativa all’uso delle strutture pubbliche del porto e degli addetti della Compagnia Lavoratori Portuali, che operavano in porto. Di fatto si è affermata una logica di monopolio privato supportata da una legge dello Stato.

Un altro punto importante?

È l’affermazione che strumenti di programmazione territoriale vengono sottratti ai poteri pubblici e gestiti direttamente dagli imprenditori privati. Ciò vuol dire che sull’area dove è previsto l’insediamento di aziende loro hanno piena libertà di fare e disfare, senza alcun controllo pubblico. Immaginiamo quanti guasti ha creato questa condizione? Senza questa gestione del potere privato sarebbe stato possibile costruire un’altra Porto Marghera? Trovo legittimo porsi questa domanda.

Come si è agito per contrastare questo “strapotere” dell’imprenditoria privata?

Il nostro dibattito non ha avuto un andamento sempre lineare, influenzato, come è ovvio, da altri soggetti. Vi erano in campo diverse proposte: per esempio quella di Italia Nostra che, fino al 1964-65, sosteneva una linea di sostanziale conservazione dell’esistente, comprensibile se volta a ostacolare un pesante processo di manomissione dell’ambiente, ma che non poteva essere condivisa in quanto appariva contraria a ogni ipotesi di sviluppo industriale, anche se compatibile. Poi vi erano le posizioni degli industriali sostenute da parte della Dc, che volevano lo sviluppo del polo industriale. Un’altra parte della Dc sosteneva l’idea di realizzare “una fabbrica per ogni campanile”, una logica, cioè, di sviluppo diffuso che finiva per produrre un’eccessiva polverizzazione e quindi un indebolimento del tessuto industriale.

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