Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе 4 стр.


Il Valino mi disse che in casa stavano le donne. Loro, ci devono pensare. Guardò su per la riva in mezzo alle foglioline delle albere. Disse che la campagna era come tutte le campagne, per farla fruttare ci sarebbero volute delle braccia che non cerano piú.

Allora parlammo della guerra e dei morti. Dei figli non disse niente. Borbottò. Quando parlai dei partigiani e dei tedeschi, alzò le spalle. Disse che allora stava allOrto, e aveva visto bruciare la casa del Ciora. Per un anno piú nessuno aveva fatto niente in campagna, e se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa i tedeschi a casa loro, i ragazzi sui beni sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente tanta gente forestiera non sera mai vista, neanche sulle fiere di quandera giovanotto.

Cinto stava a sentirci, a bocca aperta. Chi sa quanti, dissi, ce nerano ancora sepolti nei boschi.

Il Valino mi guardò con la faccia scura gli occhi torbidi, duri. Ce nè, disse, ce nè. Basta aver tempo di cercarli . Non mise disgusto nella voce, né pietà. Sembrava parlasse di andare a funghi, o a fascine. Si animò per un momento, poi disse: Non hanno fruttato da vivi. Non fruttano da morti.

Ecco, pensai, Nuto gli darebbe dellignorante, del tapino, gli chiederebbe se il mondo devessere sempre comera una volta. Nuto che aveva visto tanti paesi e sapeva le miserie di tutti qui intorno, Nuto non avrebbe mai chiesto se quella guerra era servita a qualcosa. Bisognava farla, era stato un destino cosí. Nuto lha molto questidea che una cosa che deve succedere interessa a tutti quanti, che il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo.

Il Valino non mi disse se salivo con lui a bere un bicchiere. Raccolse il fastello dei salici e chiese a Cinto se era andato a far lerba. Cinto, scostandosi, guardava a terra e non rispose. Allora il Valino fece un passo e con la mano libera menò un salice a frustata e Cinto saltò via e il Valino incespicò e si drizzò. Cinto, in fondo alla riva, adesso lo guardava.

Senza parlare, il vecchio sincamminò per la costa, coi salici in braccio. Non si voltò nemmeno quando fu in cima. Mi parve dessere un ragazzo venuto a giocare con Cinto, e che il vecchio avesse menato a lui non potendo prendersela con me. Io e Cinto ci guardammo ridendo, senza parlare.

Scendemmo la riva sotto la volta fredda degli alberi, ma bastava passare nelle pozze scoperte, al sole, per sentire lafa e il sudore. Io studiavo la parete di tufo, quella di fronte al nostro prato, che sosteneva la vigna del Morone. Si vedevano in cima, sopra i rovi, sporgere le prime viti chiare e un bellalbero di pesco con certe foglie già rosse come quello che cera ai miei tempi e qualche pesca cadeva allora nella riva e ci sembrava piú buona delle nostre. Queste piante di mele, di pesche, che destate hanno foglie rosse o gialle, mi mettono gola ancora adesso, perché la foglia sembra un frutto maturo e uno si fa sotto, felice. Per me tutte le piante dovrebbero essere a frutto; nella vigna è cosí.

Con Cinto parlavamo dei giocatori di pallone, poi di quelli di carte; e arrivammo alla strada, sotto il muretto della riva, in mezzo alle gaggie. Cinto aveva già visto un mazzo di carte in mano a uno che teneva banco in piazza, e mi disse che aveva a casa un due di picche e un re di cuori che qualcuno aveva perduto sullo stradone. Erano un po sporche ma buone e se avesse poi trovato anche le altre potevano servire. Io gli dissi che cera di quelli che giocavano per vivere e si giocavano le case e le terre. Ero stato in un paese, gli dissi, dove si giocava con la pila dei marenghi doro sul tavolo e la pistola nel gilè. E anche da noi una volta, quandero ragazzo, i padroni delle cascine, quando avevano venduta luva o il grano, attaccavano il cavallo e partivano sul fresco, andavano a Nizza, a Acqui, coi sacchetti di marenghi e giocavano tutta la notte, giocavano i marenghi, poi i boschi, poi i prati, poi la cascina, e il mattino dopo li trovavano morti sul letto dellosteria, sotto il quadro della Madonna e il ramulivo. Oppure partivano sul biroccino e piú nessuno ne sapeva niente. Qualcuno si giocava anche la moglie, e cosí i bambini restavano soli, li cacciavano di casa, e sono questi che si chiamano i bastardi.

 Il figlio del Maurino, disse Cinto, è un bastardo.

 Cè chi li raccoglie, gli dissi, è sempre la povera gente che raccoglie i bastardi. Si vede che il Maurino aveva bisogno di un ragazzo

 Se glielo dicono, sarrabbia, disse Cinto.

 Non devi dirglielo. Che colpa hai tu se tuo padre ti dà via? Basta che hai voglia di lavorare. Ho conosciuto dei bastardi che hanno comprato delle cascine.

Eravamo sbucati dalla riva e Cinto, trottandomi avanti, sera seduto sul muretto. Dietro le albere dallaltra parte della strada cera il Belbo. Era qui che uscivamo a giocare, dopo che la capra ci aveva portati in giro tutto il pomeriggio per le coste e le rive. I sassolini della strada erano ancora gli stessi, e i fusti freschi delle albere avevano odore dacqua corrente.

 Non vai a fare lerba per i conigli? dissi.

Cinto mi disse che ci andava. Allora mincamminai e fino alla svolta mi sentii quegli occhi addosso dal canneto.

VIII

Al casotto di Gaminella decisi di tornare soltanto con Nuto, perché il Valino mi lasciasse entrare in casa. Ma per Nuto questa strada è fuori mano. Io invece ci passavo sovente e capitava che Cinto mi aspettava sul sentiero o sbucava dalle canne. Si appoggiava al muretto con la gamba divaricata e mi lasciava discorrere.

Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, lalbergo dellAngelo si rifece tranquillo e quando, nel brusio delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. Non lavrei detto, da ragazzo. Lontano da casa si lavora per forza, si fa fortuna senza volerlo far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare cosí, arricchito, grande grosso, libero. Da ragazzo non lo sapevo ancora, eppure avevo sempre locchio alla strada, ai passanti, alle ville di Canelli, alle colline in fondo al cielo. È un destino cosí, dice Nuto che in confronto con me non si è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti di venir su come una pianta, dinvecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo.

Capivo che da ragazzo, anche quando facevo correre la capra, quando dinverno rompevo con rabbia le fascine mettendoci il piede sopra, o giocavo, chiudevo gli occhi per provare se riaprendoli la collina era scomparsa anche allora mi preparavo al mio destino, a vivere senza una casa, a sperare che di là dalle colline ci fosse un paese piú bello e piú ricco. Questa stanza dellAngelo allora non cero mai stato mi pareva di aver sempre saputo che un signore, un uomo con le tasche piene di marenghi, un padrone di cascine, quando partiva sul biroccio per vedere il mondo, una bella mattina si trovava in una stanza cosí, si lavava le mani nel catino bianco, scriveva una lettera sul vecchio tavolo lucido, una lettera che andava in città, andava lontano, e la leggevano dei cacciatori, dei sindaci, delle signore con lombrellino. Ed ecco che adesso succedeva. La mattina prendevo il caffè e scrivevo delle lettere a Genova, in America, maneggiavo dei soldi, mantenevo della gente. Forse fra un mese sarei di nuovo stato in mare, a correr dietro alle mie lettere.

Il caffè lo presi un giorno col Cavaliere, sotto, davanti alla piazza scottante. Il Cavaliere era il figlio del vecchio Cavaliere, che ai miei tempi era il padrone delle terre del Castello e di diversi mulini e aveva perfino gettato una diga nel Belbo quandio ancora dovevo nascere. Passava qualche volta sullo stradone nella carrozza a tiro doppio guidata dal servitore. Avevano una villetta in paese, con un giardino cintato e piante strane che nessuno sapeva il loro nome. Le persiane della villa erano sempre chiuse quandio dinverno correvo a scuola e mi fermavo davanti al cancello.

Adesso il Vecchio era morto, e il Cavaliere era un piccolo avvocato calvo che non faceva lavvocato: le terre, i cavalli, i mulini, se li era consumati da scapolo in città; la gran famiglia del Castello era scomparsa; gli era rimasta una piccola vigna, degli abiti frusti, e girava il paese con un bastone dal pomo dargento. Con me attaccò discorso civilmente; sapeva di dove venivo; mi chiese se ero stato anche in Francia, e beveva il caffè scostando il mignolo e piegandosi avanti.

Si soffermava tutti i giorni davanti allalbergo e discorreva con gli altri avventori. Sapeva molte cose, piú cose dei giovani, del dottore e di me, ma erano cose che non quadravano con la vita che faceva adesso bastava lasciarlo dire e si capiva che il Vecchio era morto a tempo. Mi venne in mente chera un po come quel giardino della villa, pieno di palme, di canne esotiche, di fiori con letichetta. A modo suo anche il Cavaliere era scappato dal paese, era andato per il mondo, ma non aveva avuto fortuna. I parenti lavevano abbandonato, la moglie (una contessa di Torino) era morta, il figlio, lunico figlio, il futuro Cavaliere, sera ammazzato per un pasticcio di donne e di gioco prima ancora di andar militare. Eppure questo vecchio, questo tapino che dormiva in un tinello coi contadini della sua ultima vigna, era sempre cortese, sempre in ordine, sempre signore, e incontrandomi ogni volta si toglieva il cappello.

Dalla piazza si vedeva la collinetta dove aveva i suoi beni, dietro il tetto del municipio, una vigna mal tenuta, piena derba, e sopra, contro il cielo, un ciuffo di pini e di canne. Nel pomeriggio il gruppo di sfaccendati che prendevano il caffè, lo burlavano sovente su quei suoi mezzadri, che erano i padroni di mezzo San Grato e gli stavano in casa soltanto per la comodità di esser vicino al paese ma neanche si ricordavano di zappargli la vigna. Ma lui, convinto, rispondeva che sapevano loro, i mezzadri, di che cosa ha bisogno una vigna e che del resto cera stato un tempo che i signori, i padroni di tenuta, lasciavano in gerbido una parte dei beni per andarci a caccia, o anche per capriccio.

Tutti ridevano allidea che il Cavaliere andasse a caccia, e qualcuno gli disse che avrebbe fatto meglio a piantarci dei ceci.

 Ho piantato degli alberi, disse lui con uno scatto e un calore improvvisi, e gli tremò la voce. Cosí civile comera, non sapeva difendersi, e allora entrai anchio a dir qualcosa, per cambiare discorso. Il discorso cambiò, ma si vede che il Vecchio non era morto del tutto, perché quel tapino mi aveva capito. Quando mi alzai mi pregò di una parola e ci allontanammo per la piazza sotto gli occhi degli altri. Mi raccontò chera vecchio e troppo solo, casa sua non era un luogo da riceverci nessuno, tuttaltro, ma se salivo a fargli una visita, con mio comodo, sarebbe stato ben lieto. Sapeva chero stato da altri a veder terre; dunque, se avevo un momento Di nuovo mi sbagliai: sta a vedere, mi dissi, che anche questo vuol vendere. Gli risposi che non ero in paese per fare affari. No no, disse subito, non parlo di questo. Una semplice visita Voglio mostrarle, se permette, quegli alberi

Ci andai subito, per levargli il disturbo di prepararmi laccoglienza, e per la stradetta sopra i tetti scuri, sui cortili delle case, mi raccontò che per molte ragioni non poteva vendere la vigna perchera lultima terra che portasse il suo nome, perché altrimenti sarebbe finito in casa daltri, perché ai mezzadri conveniva cosí, perché tanto era solo

 Lei, mi disse, non sa che cosè vivere senza un pezzo di terra in questi paesi. Lei, dove ha i suoi morti?

Gli dissi che non lo sapevo. Tacque un momento, si interessò, si stupí, scosse il capo.

 Mi rendo conto, disse piano. È la vita.

Lui purtroppo aveva un morto recente al cimitero del paese. Da dodici anni e gli sembrava ieri. Non un morto comè umano averne, un morto che ci si rassegna, che ci si pensa con fiducia. Ho fatto molti stupidi errori, mi disse, se ne fanno nella vita. I veri acciacchi delletà sono i rimorsi. Ma una cosa non mi perdono. Quel ragazzo

Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò: Lei sa comè morto?

Feci cenno di sí. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. Ho piantato questi alberi, disse. Dietro le canne si vedeva un pino. Ho voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui, libera e selvatica come il parco dovè stato ragazzo

Era unidea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e lerba sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella. Ma qui cera di bello chera la punta della collina e tutto finiva nel vuoto.

 In tutte le campagne, gli dissi, ci vorrebbe un pezzo di terra cosí, lasciato incolto Ma la vigna lavorarla, dissi.

Ai nostri piedi si vedevano quei quattro filari disgraziati. Il Cavaliere fece una smorfia spiritosa e scosse il capo. Sono vecchio, disse. Villani.

IX

Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi chera tardi, chero atteso in paese, che a quellora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto i pini.

Ripensai a questa storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci avevo giocato anchio con Angiolina e Giulia, e fatto lerba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline piú lontane oltre Canelli, cerano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie sempre gli stessi che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non cero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassú tra incolto e bruciato dal sole.

 Li hanno fatti questanno i falò? chiesi a Cinto. Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa.

 Poca roba, disse lui. Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.

Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.

 Chi sa perché mai, dissi, si fanno questi fuochi.

Cinto stava a sentire. Ai miei tempi, dissi, i vecchi dicevano che fa piovere Tuo padre lha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia questanno Dappertutto accendono il falò.

 Si vede che fa bene alle campagne, disse Cinto. Le ingrassa.

Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.

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