«Tutto bene?»
«Sì, sì», e rifiutando qualsiasi aiuto, Lucia si rialzò in piedi. «È stato solo un mancamento, uno sbalzo di pressione. Ora è tutto a posto, grazie!»
Attraversò la piazza, che ora aveva l’aspetto consueto, di buon passo, per cercare di raggiungere il posto di lavoro il prima possibile, prima che il decano potesse accorgersi del suo ritardo, ma con ben stampate nelle mente le immagini che aveva vissuto per qualche attimo.
Suggestione, solo suggestione, nient’altro che suggestione. Non c’è altra spiegazione logica per i sogni e adesso per le visioni!
Eppure, una voce dal subconscio sembrava volerle dire che erano ricordi, che erano episodi che aveva vissuto in un’altra vita, in un remoto passato, come persona diversa, ma che portava sempre lo stesso nome: Lucia.
Entrò nel palazzo, salì lo scalone che conduceva al primo piano e avviò il computer della sua postazione di lavoro. La tentazione di dare una sbirciata ai suoi profili nei vari social network era resa vana dalla consapevolezza che quel bastardo del decano verificava, tramite il server, il file log del suo computer e la rimproverava se si era concessa di navigare in internet per motivi non legati all’attività lavorativa. Pertanto aprì il foglio di lavoro di Excel in cui andava a classificare i testi e il file di Access su cui registrava i dati per avere un database completo della biblioteca. Ogni testo andava poi scannerizzato e messo in memoria su file PDF, da caricare sul sito web della fondazione, per la successiva consultazione. I testi su cui stava lavorando in quei giorni, e che erano forse stati il motivo scatenante i suoi sogni e le sue recenti visioni, erano una “Storia di Jesi” edita dal Manuzi, proprio quel Bernardino Manuzi che nel XVI secolo aveva la stamperia nel palazzo in cui lei aveva preso dimora, e un libercolo, la cui autrice era Lucia Baldeschi, dal titolo “ Principi di medicina naturale e guarigione con le erbe”. Poi aveva sul tavolo un manoscritto di poche pagine, secondo lei attribuibile anch’esso a Lucia Baldeschi, che cercava di descrivere il significato e la simbologia di un particolare pentacolo a sette punte. Erano tutti e tre dei veri rompicapi, e Lucia non si sarebbe data per vinta finché non avesse sviscerato gli arcani che si nascondevano dietro ognuno di quei testi. “La storia di Jesi” era davvero interessante, un lavoro iniziato da Bernardino Manuzi, tipografo in Jesi, sulla base di documenti antichi e di tradizioni orali, e portato a termine anche grazie al contributo di altri autori. Sul suo tavolo aveva una copia originale del libro, stampata dal Manuzi stesso, a cui erano state strappate diverse pagine, chissà in quale epoca remota, chissà da chi, chissà per quale motivo. Proprio le pagine che si riferivano a un periodo doloroso della storia di Jesi, dal 1517 al 1521, periodo segnato dal “sacco” di Jesi e dal governo del Cardinale Baldeschi che, grazie al fatto di essere a capo del Tribunale dell’Inquisizione, aveva perseguitato e fatto giustiziare molti individui solo perché ostacolavano il suo potere. E Lucia Baldeschi era sua nipote. Uno zio inquisitore e una nipote che si dedicava alla medicina naturale e alla cura con le erbe, considerate a quel tempo pratiche stregonesche. Come potevano convivere e forse abitare nello stesso palazzo? Il fatto che gli scritti di Lucia Baldeschi fossero lì, faceva propendere per la teoria che vi avesse abitato, e di sicuro quella era stata anche la dimora del Cardinale. Il Tribunale dell’Inquisizione aveva sede proprio lì vicino. All’inizio del XVI secolo, proprio per volere del Cardinale, era stato trasferito dal convento di San Domenico al più comodo complesso di San Floriano, mentre il Torrione di Mezzogiorno era rimasto sede delle prigioni in cui venivano trattenuti e torturati gli inquisiti. Chissà di che cosa trattavano quelle pagine asportate del libro; forse vi veniva riportata una scabrosa storia in cui lo zio accusava la sua nipote di stregoneria, la faceva rinchiudere nelle segrete del Torrione di Mezzogiorno, o in quelle più comode del Complesso di San Floriano, la faceva torturare e infine bruciare al rogo sulla pubblica piazza. Certo, questa storia avrebbe infangato la memoria del Cardinale Baldeschi, e così qualcuno della famiglia avrebbe strappato quelle pagine per farne perdere le tracce.
Cominciava a far caldo, e Lucia aprì il finestrone della stanza, proprio quello che dava sulla balconata sostenuta dalle quattro strane statue, avendo cura di chiudere la grande zanzariera, in modo che entrasse aria, ma non fastidiosi insetti. In quel mentre fece la sua comparsa il decano, che rimproverò Lucia con lo sguardo, uno sguardo inquisitore, che sembrava voler interpretare nel gesto di aprire la finestra il desiderio contemporaneo, da parte della giovane, di volersi accendere una sigaretta.
Non ti darò certo soddisfazione, vecchia cariatide! Non fumo di sicuro qui dentro, se non altro per non sopportare i tuoi improperi, ma anche per rispetto dei preziosi oggetti, dei libri, degli stucchi, dei quadri, che sono conservati qui dentro, rimuginò tra sé e sé Lucia, mentre notava la somiglianza tra il decano, il quasi settantenne Guglielmo Tramonti, e il Cardinale Artemio Baldeschi, così come lo vedeva ogni giorno in un ritratto appeso alle pareti della sala e così come gli appariva nei suoi sogni recenti.
«Anche se qui dentro non abbiamo aria condizionata, meglio tenere le finestre chiuse. Sudare non ha mai fatto male a nessuno, mentre l’aria potrebbe essere nociva per le opere che abbiamo in custodia!» Lucia vide il decano dirigersi verso il finestrone, ma anziché chiuderlo come doveva essere sua intenzione, aprì la zanzariera e si affacciò dalla ringhiera metallica della balconata. In un attimo, il decano sparì. Lucia si precipitò sul balcone e guardò di sotto. Il corpo di Guglielmo Tramonti giaceva esanime sul lastricato della Piazza, riverso con il volto verso terra, vestito da Cardinale e circondato da una chiazza rossastra, che si espandeva pian piano, costituita dal suo stesso sangue. Come era potuto accadere? Da dove proveniva tutto quel sangue? L’altezza non era eccessiva! Si era forse fracassato il cranio e il suo liquido vitale lo stava abbandonando da una ferita apertasi sulla fronte? E i vestiti? Come mai aveva indosso l’abito porporato? Pochi attimi prima non lo portava! Sollevò lo sguardo a cercare i particolari della Piazza e la vide di nuovo come era nella visione che aveva avuto poco prima, quando era uscita dal bar: la Piazza di una città rinascimentale. La voce del decano, proveniente dalle sue spalle, la riportò alla realtà. Si ritrovò a mettere a fuoco con gli occhi la lapide con cui, nella facciata della prospiciente Chiesa di San Floriano, si ricordava Giordano Bruno come vittima della tirannide sacerdotale. Tutto era al suo posto, la fontana con l’obelisco, il Complesso di San Floriano, la Cattedrale, i Palazzi Vescovili, Palazzo Ghislieri. Poco più avanti, sul campanile del Palazzo del Governo sventolava come di norma la bandiera tricolore.
«Allora? Dico di chiudere la finestra e tu che fai, esci sul balcone? Ma… sei sicura di star bene, ragazza? Sei molto pallida, vuoi tornare a casa per oggi?»
«No, no, grazie, sto bene! È passato tutto, solo un giramento di testa. Ho sentito il bisogno di uscire per ossigenarmi, per prendere una boccata d’aria fresca. Ma ora è tutto a posto, posso rimettermi a lavoro.»
«Bene, ma sarei contento di sapere che tu ti sottoponga a un controllo medico. Non è mica che sei incinta?»
«Ancora lo Spirito Santo non è venuto a farmi visita», concluse ironicamente il discorso Lucia, accompagnando queste ultime parole con un gesto evasivo della mano. Prese il libro sulla Storia di Jesi e iniziò a scannerizzare le prime pagine. Alla decima pagina, aprì il programma OCR sul computer e si mise a correggere a mano gli errori, cosa che le permetteva di leggere notizie a lei in parte sconosciute.
LA LEGGENDA DI UN RE
La storia di Jesi ha inizio in un lontano giorno di tremila anni fa. Un inizio senza spettatori. Una piccola folla di gente risale il corso del nostro fiume, incolonnata lungo la sponda sinistra. Avanza lentamente, aprendosi la strada tra la fitta sterpaglia e gli alti pioppi che si specchiano nelle acque del fiume.
E' gente strana, dal nome strano, « pelasgi » li dicono dalle loro parti, i volti abbronzati, segnati dalla stanchezza di un viaggio lungo e avventuroso. Hanno indumenti logori; alcuni vestono pelli di animali che sanno di selvatico. I volti degli uomini sono incorniciati da capigliature e barbe folte che interminabili giornate di sole hanno reso aride, stoppacciose.
Sono i superstiti di una flottiglia di piccoli e veloci legni che hanno vinto la battaglia contro le tempeste dell'Adriatico. Sono sbarcati da pochi giorni verso la foce di quel fiume che ora sbriciola in mille luccichii i raggi del sole. Emigrati dalla loro terra, che è stata la patria dei loro vecchi, degli eroi cantati da un poeta cieco per i villaggi della lontana Grecia, sono alla ricerca di una nuova terra, di una nuova patria.
Ed eccoli giunti, dopo una marcia estenuante, ai piedi di un'altura cresciuta come d'incanto nel cuore della vallata che li aveva accolti giù, alla foce del fiume. Tutt'attorno, boschi a perdita d'occhio, arrampicati sulle colline circostanti. E il silenzio di una natura addormentata da millenni. Da sempre.
Un uomo, dall'aspetto venerando e regale, con l'insegna del comando, indica quel promontorio che par quasi un isolotto emerso a bella posta, nel mezzo della valle, per raccogliere dei naufraghi. E si incammina in quella direzione. Gli altri lo seguono, tenendo il suo passo, senza parlare. Sulla parte più alta del colle, il vegliardo re spinge lo sguardo lontano, scoprendo un paesaggio meraviglioso, disegnato dalle cento tonalità di un verde immenso, tagliato appena dalla sinuosa traccia del fiume che si perde giù, verso il mare.
Il vecchio re, rivoltosi allora ai suoi, fa un cenno di assenso e tutti depongono a terra le loro povere cose. Dunque hanno trovato finalmente la terra promessa, sono giunti alla meta del lungo peregrinare per mari e terre. Questa, d'ora in avanti, sarà la loro nuova patria.
E così fu che re Esio fondò la città di Jesi.
E quindi i primi Jesini erano Greci, in fuga dalla città di Troia distrutta. Come Enea, con i suoi aveva risalito le coste del Tirreno per insediarsi in Lazio, il Re Esio aveva trovato la via più agevole, risalendo l’Adriatico e giungendo alla foce dell’Esino. Lucia si era entusiasmata alla storia e i sogni e le visioni erano ora relegate in un angolo remoto della sua mente. Il suo cervello e la sua fantasia erano già in moto. Questi dati e queste notizie potrebbero essere utilizzate per una bella pubblicazione o, perché no, per la stesura di un romanzo storico ambientato in queste zone, cominciò a pensare Lucia, meditando anche sui possibili guadagni.
CAPITOLO 5
Ricordati, uomo, che polvere sei e polvere ritornerai!
(Genesi 3,19)
Il Cardinale indicava i fedeli raccolti in chiesa, puntando il suo dito inquisitore e fissando il suo sguardo, uno dopo l’altro, su alcuni volti delle prime file.
«Memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris!», ed era capace di far sentire colpevole chiunque incontrasse i suoi occhi, anche se in vita sua non aveva mai fatto nulla di male.
La Domenica mattina, a distanza di dieci giorni dall’efferato e vile attacco da parte degli eserciti nemici, approfittando della pace di cui il Cardinal Baldeschi stesso era stato l’artefice, i corpi degli Jesini caduti nelle strade, nelle piazze e nelle loro abitazioni erano stati recuperati e disposti, coperti da teli bianchi, sul nudo pavimento della chiesa di San Floriano, da un lato e dall’altro rispetto alla guida di velluto rosso che dall’ingresso si spingeva fino ai tre gradini che conducevano all’altare. L’unico che era stato sistemato in una cassa di legno rifinita e decorata, che aveva trovato la sua collocazione proprio avanti all’altare maggiore, era Guglielmo Franciolini. La cassa, che non aveva coperchio, sarebbe stata calata in un’apposita nicchia del pavimento della chiesa, ricoperta da una lastra di marmo che riportava inciso il suo nome e che sarebbe diventata parte integrante del pavimento stesso. Gli altri caduti sarebbero stati trasportati, attraverso un’apertura presente nella navata laterale, nella cripta, dove avrebbero trovato posto in un’anonima sepoltura comune. Un ambiente che coincideva con antichi sotterranei di costruzioni di epoca romana, le cui caratteristiche di umidità e temperatura favorivano la decomposizione dei corpi senza diffondere agli ambienti sovrastanti gli ingrati odori della putrefazione.
«È difficile in momenti come questo ringraziare il Signore!»
Il Cardinale, affiancato sull’altare dal Domenicano Padre Ignazio Amici, a voler dimostrare alla gente che l’Inquisizione nei giorni seguenti non sarebbe stata con le mani in mano, iniziò l’omelia con tono pacato, per passare in breve a parole tuonate, che si infiggevano come affilatissimi coltelli nel petto di ognuno.
«Ma state certi che chi ha tradito pagherà!»
Fece una pausa di silenzio, facendo scorrere il suo sguardo sulla massa dei fedeli. Nelle panche delle prime file sedevano i nobili, dietro di loro gli artigiani e i bottegai; la folla in piedi, assiepata nelle navate laterali e, chi non aveva trovato posto, anche sul sagrato della chiesa, rappresentava la plebaglia, il popolo dei lavoratori. Ognuno, nobile o meno che fosse, tremava all’idea di poter essere il capro espiatorio da portare al patibolo, solo per soddisfare il desiderio del Cardinale di dare in pasto al popolo qualche colpevole, placare gli animi e prendere in mano le redini del governo lasciato vacante dal Capitano del Popolo.
«C’è di certo lo zampino del Diavolo, del Demonio, dietro un assalto così vile. E sappiamo che qualcuno a Jesi si è alleato con lui, aprendo al nemico le porte della città. E chi è sempre in combutta con il diavolo? Le streghe!», e fissò lo sguardo sulla sorella Elena, che seguiva la sua omelia da una panca della seconda fila. «Gli ebrei! E chi fa affari con loro. Attenti voi, commercianti, bottegai, artigiani, che prendete soldi in prestito a interesse, o affidate i vostri risparmi all’ebreo che abita giù vicino al fiume. Nessun Cristiano offrirebbe gli stessi servigi, perché l’usura è condannata dalla Chiesa, dal Papa: è un grave peccato.»
Coloro che erano stati nominati impallidirono, immaginandosi già su un patibolo a fianco di Giosuè. Ognuno di loro si era infatti prima o poi rivolto all’ebreo. Un piccolo prestito, necessario a iniziare un’attività, o a dare una spinta innovativa alla stessa, valeva infatti la pena di essere restituito con interessi. E puntualmente i guadagni venivano reinvestiti nel banco di Giosuè, che garantiva sempre una rendita, grande o piccola che fosse. Da quando poi erano stati aperti i traffici con il Nuovo Mondo, anche molti commercianti Jesini avevano cavalcato l’onda e approfittato di lucrosi scambi. La maggior parte della mercanzia proveniente dalle Indie Occidentali raggiungeva il porto di Barcellona, in Spagna. I commercianti più accorti si sobbarcavano le spese di un viaggio ogni tanto fin là per acquistare, grazie a favorevoli aste, merce che sarebbe stata rivenduta a cinque volte il prezzo a cui l’avevano acquistata, nelle loro botteghe, ma soprattutto nelle fiere e nei mercati. Lo stesso Franciolini aveva affrontato più di una volta il lungo viaggio fino a Barcellona, ed era ritornato con i carri stracolmi di merce. Certo, se il primo viaggio non fosse stato finanziato dall’ebreo, non avrebbe avuto modo di arricchirsi come era avvenuto. Aveva restituito i soldi a Giosuè con i dovuti interessi e aveva reinvestito i guadagni, in parte in nuovi viaggi, in parte in certificati di credito acquistati dall’ebreo stesso. E molti altri in città avevano fatto così. Mai come negli ultimi venti anni, sia il mercato settimanale, sia le varie fiere, a Jesi, erano state così ricche di merci pregiate in esposizione. Ogni sabato la Piazza principale, detta proprio Piazza del Mercato fin da tempi remoti, si riempiva di bancarelle, e i forti odori delle spezie aleggiavano nell’aria già dalle prime ore del mattino. La fiera di San Settimio, in onore del Santo Patrono della città, iniziava il 22 Settembre e si prolungava fino alla metà di Ottobre. I venditori non se ne andavano finché la stagione non volgeva al brutto e iniziavano le piogge autunnali. Le bancarelle occupavano non solo la Piazza del Mercato, ma si estendevano lungo tutta Via delle Botteghe, mentre la Piazza del Panno e la Piazza delle Scarpe prendevano il nome proprio dalle merci che vi si potevano acquistare durante i giorni di mercato e di fiera. Oltre quella di San Settimio, si tenevano a Jesi altre fiere minori, quella di Santa Maria, alla fine di marzo, e quella di San Floriano, dal 30 Aprile all’8 Maggio.