Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке - Луиджи Пиранделло 6 стр.


Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e ne parlai a lei, poiché zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro giorni dopo, diventai bibliotecario. Sessanta lire al mese. Più ricco della vedova Pescatore! Potevo cantar vittoria.

Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli, a cui non ci fu verso di fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò non doveva più venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stessora, né un minuto prima né un minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno per mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal taschino del panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con tutta la formidabile catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di tasca la papalina, la tabacchiera e un pezzolone a dadi rossi e neri; sinfrociava una grossa presa di tabacco, si puliva, poi apriva il cassetto del tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla biblioteca: Dizionario storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi, stampato a Venezia nel 1758.

 Signor Romitelli! gli gridavo, vedendogli fare tutte queste operazioni, tranquillissimamente, senza dare il minimo segno daccorgersi di me.

Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo scotevo per un braccio, ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la faccia per sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi, così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma che! leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo; leggeva forte:

 Birnbaum, Giovanni Abramo Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738 a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8° in-8°: Osservazioni imparziali su un passo delicato del Musicista critico. Mitzler Mitzler inserì Mitzler inserì questo scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739

E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e date, come per cacciarsele a memoria. Perché leggesse così forte, non saprei. Ripeto, non sentiva neanche le cannonate.

Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare a quelluomo, ridotto in quello stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi dopo la mia nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8°? E non gli fosse almeno costata tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere che non potesse farne a meno di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti (lui, così sordo!) e artisti e amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva forse che un bibliotecario, essendo la biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto mai apparirvi anima viva; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un altro? Era tanto imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto più probabile della prima.

Intanto, sul tavolone lì in mezzo, cera uno strato di polvere alto per lo meno un dito; tanto che io per riparare in certo qual modo alla nera ingratitudine de miei concittadini potei tracciarvi a grosse lettere questa iscrizione:

A MONSIGNOR BOCCAMAZZAMUNIFICENTISSIMO DONATOREIN PERENNE ATTESTATO DI GRATITUDINEI CONCITTADINIQUESTA LAPIDE POSERO

Precipitavano poi, a quando a quando, dagli scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto un coniglio.

Furono per me come la mela di Newton.

 Ho trovato! esclamai, tutto contento. Ecco loccupazione per me, mentre Romitelli legge il suo Birnbaum.

E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza, dufficio, allesimio cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica istruzione, affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui mantenimento non avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i suddetti animali avrebbero avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della loro caccia. Soggiungevo che non sarebbe stato male provvedere altresì la biblioteca duna mezza dozzina di trappole e dellesca necessaria, per non dire cacio, parola volgare, che da subalterno non stimai conveniente sottoporre agli occhi dun assessore comunale per la pubblica istruzione.

Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di quegli enormi topi, e per non morir di fame si ficcavano loro nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare.

Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui avesse soltanto lobbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della biblioteca, volli, prima dandarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò:

 Che è stato?

 Due topi, signor Romitelli!

 Ah, topi fece lui tranquillamente.

Erano di casa; cera avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura del suo libraccio.

In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano «parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato unaltra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia dammaccature.

Ora così venne a maturazione lanima mia, ancora acerba.

In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli, mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma poteva bastarmi?

La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali, provai un brivido dorrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir lobbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e sissignori mi misi a leggere anchio, e anchio con un occhio solo, perché quellaltro non voleva saperne.

Lessi così di tutto un po, disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria.

La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e mimpedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia densa e greve, mormorando:

 Così, sempre, fino alla morte, senzalcun mutamento, mai

Limmobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per scuotermela daddosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna:

 Ma perché? ma perché?

E mi bagnavo i piedi.

Il mare allungava forse un po più qualche ondata, per ammonirmi:

«Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! Lacqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia: va, va piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in8°: ne trarrai senza dubbio maggior profitto.»

Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo!

Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera mafferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso:

 Un medico! Scappa! Romilda muore!

Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece, «Correte!». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte pigliare; e mentre correvo, non so come, Un medico! un medico! andavo dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anchio a spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: Un medico! un medico!

E il medico intanto era là, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir laltra alla luce.

 Due!

Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, luna accanto allaltra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine così gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e anchesse non avevano forza di vagire, come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si sgraffiavano!

Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: erano mie!

Una mi morì pochi giorni dopo; laltra volle darmi il tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto lardore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e sera fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli doro chio mavvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: Figlia ; e lei di nuovo: Papà ; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro.

Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stessora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla più rivedere, baciare per lultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un minuto debbo dirlo? molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano, umano, umano io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai.

Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando mi destai, il dolore massalì rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia, che non erano più E fui quasi per impazzire. Unintera notte vagai per il paese e per le campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel podere della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo, vecchio mugnajo, lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto gli alberi, e mi parlò a lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de bei tempi lontani; e mi disse che non dovevo piangere e disperarmi così, perché per attendere alla figlioletta mia, nel mondo di là, era accorsa la nonna, la nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle ginocchia e le avrebbe parlato di me sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai.

Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi le lagrime, mi mandò cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della mamma, diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica.

Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio della biblioteca.

Poi servirono per me; e furono come dirò la cagione della mia prima morte.

VI

Tac tac tac

Lei sola, là dentro, quella pallottola davorio, correndo graziosa nella roulette, in senso inverso al quadrante, pareva giocasse:

«Tac tac tac»

Lei sola: non certo quelli che la guardavano, sospesi nel supplizio che cagionava loro il capriccio di essa, a cui ecco sotto, su i quadrati gialli del tavoliere, tante mani avevano recato, come in offerta votiva, oro, oro e oro, tante mani che tremavano adesso nellattesa angosciosa, palpando inconsciamente altro oro, quello della prossima posta, mentre gli occhi supplici pareva dicessero: «Dove a te piaccia, dove a te piaccia di cadere, graziosa pallottola davorio, nostra dea crudele!».

Ero capitato là, a Montecarlo, per caso.

Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato comero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere a quel modo; miserabile, senza né probabilità né speranza di miglioramento, senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche minimo, allamarezza, allo squallore, allorribile desolazione in cui ero piombato; per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca.

Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui mero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per lAmerica, così alla ventura.

Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin fine, di ciò che avevo sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad altre catene, ma più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi sarebbero certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi sarei sottratto almeno alloppressione che mi soffocava e mi schiacciava.

Se non che, giunto a Nizza, mero sentito cader lanimo. Glimpeti miei giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi aveva tarlato dentro, e svigorito il cordoglio. Lavvilimento maggiore mera venuto dalla scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte, così lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senzalcuna preparazione.

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