Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella di mio padre, zitellona bisbetica, con un pajo docchi da furetto, bruna e fiera. Si chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutta un tratto, discorrendo, sinfuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto docchi, specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo gridare, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento:
Senti il vuoto? La talpa! la talpa!
Alludeva al Malagna, allamministratore che ci scavava soppiatto la fossa sotto i piedi.
Zia Scolastica (lho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madre riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né dànno di questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della giustizia; e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare che quelluomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data lassoluta inettitudine e la cecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E lo designava anche in persona dun poveruomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.
Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamo come il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Fin da ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di mio fratello Berto.
Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolastica, che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto, di alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, ma perché il più lontano sospetto che luomo da lei amato avesse potuto anche col solo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere diceva un delitto. Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco: Pomino, no. Ma se nera accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che avevano chiesto la sua mano, e che poi si erano ammogliati, ella era riuscita a scoprire qualche tradimento, e ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino, niente; anzi il poveruomo era stato un martire della moglie.
E perché dunque, ora, non lo sposava lei? Oh bella, perché era vedovo! era appartenuto a unaltra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbe potuto pensare. E poi perché via! si vedeva da cento miglia lontano, non ostante la timidezza: era innamorato, era innamorato sintende di chi, quel povero signor Pomino!
Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso un vero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che zia Scolastica dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate della cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lì presente a quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi più sperticate.
Mimmagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seggiola, come su un arnese di tortura:
Oh santo nome di Dio benedetto!
Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che sincipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po di rossetto, appena appena, un velo, su le guance: certo si compiaceva daver conservato fino alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla, e si rassettava continuamente con le mani.
Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, non certo per sé ma in considerazione dellavvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìto il consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. È fuor di dubbio però che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebbero potuti andare.
Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero, era andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie di quel ladro il resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere senza bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nulla, seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci aveva abituati.
Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu il nostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli ci sera già tanto abituato che si chiamava Pinzone da sé.
Era duna magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto, Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutta un tratto, quasi stanco di tallir gracile in sù, non gli si fosse curvato sotto la nuca, in una discreta gobbetta, da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel dun pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che né la mamma né noi vedevamo. Non parlava, forse perché non stimava dover suo parlare, o perché comio ritengo più probabile ne godeva in segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purché lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò, felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli alberi, arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa, appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita al Malagna:
Ecco, le dirò rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narrò per filo e per segno quanto avevamo fatto.
Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ci prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio, io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta dingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo per castigo prima dellora solita, riuscimmo a scovare una canna di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo dacqua saponata nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo la canna alle nari e zifff! . Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto.
Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, non sarà difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone; ché egli anzi, pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo né a disciplina, e ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra attenzione. Spesso con me, chero di natura molto impressionabile, ci riusciva. Ma egli aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, per esempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poeti perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso.
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:
In cuor di donna quanto dura amore?
(Ore).
Ed ella non mi amò quantio lamai?
(Mai).
Or chi sei tu che sì ti lagni meco?
(Eco).
E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, dun altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton lUticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite.
Udite, udite questaltro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:
A un tempo stesso io mi son una, e due,
E fo due ciò chera una primamente.
Una mi adopra con le cinque sue
Contra infiniti che in capo ha la gente.
Tutta son bocca dalla cinta in sue,
E più mordo sdentata che con dente.
Ho due bellichi a contrapposti siti,
Gli occhi ho ne piedi, e spesso a gli occhi i diti.
Mi pare di vederlo ancora, nellatto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.
Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone cinsegnava; e credeva forsanche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la quale non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino sera messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, simbatté in me per una delle stanze abbandonate; mafferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: Bellino! bellino! bellino! e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra i denti:
Muso di cane!
Ce laveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove.
Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero locchio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, questocchio non mavrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.
A diciottanni minvase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.
Forse, se fosse in facoltà delluomo la scelta dun naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un poveruomo oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo dirgli: «Questo naso sta bene a me, e me lo piglio;» forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.
Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.
Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le malannate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne.
Abbiamo avuto unaltra bella bussata! diceva ogni volta, entrando.
La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti.
Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il podere della Stìa, col molino. Mia madre saspettava chegli un giorno venisse a dire chera seccata la sorgiva.
Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui.
Egli ebbe larte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma quellagiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere labisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.
Il mio matrimonio, invece
Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:
E come no? Sicuro. Pulitamente
Ma che pulitamente! Voi sapete bene che
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:
Sio fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono
Ce lha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene. Coraggio, dunque; avanti!
IV
Fu così
Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo.
Ti conosco, gli dicevo, ti conosco
Poi, a un tratto, esclamai:
To! Batta Malagna.
Presi un tridente, chera lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitré.
Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione, di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dallattaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data limminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra.
Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri mimmagino, debbono avere una certa impostatura, chegli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere comegli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, poveruomo.
Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare.