Scala E Cristallo - Alessandra Grosso 2 стр.


quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente

e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un

ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli

dellanimale con inquietanti sfumature rosse.

E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a

me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone

naturale.

Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,

pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la

vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni

eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri

strani sogni.

I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei

desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che

accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto

verso un amico amato che non mi aveva capito come essere

umano.

Avevo sognato questa negazione di aiuto, ma con la mia

natura testarda e coraggiosa ero andata contro quello che

avevo percepito, e avevo continuato. Avevo sbattuto la porta

perché non avevo ascoltato la mia naturale e sensibile voce

interiore. Lavvertivo fin dalla tenera infanzia, ma ne avevo

preso coscienza da poco, solo da adesso che scappavo dai

mostri o li combattevo.

Presi a camminare per una valle che si inerpicava, foglie

di quercia rossa ovunque. Era autunno, le foglie si staccavano

dagli alberi, profumo di pioggia appena caduta, di muschio

selvaggio.

Vicino a me un ambiente ovattato, dove finalmente potevo

accendere un fuoco per riscaldarmi. Fortunatamente nella sacca


avevo ancora la mia riserva di carne essiccata; preparai il

fuoco e mi misi comodamente a campeggiare. Poi mi coricai a

pesare la notte.

La notte fu lunga e sognai di viaggiare per i mari su

goffi battelli.

Al risveglio, la brina e poi gocce di rugiada. Doveva

essere metà settembre e le foglie avevano creato uno strato di

diversi centimetri dove i miei stivali sprofondavano.

Erano stivali femminili, comodi, e avevano leleganza dei

vecchi stivali da cowboy. Il loro pensiero attenuava le

riflessioni sulla solitudine, la puntura fredda e profonda

della nostalgia e i pensieri intimi e tristi. Era proprio

questa intimità che sentivo nel profondo di quella strana

foresta di quercia rossa, dove le foglie cadevano ed erano

rosso sangue.

Tuttavia mi sentivo seguita, spiata.

Questa sensazione di essere spiata, la percezione che

qualcosa di oscuro si stesse accalcando e stesse progettando

alle mie spalle, lavevo avuta anni dopo ladolescenza, quando

qualcuno mi aveva nascosto strani messaggi nella posta,

messaggi che sembravano di amore, ma non erano chiari e per

questo ancora più inquietanti.

Nonostante quegli oscuri presagi, avanzavo nella boscaglia

e spesso mi voltavo per controllare perché non mi sentivo

serena; percepivo la nebbiolina, la rugiada e non capivo cosa

fosse.

Poi, dimprovviso, lincertezza e il timore si

materializzarono e fu paura vera, terrore come quello che solo

i bambini possono percepire.

Mi sentii piccola e corsi via da quelluomo con gli

stivali neri che mi inseguiva, chiedendomi come un pazzo:

«Perché?».

Ma come, perché?

Perché invece sei tu a farmi questa domanda? mi dissi.

Mentre correvo per non cedere al panico, pensavo a come

organizzarmi per sopravvivere: era listinto di sopravvivenza,

era una sorta di freddezza naturale e orgoglio.

Poteva uccidermi ma non sarebbe mai entrato nella mia

testa.

La mia testa si concentrava mentre il mio corpo scappava.

Correvo sulle radici sperando che il feroce uomo che mi

inseguiva cadesse. Non lo guardavo mai negli occhi, quegli

occhi che ti controllavano di soppiatto, occhi da coccodrillo

che puntano la preda da sotto il pelo dellacqua.

Per intuito avevo capito che il mio inseguitore era

diabetico. Lo avevo percepito grazie a una delle mie strane

intuizioni e grazie ad alcune voci provenienti da altre

dimensioni molto lontane. Inoltre sapevo che era diabetico

perché aveva i piedi tormentati da piaghe; presto dovevano

essere tagliati.

La mia speranza veniva dal mio animo tenace e speravo si

stancasse, speravo che la strana malattia di cui probabilmente

soffriva lo colpisse di improvviso nella corsa, che gli

fermasse il metabolismo degli zuccheri, o che avesse

semplicemente una crisi e si accasciasse al suolo.

Correvo e intanto i rami si facevano più bassi e

intricati. Mi abbassai sperando che lui avesse più difficoltà,

essendo più alto di me; tiravo i rami verso di me desiderando

che gli arrivassero in faccia.

Odiavo profondamente quello che mi stava facendo. Il mio

odio era provocato, in particolare, dalla paura che provavo.

Era in parte orgoglio, lo ammetto: chi era per costringermi

alla fuga, per tormentare le mie membra nella morsa

attanagliante della paura?

Intanto continuavo a correre e lui, con il suo fisico

robusto, sembrava tollerare che quella corsa di velocità si

fosse trasformata in una corsa di resistenza.

Il mio sudore cadeva per terra insieme a grosse lacrime, e

sentivo che la speranza mi stava abbandonando ma ecco che

vidi qualcosa di nuovo: mio nonno, davanti a me.

Vedendomi preoccupata, il nonno mi avrebbe proiettata in

unaltra situazione, in una dimensione molto più intima e meno

pericolosa, e mi avrebbe rassicurata, ne ero certa.

La mia certezza avrebbe ben presto avuto tempo per

materializzarsi o distruggersi.


CAPITOLO 2

Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei

propri sogni (Eleanor Roosevelt)

LA CONSOLAZIONE E PROBLEMI ALTERNATIVI

Era proprio il mio caro nonno, tenero nella vecchiaia,

terribile in gioventù. Era sempre stato un tipo difficile,

dispettoso, tagliente, e per alcuni versi era il tipico macho

italiano.

Da giovane era stato moro di capelli, occhi scuri da

spagnolo, pelle olivastra arsa dal sole, spalle larghe da

contadino. Non era alto, su per giù come me, ma molto più

robusto. Solo le mani le avevamo uguali, mani lunghe e

affusolate, mani che gli inglesi definiscono da fornaio, da

panettiere, e infatti era stato proprio questo il suo mestiere

durante la sua vita. Si alzava prima del canto del gallo per

lavorare duramente, e non aveva bisogno della radio: aveva

infatti una voce calda e piena da baritono, una voce che ti

tiene compagnia e ti rassicura lungo la strada, e lungo il mio

cammino nei miei sogni lo avevo rincontrato.

Il nostro incontro era stato rassicurante. Mi aveva

appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva

appoggiato la sua mano callosa e lunga sulla spalla e aveva

sussurrato di non preoccuparmi, che tutto si sarebbe sistemato

e che mi capiva, mi consolava e sapeva quanto fosse stato

difficile per me il mio percorso. Già, lungo il mio tragitto

emotivo vi erano sterpaglie e spine, e i miei piedi erano

pieni di vesciche. Moralmente ero molto abbattuta.

Lui sapeva cosa stavo passando. Era stato capo partigiano,

aveva lottato contro loppressione di Mussolini. Amava la

libertà e proprio questo nome gli era stato dato: si chiamava

Libero. Era libero, era aeriforme; era uno spirito oramai,

dopo che nel 1996 un infarto se lo era portato via,

improvvisamente e velocemente.

Così in fretta che non avevo avuto il coraggio di vederlo

nella camera mortuaria.

Tuttavia ora era davanti a me, come lo ricordavo: ancora

olivastro, sempre attivo, e con la preoccupazione di vedere la

nipote diventare rapidamente una giovane donna.

Già, una donna, dentro di me sarei diventata una donna. Mi

sentivo innocente e ingenua, ma sapevo che molte cose

avrebbero dovuto ancora capitarmi, che la vita era lunga e

piena di assilli, di fastidi.

Dicono che per ogni nostro talento, Dio ci fornisca una

frusta. La frusta è data per lautoflagellazione e

questultima ha un nome: per me, si chiama sensi di colpa.

I sensi di colpa mi avevano sempre provocato gli incubi,

e, infatti, essere sempre stata, durante la mia vita, molto

comprensiva con i bambini, mi aveva portato al successivo

incubo a occhi aperti.

Le pupille vedevano materializzarsi un bambino che mi

inseguiva, ma non era un bambino sorridente: aveva le unghie e

i denti, zanne che potevano mordere e strappare. La piccola

creatura poteva lacerarmi. Piangeva ma il suo pianto era quasi

un raccapricciante latrato, e io ne ero terrorizzata, sudavo e

tremavo. Ero sempre stata emotiva, infatti mi rappresentava

bene la descrizione del feeler, in questo caso spaventato.

I feeler sono emotivi ed empatici. Amano la vita

tranquilla, i sorrisi e i bambini; affetti dai sensi di colpa,

si ritirano a guscio dentro se stessi.

Io non potevo ritirarmi dentro me stessa perché il bambino

inferocito mi inseguiva e piangeva, urlava come lululare del

vento.

Avevo paura di affrontare la bestia e la mia innocenza che

non avevo preservato. Non avevo salvato quello che avrei

dovuto salvare e la mia coscienza mi perseguitava e mi

inseguiva, e io non potevo fare niente se non scappare, ancora

una volta.

Non avrei avuto il cuore di prendere a pugni un bambino,

così correvo, ma mi ritrovavo a correre con degli stivali dai

tacchi scomodi. Questi mi provocavano un dolore sordo a ogni

passo, mi laceravano tormentandomi la pelle e mi aprivano

velocemente vesciche. Erano un tormento senza fine.

Poi caddi sui gomiti e presi ad avanzare con ancor più

fatica sul pavimento di legno marrone scuro, scivoloso e

ostile, gelido come gli occhi del bambino che mi inseguiva.

Sapevo di meritarmeli, quegli occhi, non avevo difeso

abbastanza i bambini nella vita, non li avevo amati abbastanza

e attraverso questo ennesimo mostro loro tornavano a farmi

visita. Una visita amara ma costruttiva: dovevo pagare il

prezzo dei miei errori ed ero pronta a riconoscerli.

Dopo quellinseguimento ci fu unaltra sconvolgente

visione: una bambina che rimbalzava contro i muri e io non

riuscivo a evitare che si facesse male. Era scivolosa, coperta

di olio, e cambiava direzione. Era imprevedibile.

Rappresentava esattamente la confusione che avevo dentro.

Non sapevo se proteggere lei o salvare me stessa dal

mostro che mi stava ancora inseguendo, il bambino che ululava

chiedendomi perché, tentando di ghermirmi e chiamandomi MAMMA.

Spaventosa parola per me che, sebbene ami i bambini, non

ho mai considerato seriamente la possibilità di essere mamma e

di costruirmi una famiglia. Lho sempre vista come una cosa

lontana nel futuro, lontana da me, limitante per la mia

personalità e anche, odio doverlo ammettere, distruttiva per

il corpo femminile così delicato. Teneri sono i bambini che

hanno bisogno di cure, e ogni volta che vedevo le figlie delle

mie amiche muovere i primi passi mi aggiravo pensierosa,

temendo che la peste di turno rompesse qualcosa o si facesse

male; poi ci sono bambini e bambini. Ci sono bambini che non

nascono normali.

Voglio dire, tutti abbiamo la nostra individualità, ma ci

sono bambini che maltrattano gli animali e questo è un primo

segno preoccupante. Molti serial killer da piccoli

maltrattavano gli animali, ed era proprio il caso del bambino

che mi rincorreva in quel posto sudicio, quella baracca

legnosa piena di celle.

Percepivo dalla sua violenza, dal modo con cui rompeva le

cose, che non aveva ricevuto amore, ma sentivo anche che il

seme del male era insito in lui: era stato abusato e ora si

divertiva ad abusare. Era il male che si spargeva come una

malattia che non lasciava scampo, che ti rincorreva e che

avrebbe finito con il distruggerti lentamente soltanto

toccandoti. Era angosciante e sempre presente. Non potevo

continuare a scappare, dovevo reagire, tuttavia non sentivo

ancora le gambe sufficientemente forti, anche se, prima o poi,

una decisione doveva essere presa.

La decisione era vitale, non potevo lasciare che il

bambino mi distruggesse, ma dovevo anche fermare la bambina

che continuava a scivolarmi e a rimbalzare contro i muri.

Dovevo studiare un piano, una strategia per rendere

innocuo il mostro e salvarla.

Nel frattempo mi facevano anche male le spalle: era una

mia tipica reazione allo stress.

La tensione nervosa, per esempio, prima degli esami

alluniversità, mi portava a contrarre i muscoli delle spalle

con risultati pessimi per le scapole e per i muscoli

cervicali.

Tuttavia dovevo fare qualcosa, dovevo dannatamente fare

qualcosa.

Mi spostai, in modo che la bambina non sbattesse contro il

muro ma contro di me; speravo che dopo un po di tempo con

linerzia si sarebbe fermata. Le lacere corde che la

brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non

integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il

temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di

mano ed era molto viscida a causa dellolio spesso e

impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.

Era scuro e quellimpresa mi causava fatica. Mi sentivo

osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i

brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in

ogni mio singolo respiro Il bambino era la mia coscienza e

non mi dava pace.

La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti

fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.

Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta

la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere

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