Un uomo uscì dalla porta della cisterna, portando un secchio di legno e cominciò ad annaffiare lâorto. Dopo un poâ si accorse di noi, e ci salutò con un sorriso complice. Per tutto il tempo la mia compagna lo scrutò con gli occhi socchiusi, credo sospettosamente.
Quando lâuomo rientrò, lei disse: â Ti attenderò qui, a mezzanotte. Da solo. Puoi salutare i tuoi cari, ma attenzione. à necessario il segreto!
Lâuomo uscì con un altro secchio dâacqua.
â Il carro... â cominciò Occhi di Gatto, e si interruppe.
â Sì?
â à diretto verso la costa. Gyenna è la sua destinazione, provvisoria.
E con ciò? Pensai. Poi ricordai. Lelius e Lia.
Ma neppure questo riuscì a scuotermi.
Allora Occhi di Gatto mi colpì il braccio con un pugno, e disse con rabbia: â Lo vedi quellâuomo?
â Ehi... certo che lo vedo.
â Vuoi passare il resto della tua vita a chiederti se il primo che incontri è una spia?
Adesso forse stava esagerando. â Ascolta, sono sicuro che il Conestabile...
â Il Conestabile non può fare nulla. Per la semplice ragione che nessuno nel Cortile Segreto lo aiuterà . Neppure io.
Questo mi gelò più di ogni altra cosa avesse detto fino a quel momento.
Ma non mi diedi per vinto. â Ascolta, mi hai detto tu stessa che la Guardia non entrerà nel Cortile Segreto. E dunque l'assassino non corre nessun pericolo. E allora perché dovrei correrlo io, che non posso fargli niente di niente?
Lei non rispose subito. â Ci sono altre ragioni... credo â disse infine. â Lui sa che sei entrato e fuggito dal Cortile, di nascosto. Sa che cerchi Lia.
â E con ciò? â Poi mi ricordai del laboratorio alchemico. Feci per aprire la bocca ma lei mi fermò. â Ascolta, neppure io sono a conoscenza di tutto, capisci? E non so perché esattamente sei in pericolo. Ma so che lo sei. Ti basta la mia parola?
Mi fissò negli occhi. Non mi venne in mente niente da dire.
Infine occhi di Gatto si alzò. â Vieni.
Mentre lasciavamo il cortile, lâuomo che annaffiava lâorto ci salutò con la mano. Ci credeva due innamorati.
(19) IL CARRO
Lâaddio alla propria terra è un evento straziante per chi se ne va e per chi resta, ma imbarazzante per chi se lo sente raccontare. Perciò vi risparmierò questa parte della mia storia, ci disse lo straniero venuto dal mare di sabbia guardandosi le mani.
Chiesi la lampada e lâolio a mia madre, aggiunse quasi bruscamente. Succede, a Morraine. Lâaveva fatto poco tempo prima anche Lucibello. Lâunica differenza, nel mio caso, era che non potevo dire la vera ragione per cui me ne andavo. Che poi la chiedessi da un giorno all'altro era inusuale, ma non inaudito. I Portatori della Lampada sono per loro natura imprevedibili.
I Portatori della Lampada, per tradizione, lasciano Morraine nellâultima ora della notte, in maniera che lâalba li colga sulle pendici dellâYril, se sono diretti verso le montagne, o nella pianura di Meizin, se la loro destinazione è il mare, o in qualche altra località se seguono strade meno battute, ma da cui comunque la città non è più visibile. E proprio a quellâora, possono ascoltare per lâultima volta la campana della Torre dellâOrologio, che batte sei rintocchi.
Questo vuole la tradizione. Quanto a me, forse per via del cigolio del carro, o perché tenevo la testa sotto una coperta, non sentii la campana. La testa la tenevo sotto la coperta perché non volevo che qualcuno mi sentisse piangere. Mi accorsi però del giungere dellâalba perché ogni tanto tiravo fuori il naso per respirare.
Scostai un lembo del telone che copriva il carro. Una luce grigia aveva cancellato le stelle, senza rivelare i particolari della terra.
Tornai a sdraiarmi, appoggiando la testa sulla bisaccia di pelle che mi aveva dato mio padre per metterci le mie cose. Che erano molto poche: un cambio di abiti, della biancheria, le Tragiche Historie, i Fiori di bianco prato, i Canti di Pridery, la mappa dellâisola, alcuni fogli che avevo scribacchiato, naturalmente la lampada e lâolio. A malincuore avevo rinunciato alla maschera della falena lunare, perché troppo fragile. In una piccola borsa di pelle, attorno al collo, avevo alcune monete. E unâaltra cosa.
Questa me l'aveva data Occhi di Gatto, prima di salutarmi.
Ero giunto nel Cortile della Cisterna da solo, come lei mi aveva ordinato. Avevo spinto la porta nella mura, e questa si era aperta. Dentro, buio profondo e un odore di terra umida, mescolato a quello di qualche essenza profumata. Il profumo di Occhi di Gatto. Poi la scintilla di un acciarino.
Nella luce fioca della lampada, le sue pupille erano quasi normali. Dei gradini di pietra scendevano alla mia sinistra, perdendosi nel buio. Lei indicò i gradini. â Vieni.
Il cunicolo era lungo non più di trecento passi. Prima di uscire la mia guida spense la lampada, e potei vedere la luce delle stelle, attraverso unâapertura irregolare.
Occhi di Gatto srotolò una corda e la legò ad un tronco che cresceva da una fessura della roccia.
â Questa volta non resterà a penzolare â disse, ed io sorrisi mio malgrado.
Un centinaio di braccia più sotto, quasi a strapiombo, si vedeva la striscia bianca della strada. Eravamo a metà della balza su cui sorgono le mura occidentali della città . A qualche distanza, sotto una macchia di alberi, si intravedeva appena una chiazza più chiara ancora della strada: il telone di un carro, e si poteva sentire un lieve sbuffare di cavalli, fra il frinire dei grilli. Sentii un fruscio, vicino a me, e Occhi di Gatto mi mise fra le mani qualcosa. Una borsa di pelle. Dentro, la forma delle monete.
â No... no, ho già dei soldi.
â Tieni anche questi, sciocco.
Poi mi slacciò la camicia e mi mise qualcosa attorno al collo.
â E anche questa. Attento a non perderla. â Era una sfera, liscia e molto pesante.
â Cosâè?
â Diciamo che è un amuleto.
Ancora pochi secondi e me ne sarei andato. Câera una cosa che non avevo ancora voluto chiedere.
â Potrò mai... tornare?
Le sue mani erano ancora sul mio petto.
â Molte cose sono possibili. Lo saprai.
â Come?
â Ho i mezzi per avvertirti, non temere. E poi... â Indovinai un sorriso, dalla sua voce. â Chissà , forse sarai tu a non voler più tornare.
Non capivo bene cosa volesse dire, perciò non replicai. Lei mi riallacciò la camicia.
â Se tornerò, ci rivedremo?
â Anche questo è possibile.
La sentii muoversi. Poi le sue labbra mi sfiorarono la guancia.
â Buon viaggio, Iko.
Mi misi la bisaccia a tracolla e mi calai lungo la corda.
Quando posai i piedi sulla strada unâombra si staccò da un cespuglio. Una mano afferrò la mia. Lâombra mi arrivava appena alla vita: un bambino.
â Vieni â disse con voce da adulto.
I miei occhi si erano abituati alla luce delle stelle. Distinguevo il carro, due grossi cavalli, delle figure vicino.
â Eccolo! â disse una voce femminile, che associai ad una macchia chiara di capelli.
â Era ora! â Un grugnito profondo, proveniente da una figura corpulenta, avvolta in un mantello.
â Sbrighiamoci, dunque. â Un uomo, molto alto e magro, che saltò a cassetta. Quello corpulento lo seguì.
Il bambino mi condusse al retro del carro, e saltò su con sorprendente agilità . Qualcuno da dentro allungò una mano e mi aiutò a salire. La donna bionda mi seguì.
Dentro il buio era completo, ma in compenso câerano molti odori: di stoffe polverose, di sudore, di cosmetici, di cibo. Il carro era coperto da un tendone, a differenza di quello di Lelius che come sapete era tutto di legno. â Mettiti qui. Puoi dormire. â Una seconda voce di donna. Non câera materasso, ma degli strati di tela grezza, forse fondali di scena.
Qualcuno mi mise in mano una coperta e un cuscino. Venni urtato da vari corpi che si sistemavano per la notte.
â Come ti chiami? â La prima donna.
â Iko... cioè, Nykos.
Lei rise, non so per quale ragione.
â Quanti anni hai?
â Quindici.
â Lascialo stare. Avrà sonno. â La seconda donna.
â Buonanotte, allora!
In verità , fu la notte peggiore della mia vita.
Non avevo mai dormito su un carro. Non avevo mai dormito vicino a tanta gente. Non avevo mai dormito fuori da Morraine. E poi, come ho detto, mancava solo unâora allâalba.
Accolsi la luce come una liberazione. Anzi, il giorno che nasceva, come spesso accade, risollevò il mio spirito. Avevo perso Morraine, ma il mondo intero si apriva davanti a me! Il mare era la nostra destinazione, le città della costa, i porti! Cominciai a fantasticare di navi e galeoni, che avevo visto solo sulle illustrazioni dei libri. Rimpiansi di non aver portato con me la Storia Universale dei Viaggi, che era troppo pesante e voluminosa. In compenso avevo la mappa: chissà , forse un giorno avrei trovato la mia isola misteriosa...
In quel momento il carro si arrestò. Sentii il cocchiere scendere, e sbirciai da sotto il tendone. Lo vidi allontanarsi di qualche passo, fermarsi sul bordo della strada, armeggiare con i pantaloni.
Questo mi fece venire in mente che avevo bisogno anchâio. Sgusciai fuori dalla coperta. I miei nuovi compagni di viaggio dormivano tutti: cumuli indistinti nella luce fioca.
Saltai a terra. L'aria della mattina era fredda e pulita, dopo quella stantia del carro. Lâuomo alto e magro aveva finito, e si stava riallacciando.
â Buongiorno â disse. â Io sono Astrix Palemon. â Aveva un cappello a larghe falde, che si levò con un gesto ampio del braccio. â Guerriero, principe, innamorato, bandito, mago. â Compresi dopo un momento che erano i suoi ruoli.
â Io sono Iko. â Purtroppo, non avevo niente da aggiungere.
Astrix Palemon mi fissò da sotto le folte sopracciglia nere, lisciandosi i lunghi baffi. â Vedremo cosa fare di te â disse, e rimontò sul carro. Io montai dalla parte opposta, pensando a cosa dovevo fare di me.
(20) ARQUIN
â Ecco â disse Gost Baran. â Questi sono gli strumenti.
Da sotto il carro tirò fuori una cassetta di legno, appesa a un gancio. Gost Baran era lâuomo corpulento della sera prima. Aveva anche una folta barba rosso fulvo e il naso rosso violaceo. Era Tiranno, Buffone, Vecchio, Re, Fanfarone e Mangiafuoco. Era anche il capo della compagnia.
La cassetta conteneva: un martello dal manico spezzato, una sega arrugginita, una tenaglia con le ganasce sconnesse, uno scalpello spuntato, un trapano con la punta storta, un assortimento di chiodi usati.
â Non credo che potrò fare molto con questi â dissi io.
â Non vanno bene? â chiese Gost Baran sollevando le sopracciglia rosse e folte come la barba. Possedeva una voce profonda e minacciosa: non sapevo bene se era una cosa naturale, o se gli veniva da qualcuno dei suoi ruoli. Avevo lâimpressione che i miei nuovi compagni recitassero sempre, come se i personaggi fossero entrati dentro di loro. Come, mi venne in mente, se vivessero una perenne Festa della Maschere.
Il fatto era che avevano trovato un ruolo anche per me. O più modestamente un lavoro: quello di falegname. Con degli attrezzi inservibili.
â Vedete, signore, questo per esempio non taglia â gli mostrai lo scalpello, passando un dito sulla lama. â E uno scalpello serve per tagliare il legno. Questa è storta â gli mostrai la punta del trapano. â Come può fare i buchi? E poi non câè neppure una pialla...
Gost alzò le spalle. â Bah! Myrtilla ti darà una pietra per affilare. Un buon artigiano si ripara da solo i suoi attrezzi.
Myrtilla era la ragazza bionda. Servetta, Smorfiosa, Ingenua, Principessa, Scudiero, Garzone. Siccome era anche la cuoca, si occupava dei coltelli. In quel momento stava lavando le stoviglie. Eravamo fermi in una radura, poco lontano dalla strada. Durante il pranzo, avevano passato in rassegna le mie abilità , e avevano deciso che la cosa più utile che potessi fare era di occuparmi della manutenzione degli attrezzi di scena e del carro. Sarei anche potuto comparire sulla scena in qualche parte muta: si erano resi subito conto che come attore non avevo molta stoffa, ed ero troppo vecchio per imparare lâarte del giocoliere o del saltimbanco, a cui bisogna applicarsi fin da bambini.
Potevo anche mischiarmi al pubblico per applaudire, e molte altre cose che mi sarebbero state dette di volta in volta. Tutti lavori non indispensabili, nella rigorosa economia di una compagnia ambulante. Ma suppongo che Occhi di Gatto, o chi per lei, li avesse adeguatamente ricompensati.
â A Larissa potremo comprare gli attrezzi che ti mancano â disse Gost andandosene. Larissa era la nostra prossima, e per me prima, tappa. Gost se ne andò con passo maestoso: si esercitava nella parte del Re Grendel, protagonista della tragedia omonima, che avremmo recitato fra due sere. Avrebbero recitato, cioè.
Non avevo osato dire delle mie ambizioni di poeta: in parte perché temevo di non essere preso sul serio, in parte perché non ero sicuro che a loro servisse un poeta: sembravano recitare più che altro a soggetto.
Così andai da Myrtilla a prendere la pietra per affilare lo scalpello.
â Che te ne pare della tua nuova vita? â mi chiese il nano.
Io ero sdraiato sullâerba e scrutavo una nuvola a forma di muso di tigre, che si andava trasformando in un rospo.
â Non so... à appena cominciata â risposi a bassa voce. Gli altri dormivano sdraiati qua e là sullâerba o sul carro, dopo una notte parzialmente insonne. Per parte mia, non riuscivo a chiudere occhio. Era la prima volta che trascorrevo tanto tempo fuori dalle mura di Morraine.
Dumpy Dum si grattò il naso con le unghie del piede destro. Era lui quello che avevo scambiato per un bambino con la voce di adulto, e usava il piede per grattarsi perché in quel momento le mani gli servivano per tenersi ritto a testa in giù. Come gli altri, usava i momenti liberi per ripassarsi la parte.
â La nostra è la vita più bella che ci sia al mondo â dichiarò Dumpy Dum, che doveva essere un nome dâarte. Aveva i due bicipiti più grossi che avessi mai visto in vita mia, le guance con due pomelli rossi che non capivo bene se fossero dipinti, la barba bionda e rada.
â Che ha di bello ? â chiesi.
Dumpy Dum sollevò un braccio, rimanendo appoggiato sullâaltro. â Dipende â disse. Non era la posizione adatta per lunghi discorsi.
â Da cosa?
Il nano tornò su due mani. â Prendi il mio caso. Nessuno ci trova qualcosa di strano in me, vedendomi su un palcoscenico. Anzi: mi applaudono. Nel mondo normale sarei compatito.
Nel mondo normale? In che razza di mondo vivevano gli attori? La conversazione languì, mentre Dumpy Dum eseguiva una serie di capriole. Per riposarsi si rimise sulle mani: per lui sembrava una posizione più naturale che starsene in piedi. Forse era anche naturale che vedesse il mondo al contrario.
â Ma nel caso di Gost? â chiesi. â O di Myrtilla? Vale anche per loro?
â Naturalmente! In che modo potrebbero essere Re o Principesse, altrimenti?
â Ma è solo una finzione.
Il nano alzò (cioè, abbassò) le spalle. â Un sacco di Re o Principesse lo sono per finta.
â Non per i loro sudditi.
â Ecco! Noi facciamo meno danni! Un altro punto di merito.
Non potei fare a meno di ridere. â Questo comunque non risolve il mio problema, visto che come attore sono un fallimento.
â E che ne sai? Hai mai provato davvero?
Oh, se avevo provato! â Sì... una volta.
â Beâ, tutto si impara. Ci vuole tempo. â Dumpy Dum amava le sentenze, anche a costo di essere banale.
â Ma non tutti diventano attori.
â Perché mancano di costanza.
â Solo per questo?
Il nano eseguì qualche salto mortale allâindietro, forse per sfuggire alla domanda. Ma io continuai a guardarlo, in attesa, e alla fine rispose: â Molte cose sono necessarie per mettere in scena uno spettacolo, dal poeta che ha scritto la tragedia al falegname che costruisce il palco.