«Bravissimo, dacci dentro con quelle gambe. Sei forte, ci sei quasi! Non mollare proprio adesso!» lo incita il Vigile del Fuoco da sopra la scala, vedendo che è quasi riuscito ad arrampicarsi sul terrazzo. «Tra un minuto sarò lì, tieni duro per amor di Dio» insiste, ma Franco non lo sta ascoltando. E’ riuscito a puntellare per bene i piedi e adesso sta forzando per spingersi in alto. Quando si sente sicuro lascia libera una mano dalla presa della ringhiera per afferrare il corrimano e issarsi in piedi, ma mentre allunga il braccio verso la stecca orizzontale, la sensazione di due occhi puntati nella schiena gli fanno perdere la concentrazione. Guarda verso il basso e individua nuovamente il medico, lo sta fissando a bocca aperta mentre si passa una mano tra i capelli, apparentemente preoccupato. Quell’uomo vorrebbe correre su da Franco per soccorrerlo Franco, ma un agente pensa che potrebbe essere pericoloso e l’o ha trattenuto dabbasso. Franco nota che quell’uomo stringe in mano una busta di carta gialla, allora gli lancia uno sguardo carico di odio. Tienila per te quella maledetta busta! Non la voglio, non lo hai capito? sta per gridargli mentre si slancia per scavalcare la ringhiera, ma la mano sudata scivola via lungo la plastica di rivestimento del corrimano. Franco ricade ma riesce a tenere la presa dell’altra mano, rimane appeso per un solo braccio penzolando nel vuoto come una foglia secca al vento. Gli spettatori mormorano qualcosa, sgomenti, intanto Franco ha ricominciato a ricordare.
Accidenti, ancora una volta sveglio prima dell’alba aveva pensato turbato Franco quella stessa mattina schiudendo gli occhi. Aveva perso la sua personale battaglia col tabacco appena al quinto giorno di solitudine e aveva ripreso a fumare più forte di prima, con gli occhi ancora chiusi cercò a tentoni il pacchetto e con gesti automatici e rassegnati si accese la prima sigaretta del nuovo giorno, che gli rinnovò il bruciore allo stomaco. Mentre aspirava pensieroso scoprì di non ricordare quante albe consecutive aveva ormai visto e quanti giorni erano che non dormiva nel suo letto. Si sentiva completamente svuotato, privo di energie. Dopo che era stato rispedito due volte indietro a mani vuote a causa di problemi tecnici, quella mattina gli avrebbero finalmente consegnato i risultati degli esami clinici. Non avrebbe saputo dire con precisione quando era successo, ma il continuo andirivieni di dolorose fitte appena dietro l’orecchio destro, che si ripeteva ormai da giorni, lo aveva fatto precipitare nella paranoia. Negli ultimi giorni le fitte si erano fatte sempre più frequenti e dolorose, ad accompagnare i giramenti di capo sempre più lunghi e preoccupanti. E questo aveva generato in lui un brutto presentimento che pazientemente, giorno dopo giorno, aveva minato il suo equilibrio fino a fargli compiere gesti assurdi. Si trattava di quella stessa paura dalla quale era scaturita la sua di volontà di finire ad ogni costo la storia che stava scrivendo, per lasciare qualcosa di sé in quella che si era convinto che fosse una specie di assurda corsa contro il tempo. Ed ogni suo singolo gesto, ogni suo singolo pensiero dettato dalla paura aveva infine generato nuovo terrore, come in una spirale composta di una quantità infinita di anelli. Il terrore di una punizione per ciò che aveva fatto, di una condanna alla sofferenza eterna, di una condanna a morte quasi certa. Andando in bagno passò accanto al corpo senza vita del gattino e fece una faccia schifata, ma subito dopo si fermò per osservarlo meglio, per guardare l’espressione di quegli occhi senza vita. Voleva controllare una volta di più se aveva descritto bene la sofferenza, lo stupore che deriva dal non aver capito il perché della propria morte. Si abbassò un po’, ma la puzza gli penetrò violentemente nelle narici e un violento conato di vomito lo scosse in profondità. Si rialzò e sferrò un calcio stizzito al corpo senza vita, alzando un nugolo di mosche. Andò in bagno e si infilò nella doccia, mentre l’acqua bollente continuava a picchiettargli la schiena si immedesimò in un inquisito ammanettato al banco degli imputati, in attesa della sentenza. Con la fantasia visse chissà quanti processi, così come aveva vissuto a fondo, fino a confondere completamente l’immaginazione con la realtà, le pagine che egli stesso aveva scritto.
L’imputato è colpevole. Deve morire, continuava a ripetersi mentre si asciugava. E mentre si vestiva, e poi camminando per strada verso l’ospedale. E nella sala d’attesa dell’ambulatorio, finché il dottore gli si fece incontro e lo salutò cordialmente tenendo una busta gialla in mano. Alla vista di quella busta Franco aveva improvvisamente sentito il cuore battergli con violenza nel petto, impazzito, come se avesse voluto scappargli via. Il dottore esitò, colpito dal suo aspetto, lo conosceva fin dai tempi della scuola e non l’aveva mai visto in quelle condizioni.
«Ciao, Franco» lo salutò tendendogli la mano, ma Franco non rispose al saluto. «Franco… ti senti bene? Non hai una bella cera» lo incalzò preoccupato il medico, l’altro lo fissava tremando con gli occhi e la bocca spalancati. «Franco… » insisté il suo amico, ma di nuovo lui non rispose. Continuò a guardarlo con espressione folle, gli occhi iniettati di sangue, aspettando la sentenza col fiato sospeso.
«Mi spiace che tu abbia dovuto aspettare tanto, ma i macchinari hanno avuto dei problemi e la maggior parte del personale era in ferie… e poi avevamo un dubbio, che ora finalmente è risolto. I risultati delle tue analisi dicono che… »
«Noooo» gridò Franco, che nella propria mente aveva vissuto mille volte quella scena, si girò su sé stesso e fuggì per sottrarsi alla sentenza. Il dottore lo guardò incredulo correre via, poi cominciò a inseguirlo per fermarlo. Ma pian piano la distanza si era fatta proibitiva, quell’uomo allucinato era inarrestabile. E’ terribile, è proprio come l’ho raccontato. È terrificante… povero Carpetti… povero me… pensava Franco continuando a correre come se alle spalle avesse avuto il Diavolo in persona.
CAPITOLO IV (VERSO CASA)
Non è possibile perché proprio io? C’è un errore… ci deve essere per forza un errore continuava a ripetersi Carpetti, seduto sulla poltroncina dell’autobus che lo stava riportando a casa.
“Potrà continuare a lavorare finché se la sentirà. Inoltre la comunità scientifica sta lavorando sodo e sta facendo passi da gigante, è molto probabile che in un tempo così lungo riesca a trovare la maniera per allungarle la vita, se non addirittura una cura definitiva… quindi lei deve cercare in tutti i modi di non lasciarsi andare, di non mollare. In ogni caso posso garantirle che non soffrirà. Non è molto, ma è tutto ciò che posso dirle… mi spiace” gli aveva detto il dottore. D’un tratto Carpetti si sentì come se gli mancasse l’aria, si sbottonò la camicia a quadri e si curvò in avanti, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la busta gialla arrotolata stretta in una mano. Davanti a lui due donne stavano discutendo l’andamento dei prezzi dei pomodori, un’altra, anziana, raccontava a un conoscente le peripezie del figlio emigrato all’estero. Sicuramente c’è uno sbaglio, quello di cui parlano questi fogli non sono di certo io si disse ancora una volta Carpetti, sentiva il bisogno di correre a casa, nel suo rifugio. Là avrebbe potuto pensare un rimedio, trovare una soluzione, avrebbe riletto con calma quei fogli e avrebbe scovato l’errore. Ma la strada non finiva mai, le pensiline delle fermate, coi vetri erano rotti e i poster pubblicitari strappati, sembravano essersi moltiplicate all’infinito. Finalmente l’autobus si fermò giusto davanti al condominio dove abitava, lui scese al volo e salì le scale di corsa, col cuore in gola. Chiuse la porta a chiave e vi si appoggiò contro con le spalle, come per evitare che qualcosa del Mondo esterno potesse penetrare in casa sua a contaminarla. Gettò a terra la giacca si sfilò via la camicia, facendo saltare l’ultimo bottone. Con mani tremanti strappò un lembo della busta, dopo aver riletto chissà quante volte quel foglio si buttò in ginocchio balbettando qualcosa tra sé.
Sudore. Abiti appiccicati addosso a impacciare i movimenti, a renderli perfettamente uguali tra loro come quelli di un soldato che marcia. Il passo risuonava ritmico e veloce, tra i corridoi dai soffitti alti e dalle pareti tinteggiate di bianco plastificato. Franco correva fissando un punto che vedeva soltanto lui, ignorando gli sguardi straniti della persone che al suo passaggio si affrettavano ad appiattirsi contro il muro per evitare di essere travolte. Il cuore sembrava volergli scoppiare nel petto, le vene bluastre sulle tempie si dilatavano sempre di più tendendo ulteriormente la pelle del viso pallido e magro sul quale risaltavano occhi stanchi da pazzo, contornati da un alone violaceo. Sentiva le gambe pesanti come piombo, ogni nuovo passo era una sofferenza indicibile ma lui non poteva fermarsi. Correva per fuggire dall’uomo che lo inseguiva gridando il suo nome e si reggeva gli occhiali per non perderli, quell’uomo con la busta gialla della sua condanna che sorgeva dalla tasca del camice. A ogni passo le spalle di Franco si incurvavano un po’ di più in avanti, i suoi polmoni erano sempre più assetati d’aria, ogni suo movimento sembrava essere l’ultimo prima di una rovinosa caduta. Ma là in fondo c’era la strada, dalla grande vetrata entrava un cubo di sole e lui sentiva già il rombo delle auto ferme al semaforo e la sirena di un’autoambulanza in arrivo. Si guardò le mani che gli apparivano e scomparivano ai fianchi e le immaginò intrise di sangue, gli sembrava che stessero lasciando una scia rossa sul pavimento. E quell’uomo dietro di lui non voleva mollare, non riusciva a raggiungerlo ma non si dava per vinto.
E’ la punizione, pensava Franco mentre ormai era in strada, ma non voglio…..no, non voglio! gridò senza accorgersi delle persone che lo fissavano inorridite. Correva in avanti, senza una méta, ma la sua mente andava all’indietro…
E’ davvero ora che vada a dormire, sono completamente distrutto. No, maledizione, si disse sbattendo un pugno sul tavolo, devo andare a prendere le sigarette. Sono giorni che non fumo, se continuo così impazzisco. Adesso è sera inoltrata e non fa più troppo caldo, non vedo cosa mai potrebbe accadermi di male se esco di casa per dieci minuti. Si infilò frettolosamente una maglietta e passando davanti si soffermò a guardare incredulo la propria immagine riflessa, per un lungo attimo aveva stentato a riconoscersi.
Accidenti, come mi sono sciupato. La barba lunga, questi capelli… e sono anche dimagrito un sacco! E questo sguardo…. non ho mai avuto questa espressione… chi se ne frega, tra pochi giorni andrò in ferie e mi rimetterò in sesto cercò di rassicurarsi, si riavviò con le mani i capelli spettinati e uscì. Devo pazientare ancora solo pochi giorni, poi la convalescenza sarà finita e sarò di nuovo un uomo libero, si stava dicendo poco dopo, mentre tornava a casa con le tasche piene di pacchetti di sigarette. Era ansioso di ritirare il risultato di quei dannati esami che gli avevano azzerato la vita, per potersi finalmente ricongiungere ai suoi familiari. A cavallo di questi pensieri, proprio mentre infilava il vialetto del giardino condominiale giudicando che quella passeggiata gli aveva fatto addirittura bene, si ritrovò disteso a terra perché per un attimo la vista lo aveva abbandonato. Maledizione, ma che accidenti mi sta succedendo? si chiese impensierito, intanto una sensazione simile a quella che aveva descritto poco prima nel suo racconto si stava rapidamente impadronendo di lui. E’ impossibile che io sia malato sul serio, ho sempre fatto vita sana e regolare… e poi non ho mai fatto male a nessuno: non lo meriterei… accidenti, ora parlo proprio come Carpetti! …che stupido, mi sono immedesimato a tal punto che mi sto condizionando da solo! Devo smetterle di pensare a queste sciocchezze! Ma invece, malgrado i suoi ripetuti tentativi di pensare ad altro, quell’angoscia profonda come il mare non voleva proprio saperne di abbandonarlo. Sapendo che teso com’era non sarebbe riuscito a dormire, quando rientrò sedette alla scrivania. Vampate di calore gli salivano dal petto verso le tempie, con mani tremanti aprì il pacchetto e sfilò una sigaretta. La mise in bocca e l’accese, ma non la traspirò perché era ancora spaventato dall’episodio che gi era accaduto poco prima. Trovò che l’odore era buonissimo, gli aveva ricordato la prima sigaretta che aveva fumato tanti anni prima nascosto in giardino, in una bella mattina di Sole. Tirò una boccata e cominciò a tossire. Si sentiva la bocca amara, il sapore sgradevolissimo gli aveva contaminato ogni angolo della lingua e adesso lottava per tenere a freno l’impulso di vomitare. Ma sapeva perfettamente cosa doveva fare per tornare a provare il piacere illusorio del fumo: tirare di nuovo, e poi ancora, e ancora. Aspirò una nuova boccata e la sua tosse si placò, tutto sembrò cominciare a tornare normale.
Potrei chiamare Silvia, magari sentire la sua voce mi calmerebbe… no, è meglio di no. Se la chiamassi a quest’ora, si spaventerebbe. Devo soltanto riuscire a tranquillizzarmi e andare a dormire. Sono solo un po’ stanco, e soprattutto nervoso. Intanto, dopo appena altre due boccate di sigaretta la testa aveva preso a girargli di nuovo e la sua fronte si era imperlata di sudore freddo. Alcune gocce caddero sul foglio a sbiadire le parole scritte da poco, allora si alzò e cominciò a camminare lentamente avanti e indietro per la casa. Sto male, devo sentire Silvia si disse afferrando la cornetta, ma dopo aver composto il numero per metà riattaccò. Andò in camera e si stese sul letto, ma non riusciva a prendere sonno. Una brezza leggera scuoteva le tapparelle producendo un suono simile al ticchettio dei tasti di una macchina per scrivere, il profumo dell’erba umida penetrava fino in casa. Gli tornò a mente la corsa e si rese conto di quanto gli mancasse, il pensiero che presto avrebbe potuto ricominciare ad allenarsi non riuscì a rasserenarlo. E’ inutile pensò dopo aver sbuffato una volta di più. Si portò davanti al frigorifero e prese una lattina di birra, la stappò e si accese un’altra sigaretta, infine tornò ancora una volta a sedersi davanti alla scrivania.
CAPITOLO V (AUTOCOMMISERAZIONE)
Ma quale che disgrazia può essere, questa, per uno come me? Quale tragedia può essere per uno che ha trascorso la vita da solo, circondato da manichini che vedono, si muovono, e sorridono sempre allo stesso modo…. e oggi uno di questi manichini viene a dirmi che ho i giorni contati! Proprio io, che pensavo che dover lottare ogni giorno con le mie paure e con la solitudine fosse già una punizione abbastanza severa, dato che non ho mai fatto niente di male si disse Carpetti, andò in corridoio e accarezzò la propria immagine riflessa nello specchio. Rimase in silenzio per alcuni istanti, poi con voce cantilenante cominciò a parlarle.
«Guardati: a cosa ti è servito arrivare fino a oggi? A cosa ti è servito arrivare ogni giorno al Domani, sperando che quel domani fosse migliore, se oggi scopri di non avere più domani? A cosa ti sono serviti i sacrifici e le speranze, se questa è la ricompensa? Tra poche settimane di te non resterà che un vago ricordo in pochissime persone, finché si spegnerà con loro. Persino le tue scarpe, vecchie e consumate come sono, ti sopravvivranno senza neanche sapere perché.» Continuando a farfugliare era entrato nel suo piccolo studio, dove in bella mostra su un ripiano della libreria c’era la sua collezione di animaletti di ceramica dipinti a mano. Si fermò proprio lì davanti, col tono della voce che cresceva di parola in parola.