Scala E Cristallo - Alessandra Grosso 3 стр.


secondo coscienza.

E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo

morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la

prova; dovevo cambiare ed essere più forte.

La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che

fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non

quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me

stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un

desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva

a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei

guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.

Era la non accettazione del male, mai e senza nessun

compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo

presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, allumiliazione e a un

deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non

la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina

che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me

stessa, in bilico tra una decisione e laltra, confusa e

insicura.

Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe

arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,

il problema era: con cosa?

Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la

carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui

andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era

abbastanza malconcio dovevo però agire in fretta ed essere

precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.

Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia

figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di

provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della

corda poiché macilenta, ma poi si fermò.

Più provavo e meno riuscivo a tagliare.

Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di

me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

capii che loscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

verdi e terribili.

Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

uccidimi se ti va fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

mio sangue?».

Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

superato la prova e che stavo diventando più forte.

La forza lavevo temprata dentro di me forgiandola con la

pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

forse questa lorigine di ogni insicurezza e lanello comune a

tutta lumanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

non vedevo lora di misurarmi con esse, ma dallaltra sentivo

ancora il brivido gelido della paura verso lignoto. Ciò

nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre

sfide e altri territori.

I territori tormentati tipici di una tundra nordica

sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e

gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I

sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono

per lasciare spazio a un misterioso labirinto.

Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che

portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le

coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro

contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire

la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e

spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella

del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso

finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio

spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma

affaticandomi terribilmente.

La fatica era una sensazione che ben conoscevo, unamica e

una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non

mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto

seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte

terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani

e sangue.

Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:

dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare

quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri

perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo

morti.

Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo

distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio

tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.

Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di

sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le

crepe delle antiche rovine.

In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i

capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal

tempo.

Allimprovviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno

schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.

E cosa trovai mi lasciò senza parole.

Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.

Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo

credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e

confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa

faceva.

Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più

elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma

non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in

una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella

porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un

mondo allaltro, trovandosi confusa e sotto shock per la

novità.

Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due

eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.

Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella

notte, due candele accese che potevano aiutarsi lun laltra o

decidere di morire facendosi competizione.

La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che

La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che

aveva portato le donne a prendersi per i capelli per lamore

di un fedifrago o a perdere il lavoro per chi non era riuscita

a ingraziarsi il capo; la competizione era potente e micidiale

come fiale di veleno. Non potevo che temerla.

Valutavo attentamente gli atteggiamenti del mio clone,

della mia gemella, ma lei si dimostrò sempre molto affabile e

comprensiva. Mi seguiva sempre e aveva un atteggiamento

gentile e aperto nei miei confronti. Mentre ci avventuravamo

sempre più allinterno delle rovine, la nostra sintonia

cresceva.

Quel breve attimo di tranquillità, quel breve istante in

cui mi ero resa conto che non ero più sola, che potevo avere

un futuro, fu però presto sconvolto.


I MOSTRI DELLE CAVERNE

Era mostruoso, rumoroso e si nutriva di paura. Aveva il

corpo arrossato con le vene in vista per la bruciatura totale

della sua pelle. Era altissimo, circa quattro o cinque metri,

con robusti e grandissimi piedi che si muovevano facendo il

rumore di un masso che si frantuma per terra. Aveva la bocca

piena di denti per mordere e amava la carne umana.

Era vissuto lì per secoli, e nascosto aspettava giovani e

anziani al centro delle rovine, nel punto dove divenivano più

articolate; era vissuto nelle rovine fin da quando esse erano

un castello fantastico. Era il figlio non voluto di una

violenza ed era stato maledetto fin dal primo momento. Era il

frutto di uno stupro combinato con ben sette maledizioni

antiche. Aveva gli occhi gialli e luccicanti e poteva vedere

al buio, fiutare al buio.


Aveva fatto un patto con unaltra creatura demoniaca: un

mostro che odiava linnocenza.

I loro nomi erano Dannazione, il risultato delle

maledizioni, e Vendetta, colui che odiava linnocenza.

Vendetta era un killer silenzioso, raffinato, intelligente

e psicopatico che, vedendosi morire sul rogo, aveva fatto un

patto con Dannazione prima di essere bruciato vivo. Dannazione

era stato in grado di riprendere le ceneri di Vendetta e

riportarlo in questo mondo. Questultimo, dopo la bruciatura

sul rogo, era tornato con una sete di sangue sempre maggiore.

Vendetta indossava una maglia a brandelli su cui si poteva

leggere ancora il suo nome: era scritto in gesso bianco e

contornato con il rosso delle sue vittime.

I due killer sentirono subito la presenza di due umani e

si nascosero nelloscurità senza proferir parola, senza un

solo momento di esitazione. Conoscevano la nostra paura, erano

in grado di fiutarla, e percepivano nellaria ogni odore,

insicurezza. Sapevano già che cerano due anime buone vaganti

che avevano perso lorientamento.

Io e laltra me eravamo felici di essere insieme ma

proprio quella sensazione ci tradì, nel senso che inizialmente

avevamo perlustrato con timore le antiche rovine con i merli

rovinati e decadenti, ma poi, forse, ci eravamo fatte prendere

dallentusiasmo ed eravamo andate avanti, ma senza una mappa.

Molte volte ci eravamo ritrovate in vicoli ciechi, e alla

fine, dopo aver girato in tondo più volte, ci eravamo rese

conto di esserci perse.

Non sapendo più come tornare indietro dovevamo cercare di

uscire. Le rovine erano sempre meno danneggiate e più

compatte, come se fossimo entrate in unala relativamente più

nuova. I muri erano spessi, grigi e umidi, lacqua colava dal

soffitto creando delle pozze per terra.

Dentro quel dedalo vi erano grandi stanze semivuote,

grigie, umide e oscure. A volte la condensa si depositava sul

muro, altre si formava una nebbiolina distante da noi.

Incuriosite, cercavamo di capire cosa originasse la nebbia e

perché ci sentissimo terribilmente spiate.

In quel dedalo misterioso due sentimenti opposti

permeavano le nostre anime: timore e voglia di esplorare.

La volontà di esplorazione di nuovi territori è una spinta

che si avverte specialmente durante la pubertà, e in qualche

modo noi eravamo di nuovo delle adolescenti, nostro malgrado

alle prese con nuove esplorazioni.

Le nostre emozioni erano contrastanti ma sapevamo che,

sebbene il pericolo fosse imminente, eravamo esseri umani e


dovevamo mangiare. Erano giorni di magra ma avevamo ancora

delle riserve di carne secca perché quando laltra me stessa

era fuori dalle rovine, aveva cacciato e raccolto bacche.

Ci ritirammo in un angolino a masticare quella parca mensa

che ai miei occhi non poteva che essere prelibata. I nostri

denti funzionarono come lame che tagliano tutto e la nostra

pietanza scomparve in fretta. Ripulimmo la zona e continuammo

il nostro pellegrinaggio sperando di non fare brutti incontri.

Durante il viaggio avevamo ripreso a vedere immagini orrende

disegnate, scritte che ci spingevano ad andare via, a

scappare, ma dove potevamo scappare?

Dove potevamo trovare un rifugio? Come potevamo uscire da

quel dedalo?

Proseguimmo e fortunatamente trovammo armi e proiettili;

li prendemmo pensando che in futuro avrebbero potuto esserci

utili.

Rinvenimmo anche una sorta di accampamento distrutto.

Sembrava fosse stato attaccato e che i cadaveri fossero stati

trascinati via: si vedevano chiaramente le strisce di sangue

provocate dal trascinamento dei corpi, tuttavia non trovammo

nessuna delle vittime.

Raccogliemmo tutte le armi possibili e anche il piccolo

kit del pronto soccorso: non sapevamo cosa ci aspettava e per

questo ci volevamo preparare. Se avessero voluto uccidere

queste due donne sole, be, avrebbero dovuto faticare.

Eravamo armate e, sperando di aiutare quelli che erano

stati attaccati, avanzammo seguendo le strisce di sangue.

Tuttavia, presto iniziammo a temere il peggio per i poveri

malcapitati: dovevano aver perso molto sangue e la loro fine o

era già avvenuta oppure era molto vicina.

Seguimmo le strisce di sangue lungo la grande stanza, poi

passammo a un luogo più stretto e oscuro. Solo alcune fiaccole

illuminavano la strada, ma noi avevamo già deciso il nostro

percorso e ci facemmo forza luna con laltra.

Dallangusto corridoio si presentava un passaggio più

ampio con soffitti altissimi che conteneva al centro un altro

stanzone murato. Lì per lì non vedemmo lentrata, e fu questa

la nostra fortuna perché, sentendo il nostro odore, i mostri

uscirono per cercarci senza sapere esattamente dove fossimo, e

noi potemmo nasconderci subito lungo una roccia.

Erano orrendi e sporchi, macchiati di sangue.

Semplicemente agghiaccianti. Stavano litigando, lo capivo

perché si lanciavano strani raggi e palle infuocate che

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