quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente
e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un
ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli
dellanimale con inquietanti sfumature rosse.
E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a
me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone
naturale.
Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,
pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la
vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni
eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri
strani sogni.
I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei
desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che
accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto
verso un amico amato che non mi aveva capito come essere
umano.
Avevo sognato questa negazione di aiuto, ma con la mia
natura testarda e coraggiosa ero andata contro quello che
avevo percepito, e avevo continuato. Avevo sbattuto la porta
perché non avevo ascoltato la mia naturale e sensibile voce
interiore. Lavvertivo fin dalla tenera infanzia, ma ne avevo
preso coscienza da poco, solo da adesso che scappavo dai
mostri o li combattevo.
Presi a camminare per una valle che si inerpicava, foglie
di quercia rossa ovunque. Era autunno, le foglie si staccavano
dagli alberi, profumo di pioggia appena caduta, di muschio
selvaggio.
Vicino a me un ambiente ovattato, dove finalmente potevo
accendere un fuoco per riscaldarmi. Fortunatamente nella sacca
avevo ancora la mia riserva di carne essiccata; preparai il
fuoco e mi misi comodamente a campeggiare. Poi mi coricai a
pesare la notte.
La notte fu lunga e sognai di viaggiare per i mari su
goffi battelli.
Al risveglio, la brina e poi gocce di rugiada. Doveva
essere metà settembre e le foglie avevano creato uno strato di
diversi centimetri dove i miei stivali sprofondavano.
Erano stivali femminili, comodi, e avevano leleganza dei
vecchi stivali da cowboy. Il loro pensiero attenuava le
riflessioni sulla solitudine, la puntura fredda e profonda
della nostalgia e i pensieri intimi e tristi. Era proprio
questa intimità che sentivo nel profondo di quella strana
foresta di quercia rossa, dove le foglie cadevano ed erano
rosso sangue.
Tuttavia mi sentivo seguita, spiata.
Questa sensazione di essere spiata, la percezione che
qualcosa di oscuro si stesse accalcando e stesse progettando
alle mie spalle, lavevo avuta anni dopo ladolescenza, quando
qualcuno mi aveva nascosto strani messaggi nella posta,
messaggi che sembravano di amore, ma non erano chiari e per
questo ancora più inquietanti.
Nonostante quegli oscuri presagi, avanzavo nella boscaglia
e spesso mi voltavo per controllare perché non mi sentivo
serena; percepivo la nebbiolina, la rugiada e non capivo cosa
fosse.
Poi, dimprovviso, lincertezza e il timore si
materializzarono e fu paura vera, terrore come quello che solo
i bambini possono percepire.
Mi sentii piccola e corsi via da quelluomo con gli
stivali neri che mi inseguiva, chiedendomi come un pazzo:
«Perché?».
Ma come, perché?
Perché invece sei tu a farmi questa domanda? mi dissi.
Mentre correvo per non cedere al panico, pensavo a come
organizzarmi per sopravvivere: era listinto di sopravvivenza,
era una sorta di freddezza naturale e orgoglio.
Poteva uccidermi ma non sarebbe mai entrato nella mia
testa.
La mia testa si concentrava mentre il mio corpo scappava.
Correvo sulle radici sperando che il feroce uomo che mi
inseguiva cadesse. Non lo guardavo mai negli occhi, quegli
occhi che ti controllavano di soppiatto, occhi da coccodrillo
che puntano la preda da sotto il pelo dellacqua.
Per intuito avevo capito che il mio inseguitore era
diabetico. Lo avevo percepito grazie a una delle mie strane
intuizioni e grazie ad alcune voci provenienti da altre
dimensioni molto lontane. Inoltre sapevo che era diabetico
perché aveva i piedi tormentati da piaghe; presto dovevano
essere tagliati.
La mia speranza veniva dal mio animo tenace e speravo si
stancasse, speravo che la strana malattia di cui probabilmente
soffriva lo colpisse di improvviso nella corsa, che gli
fermasse il metabolismo degli zuccheri, o che avesse
semplicemente una crisi e si accasciasse al suolo.
Correvo e intanto i rami si facevano più bassi e
intricati. Mi abbassai sperando che lui avesse più difficoltà,
essendo più alto di me; tiravo i rami verso di me desiderando
che gli arrivassero in faccia.
Odiavo profondamente quello che mi stava facendo. Il mio
odio era provocato, in particolare, dalla paura che provavo.
Era in parte orgoglio, lo ammetto: chi era per costringermi
alla fuga, per tormentare le mie membra nella morsa
attanagliante della paura?
Intanto continuavo a correre e lui, con il suo fisico
robusto, sembrava tollerare che quella corsa di velocità si
fosse trasformata in una corsa di resistenza.
Il mio sudore cadeva per terra insieme a grosse lacrime, e
sentivo che la speranza mi stava abbandonando ma ecco che
vidi qualcosa di nuovo: mio nonno, davanti a me.
Vedendomi preoccupata, il nonno mi avrebbe proiettata in
unaltra situazione, in una dimensione molto più intima e meno
pericolosa, e mi avrebbe rassicurata, ne ero certa.
La mia certezza avrebbe ben presto avuto tempo per
materializzarsi o distruggersi.
CAPITOLO 2
Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei
propri sogni (Eleanor Roosevelt)
LA CONSOLAZIONE E PROBLEMI ALTERNATIVI
Era proprio il mio caro nonno, tenero nella vecchiaia,
terribile in gioventù. Era sempre stato un tipo difficile,
dispettoso, tagliente, e per alcuni versi era il tipico macho
italiano.
Da giovane era stato moro di capelli, occhi scuri da
spagnolo, pelle olivastra arsa dal sole, spalle larghe da
contadino. Non era alto, su per giù come me, ma molto più
robusto. Solo le mani le avevamo uguali, mani lunghe e
affusolate, mani che gli inglesi definiscono da fornaio, da
panettiere, e infatti era stato proprio questo il suo mestiere
durante la sua vita. Si alzava prima del canto del gallo per
lavorare duramente, e non aveva bisogno della radio: aveva
infatti una voce calda e piena da baritono, una voce che ti
tiene compagnia e ti rassicura lungo la strada, e lungo il mio
cammino nei miei sogni lo avevo rincontrato.
Il nostro incontro era stato rassicurante. Mi aveva
appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva
appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva
sussurrato di non preoccuparmi, che tutto si sarebbe sistemato
e che mi capiva, mi consolava e sapeva quanto fosse stato
difficile per me il mio percorso. Già, lungo il mio tragitto
emotivo vi erano sterpaglie e spine, e i miei piedi erano
pieni di vesciche. Moralmente ero molto abbattuta.
Lui sapeva cosa stavo passando. Era stato capo partigiano,
aveva lottato contro loppressione di Mussolini. Amava la
libertà e proprio questo nome gli era stato dato: si chiamava
Libero. Era libero, era aeriforme; era uno spirito oramai,
dopo che nel 1996 un infarto se lo era portato via,
improvvisamente e velocemente.
Così in fretta che non avevo avuto il coraggio di vederlo
nella camera mortuaria.
Tuttavia ora era davanti a me, come lo ricordavo: ancora
olivastro, sempre attivo, e con la preoccupazione di vedere la
nipote diventare rapidamente una giovane donna.
Già, una donna, dentro di me sarei diventata una donna. Mi
sentivo innocente e ingenua, ma sapevo che molte cose
avrebbero dovuto ancora capitarmi, che la vita era lunga e
piena di assilli, di fastidi.
Dicono che per ogni nostro talento, Dio ci fornisca una
frusta. La frusta è data per lautoflagellazione e
questultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.
I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,
e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto
comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo
incubo a occhi aperti.
Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi
inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e
i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola
creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi
un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e
tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava
bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.
I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita
tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,
si ritirano a guscio dentro se stessi.
Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino
inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come lululare del
vento.
Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che
non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei
dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi
inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora
una volta.
Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,
così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai
tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni
passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano
velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.
Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più
fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e
ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.
Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso
abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza
e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi
visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il
prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.
Dopo quellinseguimento ci fu unaltra sconvolgente
visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non
riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta
di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.
Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.
Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal
mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava
chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.
Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non
ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e
di costruirmi una famiglia. Lho sempre vista come una cosa
lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia
personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per
il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che
hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle
mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,
temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse
male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non
nascono normali.
Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci
sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo
segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli
maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino
che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca
legnosa piena di celle.
Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le
cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il
seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si
divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una
malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che
avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto
toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo
continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo
ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,
una decisione doveva essere presa.
La decisione era vitale, non potevo lasciare che il
bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina
che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.
Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere
innocuo il mostro e salvarla.
Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una
mia tipica reazione allo stress.
La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami
alluniversità, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle
con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli
cervicali.
Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare
qualcosa.
Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il
muro ma contro di me; speravo che dopo un po di tempo con
linerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la
brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non
integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il
temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di
mano ed era molto viscida a causa dellolio spesso e
impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.
Era scuro e quellimpresa mi causava fatica. Mi sentivo
osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i
brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in
ogni mio singolo respiro Il bambino era la mia coscienza e
non mi dava pace.
La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti
fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.
Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta
la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere