Non tutto è perduto, pensò. Ancora la vita non lo ha abbandonato! Ma devo agire in fretta se voglio portarlo in salvo.
Confidando nei suoi poteri, ma anche e soprattutto nella forza della disperazione e nel profondo amore che già per la seconda volta le avevano ispirato gli occhi di lui, caricò il suo corpo inerte sulle sue spalle, rendendosi conto che non stava neanche facendo uno sforzo sovrumano. Estese l’incantesimo di invisibilità al suo giovane amore e si diresse giù per la Costa dei Longobardi, per raggiungere Palazzo Franciolini. Nessuno degli uomini che stavano combattendo per strada li degnò di uno sguardo, continuando a incrociare le armi e battersi come se Lucia, con il suo pesante fardello, neanche esistesse. Quando fu dinanzi al portone della dimora di Andrea, adagiò in terra il suo corpo esanime e si soffermò ancora una volta su quella piastrella decorata che tanto l’aveva incuriosita, quella rappresentante un pentacolo a sette punte. Ma non era il momento di lasciarsi prendere dalle distrazioni. Afferrò il batacchio attaccato al portone e iniziò a bussare con quanta forza ancora aveva. Uno dei servi di casa Franciolini, un moro muscoloso con un turbante in testa, che il Capitano del Popolo aveva acquistato come schiavo in un suo viaggio a Barcellona, aprì il portone giusto di uno spiraglio, per assicurarsi che non fossero i nemici a bussare alla porta. Quando si rese conto della situazione, in un batter d’occhio, fece entrare la ragazza e trascinò dentro il giovane padrone.
«Per Allah e per Maometto, sia benedetto il loro nome, possa essere io perdonato per averli nominati. Che ne è del Capitano?»
«Il Capitano è morto e se, anziché perder tempo a invocare le tue divinità, non farai quello che ti dico, la stessa fine sarà riservata anche al tuo giovane padrone!»
«Non sembra che ci sia molto da fare per lui. Fra qualche istante la sua anima lo lascerà per ricongiungersi a quella dei suoi avi, e di suo padre, che Allah lo abbia in gloria.»
«Non era musulmano, quindi Allah non lo avrà in gloria. Possiamo fare ancora qualcosa per lui. Portalo in camera e adagialo sul suo letto, poi segui le mie istruzioni e lasciaci soli.»
CAPITOLO 3
Alì fece esattamente ciò che Lucia gli aveva ordinato. Nella dispensa aveva trovato tutte le erbe che occorrevano alla ragazza, compresa la corteccia di salice, di cui non aveva ben chiara la funzione. In cucina non si sarebbe mai utilizzata, eppure i suoi padroni ne tenevano una buona scorta in vasetti sigillati con cura. Solo allora, il servitore moro si era accorto che la dispensa era più un’erboristeria che non un deposito di cose mangerecce. C’erano anche quelle, sì, ma molte delle erbe contenute nei vasetti sapeva bene fossero utilizzate da ebrei e fattucchiere a scopi contrari agli insegnamenti sia della sua religione, che di quella cattolica. In fin dei conti, il Dio cristiano e quello musulmano si assomigliavano molto e, se un uomo era destinato a morire, il proprio Dio lo avrebbe preso comunque in gloria e sarebbe stato felice accanto a lui. Non si poteva pretendere di salvare la vita a chi era già destinato a raggiungere il proprio Padre Onnipotente nel regno dei cieli. Questo pensava Alì, mentre attraversava la Piazza del Palio e risaliva a grandi falcate la Costa dei Pastori, guardandosi bene di non imbattersi nei tafferugli che si erano estesi fin lì. Si fermò davanti al portone indicatogli, quello sulla cui testata era riportata la scritta “Hic est Gallus Chirurgus”.
Un altro stregone!, rimuginò Alì tra sé e sé. Si fa chiamare chirurgo, ma so bene che è il fratello di Lodomilla Ruggieri, la strega arsa viva in Piazza della Morte qualche anno fa. Se non presto attenzione e non cerco di allontanarmi da questa gente, finirò anch’io i miei giorni su una catasta ardente. E anche i miei padroni ci sono dentro fino al collo, lo capisco solo ora che razza di eretici ho servito per anni!
Poi realizzò nella sua mente che, appartenendo a un’altra religione, l’Inquisizione non avrebbe potuto processarlo, e si decise a bussare. Un uomo alto, robusto, dai possenti bicipiti, i capelli lunghi raccolti dietro la nuca in una coda e la barba non rasata da qualche giorno, lo squadrò da cima a piedi. Anche Alì era robusto: al suo paese di origine, nell’alta valle del Nilo, era un campione di lotta libera, non c’era nessuno che riuscisse a batterlo, e l’uomo che aveva di fronte non era armato, per cui affrontò il suo sguardo e gli disse ciò che aveva da riferirgli.
«Capisco, prendo i miei attrezzi e ti seguo. Aspettami qui, Palazzo Franciolini è a poca distanza, ma preferisco fare il tragitto in tua compagnia. In due potremmo affrontare meglio eventuali facinorosi.»
Gallo sparì per pochi istanti all’interno della sua dimora e riapparve con una pesante borsa in pelle di vitello, che conteneva gli attrezzi del mestiere e che, a giudicare dall’aspetto, dovevano essere ben pesanti. Attraversarono la piazza passando accanto a gente che combatteva aspramente. Il chirurgo riconobbe un suo amico in uno jesino che veniva abbattuto a colpi di spada e fece per precipitarsi a soccorrerlo. Ma Alì fu lesto a tirarlo per un braccio e farlo desistere dall’intento. Non era proprio il caso di farsi notare e impegnarsi in una battaglia che aveva preso ormai una brutta piega per gli abitanti della città. Era più urgente soccorrere il suo giovane padrone. Alì e Gallo si infilarono nel portone di Palazzo Franciolini, che il moro provvide a sprangare dall’interno. Non avrebbe voluto più mettere il naso fuori da lì neanche per tutto l’oro del mondo, finché i combattimenti non si fossero placati, non sapendo che di lì a poco gli sarebbe stata imposta un’uscita per una commissione ancor più pericolosa di quella appena portata a termine.
Alì osservò Gallo estrarre con delicatezza tre frecce dal corpo di Andrea, mentre Lucia, al suo fianco, era pronta a tamponare il sangue che fuoriusciva non appena l’arma acuminata veniva estratta, utilizzando panni freschi di bucato e applicando l’impiastro a base di erbe che essa stessa aveva preparato in cucina. L’ultima freccia, quella che attraversava il braccio del giovane da parte a parte non voleva saperne di uscire, per quanto Gallo tirasse con decisione.
«Bastardi, hanno utilizzato frecce con rostri, vanno solo in avanti, non si riesce a tirarle indietro. Dovrò spezzare la coda a bilanciere e far fuoriuscire la freccia dal davanti, incidendo col bisturi la cute del braccio in corrispondenza del foro di uscita, ma rischierò di provocare un’emorragia fatale. Sei pronta a tamponare?»
«Sì», rispose Lucia, «sono pronta!»
Alì si rese conto che solo la forza della disperazione impediva a Lucia di svenire, anche se la vista e l’odore del sangue stavano ormai ottundendo i suoi sensi. Rendendosi conto che la ragazza non ce l’avrebbe fatta ad assistere ancora Gallo, Alì fece un respiro profondo e, non appena il chirurgo finì di estrarre la freccia, si fiondò a tamponare la copiosa emorragia. In meno di un istante, la pezza che teneva in mano si era tinta di rosso, e gli faceva percepire al tatto una sensazione viscida davvero sgradevole. In vita sua Alì non aveva mai provato nulla di simile, ma doveva farsi forza. Gallo strappò una striscia di lenzuolo, legandolo stretto attorno al braccio di Andrea, a monte della ferita. Il flusso di sangue si attenuò.
«Non possiamo lasciare il braccio così stretto a lungo, o lo perderemo e sarò poi costretto ad amputarlo a causa della gangrena che si verrà di certo a formare. Ho bisogno di un potente coagulante e cicatrizzante, e il più potente è l’estratto di placenta umana. Alì, devi andare dalla levatrice, lei ha sempre a disposizione placente essiccate e…»
«Ma, la levatrice abita fuori Porta Valle, è troppo pericoloso andare in quella zona!»
«Allora credo che ci sarà poco da fare per il ragazzo.»
Per fortuna, Alì conosceva un passaggio che, attraverso le cantine del palazzo, conduceva fuori delle mura, in prossimità del vallato, dove una corporazione di lavoratori del contado, guidati dalla famiglia Giombini, stavano realizzando un nuovo mulino per la molitura dei cereali. Come fuoriuscì dalla porticina che si apriva nelle mura di levante, ben nascosta da un folto cespuglio, si rammaricò alla vista del costruendo mulino, che era stato in parte raso al suolo dalla furia del nemico. Ma non poteva soffermarsi su quel particolare. La struttura semidistrutta gli offrì riparo dalla vista della soldataglia anconetana, che stava continuando a entrare in città da Porta Valle. Alì si diresse con decisione verso la chiesetta di Sant’Eligio, vicino alla quale abitava Annuccia, la levatrice. Quest’ultima, quando vide il moro, sul momento si impaurì, pensando che fra gli invasori ci fossero anche i saraceni, poi riconobbe Alì e lo fece entrare in casa.
«Sei pazzo ad andartene in giro da queste parti? Stavo per farti secco con questo», gli disse Annuccia, mostrandogli l’alare del camino che teneva stretto in pugno. «Non sono certo intenzionata ad arrendermi e farmi stuprare da questa gentaglia!»
«Ho bisogno di aiuto per il mio Signore, Annuccia. Il Capitano è stato ucciso dal nemico e il giovane Signore è gravemente ferito e ha urgenza di cure.»
Dopo pochi minuti, Alì usciva dalla casa della levatrice, custodendo gelosamente ciò che quest’ultima le aveva affidato e per cui aveva dovuto sborsare ben tre denari d’argento. Riguadagnò la porticina nascosta e tornò nel palazzo dei Franciolini, consegnando a Gallo il prezioso involucro. Il chirurgo prese la placenta secca, la infilò in un calderone di acqua bollente, aggiunse alcune erbe, tra cui il raro Artiglio del Diavolo, e nel giro di una mezz’ora ottenne un impiastro denso, dall’odore sgradevole, che andò a disporre in un vaso d’argilla. Alì prese in mano il recipiente e seguì Gallo nella stanza di Andrea, dove Lucia stava finendo di ripulire dal sangue il corpo seminudo del giovane. Il chirurgo allentò il rudimentale laccio emostatico, mentre la ragazza apponeva sulla ferita un abbondante strato di impiastro, avvolgendo poi una fascia abbastanza stretta, ma non troppo, intorno all’arto offeso. Andrea, nella sua semi incoscienza, fece una smorfia di dolore, che rincuorò tutti i presenti: era ancora vivo, e vigile, anche se molto debole.
«Più di questo non posso fare. I giorni prossimi avrà bisogno di assistenza continua, la febbre salirà, dovrete rinfrescargli la fronte con pezze bagnate e fargli ingerire infusi di corteccia di salice, sperando che riesca a superare non solo l’abbondante perdita di sangue, ma anche l’infezione che si verrà a formare. Se da questa ferita inizierà a fuoriuscire pus verde, potrete cominciare a dargli un addio. Se invece vedrete del pus giallo, quello che noi chirurghi definiamo “bonum et laudabile”, significherà che è in via di guarigione. Ma tu, Lucia, non rimanere qui a lungo: tuo zio presto noterà la tua assenza, e allora credo che per te saranno guai. Addestra il moro ad assistere il suo giovane padrone e ritornatene a casa.»
«Sia mai!», replicò la giovane. «Starò accanto a lui finché non sarà guarito. È il mio promesso sposo e non posso certo abbandonarlo ora.»
«Promesso sposo, dici? Mah, credo proprio che l’intento di tuo zio fosse quello di non farlo giungere avanti all’altare. Non sono un indovino, ma penso che la festa di oggi fosse tutta una farsa per far trovare porte aperte al nemico e morte per il Capitano del Popolo e il suo cadetto. Ti rendi conto che ora il tuo zietto è la massima autorità sia religiosa che politica di Jesi? Fai come vuoi, ma non credo che il Cardinale sia felice di saperti qui ad accudire il cadetto di casa Franciolini.»
Gallo raccolse i suoi strumenti, li pulì con cura, li rimise in borsa, salutò la ragazza con un sorriso, e il moro proclamando un: «Salam Aleikum, la pace sia con te, fratello, e grazie per il tuo prezioso aiuto.»
«Aleikum as salam, grazie a te per le preziose cure che hai offerto al mio padrone, sono certo che se la caverà.»
«Forse dalle ferite» , sentenziò Gallo, chiudendo il pesante portone dietro di sé. «Ma non di certo dalle grinfie del Cardinale Artemio Baldeschi.»
Nei successivi quattro giorni, Andrea rimase in preda alla febbre, accompagnata dai suoi brividi e dai suoi deliri. Lucia gli era stata vicina per tutto il tempo, facendo tutto ciò che le aveva consigliato Gallo e tutto quello di cui era a conoscenza per averlo appreso dalla nonna Elena. Nel delirio, Andrea spesso nominava la strega Lodomilla, parlava degli strani simboli disegnati nella piastrella del portale insieme al pentacolo a sette punte, parlava di un ebreo che lo aveva iniziato a una forma di conoscenza particolare, nominava a volte il re biblico Salomone, a volte una delle mogli dell’Imperatore Federico II, Jolanda di Brienne. Spesso pronunciava, tra altre parole confuse, il nome di un luogo, noto anche a lei: Colle del Giogo. Quella località, che si trovava nel vicino Appennino a un paio di giorni di cammino da Jesi, le faceva tornare alla mente il rito con cui, alcuni mesi prima, era entrata ufficialmente a far parte della setta delle streghe adoratrici della “Buona Dea”. Qualche giorno prima dell’equinozio di primavera, la nonna aveva detto a Lucia di tenersi pronta, in quanto la notte del 21 marzo avrebbero raggiunto le altre adepte e adepti della congrega su a Colle del Giogo, nelle montagne di Apiro.
«Lo zio dice che sono riti pagani, che la maggior parte degli adepti sono eretici e stregoni da mandare al rogo.» Lucia aveva un po’ timore, ma la curiosità prevaleva sulla paura. «Non credi che sia pericoloso partecipare a questa riunione, a questo Sabbah, come lo chiami tu?»
La nonna si era stretta nelle spalle, come a dire che se ne infischiava alquanto di ciò che pensava il fratello, e le aveva risposto con molta naturalezza.
«Quando parliamo di divinità, parliamo di entità soprannaturali, che con la loro infinita bontà possono indicarci vie da seguire, strade che solo con i nostri occhi non riusciremmo mai a vedere. Ora, se il vero Dio è il Padre Onnipotente proclamato dal tuo zio, lo Jahvè invocato dall’ebreo che abita nella casetta giù vicino al fiume, l’Allah in cui credono i Musulmani, lo Zeus dei greci o il Giove degli antichi Romani, dov’è la differenza? Ognuno può chiamare Dio a modo suo e riceverne gli stessi favori, indipendentemente dal nome con cui si rivolge a lui. E se siamo uomini e donne qui in terra, anche in cielo, o nell’Olimpo, o nel giardino di Allah, ci saranno delle divinità donne. Quella che noi adoriamo come la “Buona Dea” era conosciuta ai Romani col nome di Diana. Guarda, guarda la facciata del nostro palazzo. Guarda in alto: che cosa vedi in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano?»
«L’immagine sacra della Madonna, di Maria, della madre di Gesù, accompagnata dalla scritta “Posuerunt me custodem”, posero me a custodia di questa dimora.»
«E quindi qui è la Madonna, la Santa Vergine che veneriamo. Ma ricorda che tutti i luoghi sacri a noi che ci definiamo cristiani, cattolici, sono stati eretti sopra antichi templi pagani, e le antiche divinità sono state sostituite con le nuove. La stessa cattedrale qui a fianco è stata edificata al di sopra delle antiche terme romane, e la posizione della cripta corrisponde all’ubicazione del tempio che i romani avevano dedicato alla Dea Bona, altro nome di Diana. Come vedi, molto accomuna le diverse religioni. Nello stesso luogo dove ci recheremo fra qualche giorno, l’antica immagine della Buona Dea è stata sostituita da una statuetta della Madonna, all’interno di un tabernacolo. Il luogo è comunque sacro, e magico, e c’è sempre qualcuno che adorna l’immagine con gigli freschi e colorati. È il nostro modo di continuare ad adorare la Dea, anche se sotto l’immagine di Maria, madre di Gesù.»