Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - Чезаре Павезе 5 стр.


Cinto stava a sentire. Ai miei tempi, dissi, i vecchi dicevano che fa piovere Tuo padre lha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia questanno Dappertutto accendono il falò.

 Si vede che fa bene alle campagne, disse Cinto. Le ingrassa.

Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.

 Ma allora comè che lo si accende sempre fuori dai coltivi? dissi. Lindomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi

 Non si può mica bruciare la vigna, disse lui ridendo.

 Sí, ma invece il letame lo metti nel buono

Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe detto suo padre: Allora andiamo un po a vedere e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cosè il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia.

 Questa sirena dei bastimenti, lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, è come la sirena che suonavano a Canelli quando cera la guerra?

 Si sentiva?

 Altroché. Dicono chera piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. Lho sentita anchio e ho visto gli aeroplani

 Ma se ti portavano ancora in braccio

 Giuro che mi ricordo.

Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. Fai male, mi disse. Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato

 Che almeno sappia quel che perde.

 Cosa vuoi che se ne faccia. Quandabbia visto che nel mondo cè chi sta meglio e chi sta peggio, che cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa cè sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome dottone

 Piú lo svegli, dissi, piú capisce le cose.

 Ma è inutile mandarlo in America. LAmerica è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.

Io dissi che Cinto avrebbe dovuto imparare un mestiere e per impararlo doveva uscire dalle grinfie del padre. Sarebbe meglio fosse nato bastardo, dissi. Doversene andare e cavarsela. Finché non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre.

 Ce nè delle cose da cambiare, disse Nuto.

Allora gli dissi che Cinto era sveglio e che per lui ci sarebbe voluta una cascina come la Mora era stata per noi. La Mora era come il mondo, dissi. Era unAmerica, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava Adesso Cinto è un bambino, ma poi cresce. Ci saranno le ragazze Vuoi mettere quel che vuol dire conoscere delle donne sveglie? Delle ragazze come Irene e Silvia?

Nuto non disse niente. Mero già accorto che della Mora non parlava volentieri. Con tanto che mi aveva raccontato degli anni di musicante, il discorso piú vecchio, di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. Fanno bene sicuro, saltò. Svegliano la terra.

 Ma, Nuto, dissi, non ci crede neanche Cinto.

Eppure, disse lui, non sapeva cosera, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sullorlo si accendeva il falò davano un raccolto piú succoso, piú vivace.

 Questa è nuova, dissi. Allora credi anche nella luna?

 La luna, disse Nuto, bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.

Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le piú grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli alloscuro, allora sarebbe lui lignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nientaltro ma la terra la conosceva.

Discutemmo come cani arrabbiati un bel po, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in unocchiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dellestrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.

Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non cè niente di piú bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quellodore della terra cotta dal sole dagosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello ogni vigna la sua macchia e fa piacere posarci locchio e saperci i nidi. Le donne, pensai, hanno addosso qualcosa di simile.

Io sono scemo, dicevo, da ventanni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione chera stata camminare la prima volta per le strade di Genova ci camminavo nel mezzo e cercavo un po derba. Cera il porto, questo sí, cerano le facce delle ragazze, cerano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, doverano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, mero accorto, che non sapevo piú di saperla.

X

Se mi mettevo a pensare a queste cose non la finivo piú, perché mi tornavano in mente tanti fatti, tante voglie, tanti smacchi passati, e le volte che avevo creduto di essermi fatta una sponda, di avere degli amici e una casa, di potere addirittura metter su nome e piantare un giardino. Lavevo creduto, e mi ero anche detto «Se riesco a fare questi quattro soldi, mi sposo una donna e la spedisco col figlio in paese. Voglio che crescano laggiú come me». Invece il figlio non lavevo, la moglie non parliamone che cosè questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnío di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.

Il fatto è che Cinto come me da ragazzo queste cose non le sapeva, e nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se nera andato. Se volevo capirmi con lui, capirmi con chiunque in paese, dovevo parlargli del mondo di fuori, dir la mia. O meglio ancora non parlarne: fare come se niente fosse e portarmi lAmerica, Genova, i soldi, scritti in faccia e chiusi in tasca. Queste cose piacevano salvo a Nuto, si capisce, che cercava lui di capir me.

Vedevo gente dentro lAngelo, sul mercato, nei cortili. Qualcuno veniva a cercarmi, mi chiamavano di nuovo «quello del Mora». Volevano sapere che affari facevo, se compravo lAngelo, se compravo la corriera. In piazza mi presentarono al parroco, che parlò di una cappelletta in rovina; al segretario comunale, che mi prese in disparte e mi disse che in municipio doveva esserci ancora la mia pratica, se volevamo far ricerche. Gli risposi chero già stato in Alessandria, allospedale. Il meno invadente era sempre il Cavaliere, che sapeva tutto sullantica ubicazione del paese e sulle malefatte del passato podestà.

Sullo stradone e nelle cascine ci stavo meglio, ma neanche qui non mi credevano. Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto? Vedere dei carri, vedere dei fienili, vedere una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettoni blu, una zucca da bere, un manico di zappa? Anche le facce mi piacevano cosí, come le avevo sempre viste: vecchie dalle rughe, buoi guardinghi, ragazze a fiorami, tetti a colombaia. Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Piú le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo piú mi facevano piacere. E cosí le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sullaia.

Qui Nuto diceva che avevo torto, che dovevo ribellarmi che su quelle colline si facesse ancora una vita bestiale, inumana, che la guerra non fosse servita a niente, che tutto fosse come prima, salvo i morti.

Parlammo anche del Valino e della cognata. Che il Valino adesso dormisse con la cognata era il meno che cosa poteva fare? ma in quella casa succedevano cose nere: Nuto mi disse che dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo.

Avevo saputo anche la fine di Padrino e dei suoi. Me laveva raccontata la nuora del Cola, quel tale che voleva vendermi la casa. A Cossano, doverano andati a finire coi quattro soldi del casotto, Padrino era morto vecchio vecchissimo pochi anni fa su una strada, dove i mariti delle figlie lavevano buttato. La minore sera sposata ragazza; laltra, Angiolina, un anno dopo con due fratelli che stavano alla Madonna della Rovere, in una cascina dietro ai boschi. Lassú erano vissute col vecchio e coi figli; facevano luva e la polenta, nientaltro; il pane scendevano a cuocerlo una volta al mese, tanterano fuorimano. I due uomini lavoravano forte, sfiancavano i buoi e le donne; la piú giovane era morta in un campo ammazzata dal fulmine, laltra, Angiolina, aveva fatto sette figli e poi sera coricata con un tumore nelle costole, aveva penato e gridato tre mesi il dottore saliva lassú una volta allanno , era morta senza nemmeno vedere il prete. Finite le figlie, il vecchio non aveva piú nessuno in casa che gli desse da mangiare e si era messo a girare le campagne e le fiere; il Cola laveva ancora intravisto, con un barbone bianco e pieno di paglie, lanno prima della guerra. Era morto finalmente anche lui, sullaia di una cascina, dovera entrato a mendicare.

Cosí era inutile che andassi a Cossano a cercare le mie sorellastre, a vedere se si ricordavano ancora di me. Mi restò in mente lAngiolina distesa a denti aperti, come sua madre quellinverno chera morta.

Andai invece un mattino a Canelli, lungo la ferrata, per la strada che ai tempi della Mora avevo fatto tante volte. Passai sotto il Salto, passai sotto il Nido, vidi la Mora coi tigli che toccavano il tetto, il terrazzo delle ragazze, la vetrata, e lala bassa dei portici dove stavamo noialtri. Sentii voci che non conoscevo, tirai via.

A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non cera, ma sentii subito lodore quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove cera piú movimento era in piazza un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi correvano sempre.

Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo laltranno cera venuto col carro un ragazzo a vender luva insieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.

Maccorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perchera lultimo paese dove le stagioni non gli anni savvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era un lavoro che facevo anchio di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove. Lavevo percorsa, cominciando da Gaminella. Se mi fossi ritrovato ragazzo, lavrei percorsa unaltra volta. Ebbene, e con questo? Nuto, che non se nera mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quanderi ragazzo. Canelli è tutto il mondo Canelli e la valle del Belbo e sulle colline il tempo non passa.

Tornai verso sera sullo stradone lungo la ferrata. Passai il viale, passai sotto il Nido, passai la Mora. Alla casa del Salto trovai Nuto in grembiale, che piallava e fischiettava, scuro in faccia.

 Cosa cè?

Cera che uno, scassando un incolto, aveva trovato altri due morti sui pianori di Gaminella, due spie repubblichine, testa schiacciata e senza scarpe. Erano corsi su il dottore e il pretore col sindaco per riconoscerli, ma dopo tre anni che cosa si poteva riconoscere? Dovevan essere repubblichini perché i partigiani morivano a valle, fucilati sulle piazze e impiccati ai balconi, o li mandavano in Germania.

 Che cè da pigliarsela? dissi. Si sa.

Ma Nuto rimuginava, fischiettando scuro.

XI

Diversi anni prima qui da noi cera già la guerra avevo passato una notte che ogni volta che cammino lungo la ferrata mi torna in mente. Fiutavo già quello che poi successe la guerra, linternamento, il sequestro e cercavo di vendere la baracca e trasferirmi nel Messico. Era il confine piú vicino e avevo visto a Fresno abbastanza messicani miserabili per sapere dove andavo. Poi lidea mi passò perché delle mie cassette di liquori i messicani non avrebbero saputo che farsene, e venne la guerra. Mi lasciai sorprendere ero stufo di prevedere e di correre, e ricominciare lindomani. Mi toccò poi ricominciare a Genova laltranno.

Fatto sta che lo sapevo che non sarebbe durata, e la voglia di fare, di lavorare, di espormi, mi moriva tra le mani. Quella vita e quella gente a cui ero avvezzo da dieci anni, tornava a farmi paura e irritarmi. Andavo in giro in camioncino sulle strade statali, arrivai fino al deserto, fino a Yuma, fino ai boschi di piante grasse. Maveva preso la smania di vedere qualcosaltro che non fossero la valle di San Joaquin o le solite facce. Sapevo già che finita la guerra avrei passato il mare per forza, e la vita che facevo era brutta e provvisoria.

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