«Anche voi mi sopravvivrete. Voi, che senza di me non sareste mai esistiti, se non vi avessi creato io non lo avrebbe fatti nessuno! Voi, che senza il valore che vi do io non valete niente… non è giusto… no, non è giusto!» gridò spazzandoli rabbiosamente via dal ripiano con l’avambraccio. Le statuette caddero a terra e Carpetti cominciò a calpestarle e a prenderle furiosamente a calci, urlando e piangendo, finché così come aveva cominciato si bloccò di colpo. Andò a sedersi col vago intento di riflettere, e dell’uomo meticoloso e ordinato che era uscito di casa appena tre ore prima non era rimasto niente. I riccioli neri gli si erano gonfiati a dismisura in tutte le direzioni, la fronte convessa si era riempita di rughe rossastre, le punte interne delle sopracciglia erano protese verso l’alto come in una supplica. Gli occhi erano gonfi come se avesse pianto per giorni, un tremito prepotente lo scuoteva da capo a piedi. Nel volgere di poche ore aveva perso tutto quanto, tutte le inutili certezze che lo avevano portato fino a lì: cercare di vestirsi in modo inappuntabile, controllare sempre che fosse tutto in ordine, arrivare sempre in anticipo di cinque minuti. Guardare il primo telegiornale della mattina per essere informato su tutto, per avere la sensazione di essere padrone degli eventi. Tutte le cose che lo avevano aiutato a non pensare, che gli avevano sempre dato sicurezza, non avevano ormai più alcun senso. Niente aveva più senso, e d’improvviso lo colse il dubbio che niente lo avesse mai avuto.
«Le medicine» si disse a voce alta scattando in piedi, si vestì di nuovo e uscì di corsa. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno, presto gli uffici sarebbero chiusi.
Uff, non pensavo che scrivere fosse così impegnativo! E poi, temo che questa storia sia troppo patetica, troppo noiosa… a chi potrebbe mai interessare una storia come questa? E poi ora come vado avanti? Avevo tante idee, ma ogni volta svaniscono di punto in bianco… È strano, è come se io decidessi che il racconto deve procedere in una certa direzione e che invece poi lui facesse di testa sua… Cosa farà adesso Carpetti? E quelle medicine? Gliele daranno, o magari gliele negheranno perché supera il reddito? Non ci sarebbe certo da meravigliarsi, di questi tempi! E la sua guida spirituale come gliela faccio incontrare? E soprattutto, chi diavolo è la sua guida spirituale? Mah, proviamo ad affrontare un problema alla volta! Queste erano le riflessioni di Franco mentre si gustava un tè freddo, disteso sul lettino in terrazza. Intanto si godeva gli odori che salivano con la frescura della sera, dopo che l’aria era stata irrespirabile per tutto il giorno. D’improvviso gli tornò a mente un articolo di giornale che aveva letto qualche tempo prima. Parlava di un vecchio rimasto senza denti durante la guerra, un giorno lo Stato gli aveva intimato di pagare la dentiera che gli aveva dato oppure di restituirla.
CAPITOLO VI (NIENTE MEDICINE)
«Buongiorno. Ho un problema» esordì Carpetti, la donna aldilà del vetro gli rispose con uno sguardo infastidito. Era pesantemente truccata e ingioiellata, come se dovesse andare a una festa, aveva già indossato il cappottino col collo di pelliccia e non si preoccupò minimamente di nascondere il proprio disappunto per l’ora tarda.
«Dica pure» replicò senza alcuna partecipazione.
«Mi è stata appena diagnosticata una malattia per la quale devo prendere un farmaco molto costoso… sono venuto a chiedere l’esenzione.»
«Allora dovrà tornare, intanto le do questi due fogli. Sono la domanda da compilare e la lista dei documenti da allegare.»
«Non c’è bisogno che io torni, ho tutto qui con me. Se mi concede tre minuti compilo la domanda mentre lei controlla i documenti, così potrà avviare subito la pratica» replicò lui.
La donna lanciò un’altra occhiata all’orologio a parete e sospirò, poi tornò a guardare di sbieco Carpetti.
«Vediamo… la dichiarazione dei redditi l’ha portata?» gli chiese, e lui annuì.
«Lo stato di famiglia?»
«Si.»
«Il codice fiscale?»
«Se invece di farmi tutte queste domande mi lascia compilare il mio foglio e guarda nella cartella che le ho dato, vedrà che non manca niente! Ho portato tutti i documenti necessari» fece lui bruscamente.
La signora buttò gli occhi al cielo e sbuffò, indecisa se ribattere o meno, poi pensò che il venerdì era vicino e scorse distrattamente i fogli.
«A prima vista non mi pare che lei rientri nella fascia di reddito per cui è prevista l’esenzione» sentenziò.
«Ma com’è possibile? Con quello che guadagno arrivo appena a fine mese!» domandò stupito lui.
«Non si scaldi» replicò la donna con voce calma, aveva trascorso anni in quella trincea e disponeva di mille risorse per combattere chi stava dall’altra parte della barricata.
«Mi scusi, non volevo essere scortese… è che ne ho proprio bisogno, di quelle medicine» fece lui quasi sottovoce guardandosi le scarpe.
«Bene, allora intanto veda di calmarsi perché io non c’entro niente, non le faccio certo io quelle tabelle» puntualizzò lei in un tono lievemente inacidito sbirciando ancora una volta l’orologio.
«Mi scusi di nuovo, è che sono molto teso… quelle medicine mi servono davvero urgentemente» insisté Carpetti. La donna alzò la testa e col dito indice si spinse indietro gli occhiali sul naso come per metterlo meglio a fuoco.
«Senta, io vedo dozzine di persone ogni santo giorno. Vengono a chiedere l’esenzione perché denunciano un reddito molto minore del suo, e poi magari se ne vanno al ristorante tutte le sere e girano in auto di lusso. Certamente lei non farà parte di quella categoria, ma io non posso davvero farci niente. Vada a protestare con chi le crea, queste situazioni, e soprattutto con chi le sfrutta» sentenziò. Ci furono pochi istanti di silenzio, durante i quali Carpetti valutò tutte le possibilità. Sapeva che mettersi a gridare non gli sarebbe servito.
«E allora cosa devo fare?» chiese nel tono più gentile che gli riuscì.
«L’unica cosa che può fare è una inoltrare una domanda di rimborso speciale da inviare al Presidente di Regione. Se le verrà accordato provvederanno a rimborsarla entro due anni, le sarà sufficiente conservare le ricevute delle spese che ha sostenuto per acquistare le sue medicine.»
«Forse non mi sono spiegato bene» rispose lui cambiando di colpo espressione e tono di voce. «Io non dispongo del denaro sufficiente per comprarmi le medicine, altrimenti non sarei qui a umiliarmi davanti a una perfetta sconosciuta! E senza quei farmaci, ogni due giorni che passano perdo la possibilità di viverne uno in più!»
«Non so cos’altro dirle, se non è convinto si rivolga a qualche altro ufficio» ribadì la donna dopo un lungo istante di silenzio, per niente toccata dalle parole di Carpetti. «Mi dispiace» aggiunse più per abitudine che per altro, poi allungò la mano verso la cordicella per abbassare la tapparella.
«Non è vero!» gridò Carpetti sbattendo sul vetro una manata così violenta che strappò un sobbalzo alla donna. «Non è vero che ti dispiace. Di quelli come me non te ne frega niente, tu pensi solo ad arrivare a fine mese per prenderti lo stipendio che ti ho garantito io pagando le mie tasse! Tra poche settimane morirò, e la colpa sarà anche tua perché non hai voluto aiutarmi!» continuò a urlare. La donna scomparve dietro la tendina celeste ma lui continuò a tempestare di pugni il vetro gridandole contro, con gli occhi quasi fuori dalle orbite a causa della rabbia, finché una guardia giurata lo afferrò per la giacca e lo trascinò di peso fuori.
No, no, No! Non mi piace! E’ troppo patetico, troppo noioso! PA-TE-TI-CO! E puerile, infantile, con questa protesta da adolescente che lotta contro il Sistema. Ma perché scrivere una storia deve essere così maledettamente difficile? Eppure sono convinto che qualsiasi idea possa essere interessante, dipende soltanto da come la si racconta. E da quanto amore ci si mette dentro, come in tutte le cose… ma questa è tutta troppo idealizzata, troppo distante dalla realtà. Devo riuscire ad immedesimarmi di più. Devo riuscire a pensare come lui, a sentirmi come si sentirebbe lui. Forse devo rileggere quello che ho scritto finora, magari mi verrà fuori qualche modifica.
CAPITOLO VII (DEVO LAVORARE)
Carpetti rientrò in casa e tirò dritto in corridoio per andare a buttarsi sul letto, l’appetito gli era definitivamente passato. Il pesce nell’acquaio si era ormai scongelato e aveva cominciato a diffondere un odoraccio per la casa, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Stava spendendo tutte le sue energie per cercare di ragionare, di farsi venire un’idea per ottenere quei medicinali. Ma stava davvero troppo male. Un malessere quasi fisico lo attanagliava da capo a piedi impedendogli di pensare, si sentiva annullato, come se qualcuno o qualcosa avesse già provveduto a cancellarlo dalla faccia della Terra. Stremato dall’emozione crollò di colpo per cadere in uno stato di tormentato dormiveglia, durante il quale gli riaffiorarono ricordi sepolti ormai da anni in fondo alla memoria. Rivide la casa nella quale era cresciuto, umida e buia, di quelle con i muri spessi e le mattonelle del pavimento in graniglia. Una di quelle case antiche che hanno un odore particolare di umido e di polvere, che ti torna familiare nelle narici soltanto quando lo senti di nuovo dopo qualche tempo. E rivide la strada di periferia nella quale giocava da bambino, sporca, con i lampioni rotti dalle sassate dei suoi compagni di giochi. La stessa strada dalla quale un giorno suo fratello era partito senza più fare ritorno, qualcuno mormorava a causa della droga. E poi sua madre, con quegli occhi sempre tristi, con sempre indosso lo stesso vestito. E suo padre, che tutte le sere tornava distrutto dal lavoro, si sedeva a tavola senza aprire bocca, cenava e andava a dormire. Carpetti rimase in quello stato per tutto il resto della giornata e tutta la notte seguente, il risveglio arrivò presto e lo trovò sempre più confuso. Per qualche istante osò sperare che il giorno precedente non fosse realmente trascorso, sperò che si fosse trattato piuttosto di un brutto e interminabile incubo. Ma dopo aver continuato a fissare per un po’ il soffitto abbandonò quella sensazione di parziale distacco da sé stesso, come se quella cosa stesse capitando a qualcun altro e non a lui, e decise di provare a farsi forza. Si disse che quello non era il modo giusto di affrontare quell’assurda situazione e decise di reagire. Si alzò e andò a studiare il calendario appeso al muro, dal quale una soubrette gli lanciava sguardi sexy. Aveva comprato quel calendario anno dopo anno, era stata da sempre la sua unica concessione alle cose futili e la sua unica Uscita di Sicurezza verso il Mondo della Fantasia. Contò i giorni, e poi le settimane e i mesi, e poi le ore e addirittura i minuti, usando le dita, finché si guardò le mani. Provò pena per sé stesso e per loro pensando che un giorno non lontano si sarebbero fermate per sempre, e due lacrime silenziose gli scesero lungo le guance un po’ paffute. Devo lavorare, è triste dirselo ma il lavoro è l’unica cosa che mi rimane realizzò di colpo. Carpetti era magazziniere in una ditta di distribuzione di acque minerali e non amava né quel mestiere né il datore di lavoro, ma non aveva avuto molto da scegliere. Inoltre quel lavoro gli permetteva di tirare avanti, per di più, per quanto lo odiasse, adesso era l’unica cosa che gli restava per non fermarsi a pensare.
Ora Basta, devo trovare il modo di dormire un po’ perché sono davvero distrutto. Non so se sto scrivendo una storia interessante, però in fondo sono contento. Bella o brutta che sia, non pensavo che ci sarei riuscito. Sono sicuro che quando mostrerò a Sissi il romanzo finito, mi dirà che è orgogliosa di me. Ma prima di incontrarla devo anche decidermi a darmi una bella sistemata, negli ultimi giorni mi sono lasciato andare un po’ troppo e adesso sembro proprio un disgraziato.
CAPITOLO V
UN BRUTTO RISVEGLIO
Franco aveva amato Silvia fin dalla prima volta che l’aveva incontrata, davanti a quel banchetto di libri usati dove lavorava in attesa di laurearsi in lettere. Avevano scoperto di avere così tante cose in comune che avevano presto deciso di sposarsi, l’avevano fatto non appena lei si era laureata. Era stata Sissi a trasmettergli la passione per la lettura, era lei che lo faceva sentire vivo, che gli faceva capire di esistere per qualcosa. Era Sissi che gli aveva dato due bambini meravigliosi. Sulla scia di queste riflessioni, Franco si attardò ancora, quando si accorse che ormai era quasi mattina si decise finalmente ad andare a dormire e lo fece col sorriso sulle labbra, stringendo una foto al petto. Il risveglio però fu tutt’altro che sereno: ancora una volta, a destarlo di soprassalto era stata quella solita fitta dietro l’orecchio. La foto gli cadde a terra, il vetro si ruppe e lui imprecò. Guardando l’orologio sul comò vide che era pomeriggio inoltrato, subito dopo, un brontolio sordo del suo stomaco lo informò che aveva una fame da lupo perché ultimamente aveva ingerito soltanto alcool e fumo di sigaretta. Si riempì alla meglio la pancia con crackers e sottilette, poi andò a stendersi in terrazza ma il dolore dietro l’orecchio continuava a dargli fastidio.
Franco continua a ondeggiare nel vuoto già da un po’, come sbadatamente. Nessuno tra gli spettatori di quell’incredibile performance osa dirselo, ma i più sono terribilmente indecisi se sperare che cada oppure che si salvi: dopotutto non capita tutti i giorni, di assistere ad un’esibizione del genere. Qualcuno ha messo il telefonino in modalità “video” e lo tiene puntato verso il balcone, col dito pronto a scattare l’istantanea dell’uomo che precipita.
«I materassi!» grida d’un tratto il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, folgorato da un’idea. «Suonate a tutti i campanelli e fate buttare dalle finestre quanti più materassi riuscite a trovare, li raccoglieremo e li ammucchieremo là sotto. Ma fate presto, la situazione è critica. Quell’uomo sta lentamente scivolando, non so quanto ancora potrà resistere senza lasciarsi andare… e muovetevi a sistemare quella dannata puleggia!»
Poi, senza attendere la risposta dei colleghi, si volta di nuovo a guardare Franco. Non riesce a scacciare dal proprio animo incredulità e stupore, quell’uomo continua a starsene lì, appeso per una mano sola come una scimmia, incurante di tutto e di tutti.
«Ehy tu» gli grida, ma è perfettamente consapevole che tentare di parlargli è del tutto inutile. Franco si è ormai completamente isolato in un mondo tutto suo, è come se in quel momento si trovasse comodamente seduto sul divano a guardare una partita di calcio.
«Non mollare adesso. Avanti, metti su l’altra mano. Tieni duro altri due minuti, per favore. Due minuti soltanto, che ti costa? Ehy, sto parlando con te!» prova comunque a insistere il pompiere.
La mano di Franco, sudata, scivola improvvisamente giù per una ventina di centimetri. La sua discesa si ferma solo quando il polso urta il corrente orizzontale della ringhiera e un “oooohhhh” ansioso sale dal cortile fino alle sue orecchie. Un rivolo di sangue tiepido gli scende lentamente lungo l’avambraccio, arrivato al gomito una goccia stilla e gli cade sulla guancia, richiamandolo improvvisamente alla realtà. Per un attimo lui guarda verso il basso e subito dopo scruta con occhi inespressivi il pompiere, che giurerebbe di aver visto un lampo di paura attraversare i suoi occhi. Come se fosse la cosa più semplice del mondo, Franco dà un colpo di reni e si issa, scavalca la ringhiera e in un attimo si trova di nuovo sul terrazzo. Il fragore di un prolungato applauso liberatorio esplode all’istante dal basso, il Vigile del Fuoco si strofina gli occhi, confuso.