I segni sono chiari, e Teseius è come annichilito da essi. Lâaltro vecchio cerca di confortarlo, di insinuare dei dubbi, ma la sua voce è priva di convinzione. Teseius piange, impreca, maledice la sorte, gli dei, Phenissa, lo straniero, gli anni perduti, gli stenti e i pericoli trascorsi sul mare... tutto per nulla. Peggio che nulla. Poi il suo sfogo si quieta fra i singhiozzi. Raccoglie le ossa della moglie, aiutato dal compagno, appresta per esse una sepoltura. Infine vi pone accanto quelle dello straniero. Lâunico conforto è perdonare.
La notte cala sui due, senza che si scorga un barlume di speranza.
Ed ecco lâepilogo.
Da una macchina scenica cala sul palco la Dea del Mare, Astar in persona. Fra le braccia stringe un fanciullo di grande bellezza. Teseius è steso a terra, addormentato. Forse si tratta di un sogno.
La dea spiega che lâamore di Phenissa e il perdono di Teseius hanno placato la sua ira. Nel maremoto il figlio di Phenissa e dello straniero si è salvato: la sua culla ha galleggiato sulle acque, ed è stato raccolto. Egli fonderà una nobile città , e la sua stirpe avrà lunga vita fra gli uomini.
Cala il sipario. La dea scompare. Termina il dramma.
Era davvero una bella storia, piena di tragica grandezza e di tenera passione, e lâapprezzammo tutti. Qui, nellâoasi, siamo sempre avidi di nuove storie, e i bravi narratori sono grandemente onorati.
Lì, nel Cortile Segreto (proseguì il naufrago), piansi per Phenissa. Avrei voluto essere Teseius, avrei voluto essere lo straniero. Avrei, soprattutto, voluto essere Lelius, che aveva abbracciato la fanciulla nelle vesti di entrambi.
â Iko... Iko...! â Era Jues che mi chiamava. Io ero già arrivato in fondo alla fila di panche, disturbando parecchi spettatori. â Dove vai?
Già : dove andavo? Il fatto è che non lo sapevo neppure io. Quasi non mi ero accorto di essermi alzato.
Ci accostammo ad un pilastro, nellâombra, cercando di non farci notare troppo. Lo spettacolo stava proseguendo con un duetto musicale, eseguito da Lelius e dalla signora, con viola e archimboldo.
â Dovete aiutarmi â dissi. Anche Lucibello ci aveva raggiunti.
â A fare cosa?
â A vederla!
â Chi?
â Lei... Phenissa.
â Sei impazzito?
Doveva essere così.
(4) LIA
â Insomma, perché vuoi vederla? â chiese Jues.
â Ã bella... â balbettai io.
â Ã innamorato â rise Lucibello.
Mi fermai. Detto così, faceva ridere.
Eravamo sotto il palcoscenico. Lame di luce penetravano fra le tavole, insieme alla musica. Nella luce danzavano innumerevoli particelle di polvere, sollevate dal nostro passaggio. Grosse travi incrociate reggevano l'assito del palco, perdendosi in una geometrica foresta. C'era a stento spazio per stare in piedi.
Anche gli altri due si fermarono. Scrutammo attorno a noi, e ormai non potevamo più avere dubbi: né il palcoscenico né tutta quella polvere erano stati portati lì dal carro. Il Cortile Segreto era un teatro. Guardandoci a vicenda, nelle strisce di luce e di buio, ci colse un brivido. Sentivamo di avere svelato un grande mistero. Questo fece tacere Lucibello, che altrimenti avrebbe continuato a prendermi in giro, e mi evitò di riflettere sulla domanda di Jues.
â Andiamo avanti! â dissi.
Le viscere del palcoscenico parevano senza fine. Ben presto ci trovammo in una zona dove nessuna lama di luce tagliava il buio, e anche la musica filtrava a fatica. Incontrammo ostacoli imprevisti e dolorosi. Infine, ci si parò dinanzi qualcosa che dovemmo aggirare a tentoni. E mentre lo facevamo, si mosse! Si sollevò cigolando. In alto, una botola si aprì e ci inondò di luce. La macchina scenica eruttò forme misteriose.
Qualcuno doveva pur azionarla, pensai. Rischiavamo di essere scoperti. Mi gettai a terra, perdendo di vista i miei due compagni. Il fragore della macchina era enorme, la luce bianchissima e implacabile. Arrancai fra i pali, in cerca di un riparo, e mi ero appena fermato quando vidi un grande sacco rigonfio calare verso di me. Rotolai via appena in tempo per evitare il contrappeso, che si afflosciò a terra fra una nuvola di polvere.
Mi sentivo soffocare. A pochi passi da me, un mastodontico ingranaggio di legno prese a girare con poderosa lentezza.
Non osavo chiamare i miei amici. Avevo paura a proseguire, e mi vergognavo a tornare. Dopo un tempo indefinito, tornò il silenzio sotto il palcoscenico. Da lontano, giungevano le voci e la musica di una nuova rappresentazione.
Decisi di proseguire a gattoni. Non ci volle molto: la foresta di travi terminò bruscamente. Sopra di me câerano le stelle. E davanti, il carro!
Mi arrestai, nascosto dietro lâultimo puntello. Che fare adesso? Dove poteva esser Phenissa? Fra le voci che giungevano dal palcoscenico non mi sembrava di udire la sua. E mi venne in mente una cosa: lei era stata lâunica, di tutta la compagnia, ad aver recitato una parte sola. Allora forse poteva essere nel carro...
Le gambe mi tremavano a tal punto che per un poâ non riuscii a muovermi. E quando mi misi a correre, inciampai contro non so cosa e finii rovinosamente per terra. Per farla breve: arrivai al carro, ci girai attorno, sbirciai attraverso ogni apertura. Non vidi niente.
Con un misto di delusione e di sollievo (cosa avrei fatto se lâavessi vista?), mi sedetti con la schiena appoggiata ad una ruota, ansimando e sentendomi molto stupido.
Una finestra si illuminò, davanti a me, di un chiarore giallo e tremolante. Andai a guardare: che avevo da perdere? Dovetti arrampicarmi, perché la finestra era posta in alto, e protetta da una grata di ferro. Scorsi un deposito: grande e cavernoso, con alte volte sorrette da pilastri che la luce fioca della candela non riusciva a raggiungere. Quelli che mi parvero attrezzi teatrali di ogni genere erano ammucchiati fino al soffitto. La fonte della luce era nascosta. Mi arrampicai sulla grata. Câera uno spazio vuoto, al centro del magazzino, ma ne potevo scorgere solo un angolo. Di tanto in tanto in quellâangolo compariva uno dei burattini, facendo capriole impossibili. Per una marionetta, sâintende. Era solo? No: sul pavimento si proiettava unâombra allungata e indecifrabile...
Scesi, trovai la porta, che mi sembrò enorme, lâaprii con grande cautela, mentre il battito del mio cuore soverchiava il fragore degli strumenti musicali che giungeva dal palcoscenico, e che sembrava preannunciare la fine dello spettacolo.
Scivolai dentro, richiusi la porta. La luce della candela, da quel punto, era quasi invisibile, e sembrava molto lontana; dovetti attendere qualche istante perché i miei occhi si abituassero al buio.
Un leviatano mi guardava da dietro la chiglia di una nave rovesciata. Avanzando, inciampai in un elmo piumato: per fortuna era di cartapesta, e il rumore non fu troppo forte. Accanto c'era una spada spezzata. Trovai poi un leone spelacchiato, un trono senza una gamba, un forziere spalancato. Il ritratto di una dama antica per un attimo mi fece balzare il cuore in gola, tanto sembrava vera nella penombra. Scavalcai alcune colonne cave fatte di legno, riverse a terra, aggirai a debita distanza uno scheletro penzolante, mi infilai sotto un carro trionfale... e fra i raggi dorati di una ruota scorsi finalmente la marionetta che danzava. Per qualche attimo attrasse tutta la mia attenzione: perché senza dubbio, non era manovrata da filo alcuno, né da altro congegno visibile. Pensai: forse è un nano, o una scimmietta travestita...
Ma perché guardavo quello sciocco burattino? Come se avessi paura ad alzare lo sguardo...
Allungando una mano, quasi avrei potuto toccarla. Ma muovere un solo muscolo pareva impresa più ardua che attraversare a nuoto un oceano.
Lo straniero si interruppe. Fissava le fiamme con lo sguardo perso e la fronte aggrottata, come se cercasse nella memoria qualcosa che gli sfuggiva.
Dire che ero innamorato, riprese infine, è troppo. O troppo poco. A quattordici anni non si è veramente innamorati. Era qualcosa di più... primordiale. Come se avessi atteso per tutta la mia vita quel momento, senza saperlo. E il momento mi sfuggiva fra le dita.
Ma vorrete sapere cosa vidi, suppongo. Ã presto detto: Phenissa seduta su uno sgabello, immobile. Indossava lâultimo abito di scena, quello in cui era stata lapidata, che era anche lo stesso della scena sulla spiaggia. Teneva gli occhi fissi nella direzione della marionetta, ma senza seguirla nel suoi movimenti. Le labbra erano socchiuse, e sembrava che neppure un alito ne uscisse. Il volto chino, appena velato da una ciocca di capelli neri, aveva unâespressione di quasi impercettibile sorpresa. Per cosa, non avrei potuto immaginare.
Tutto questo durò forse il tempo di dieci respiri o di cento battiti di cuore, il tempo per la marionetta di eseguire una serie completa di capriole.
â Non dovresti essere qui.
Il terrore fu tale che per un attimo la vista mi si annebbiò. Era la voce di Lelius. Mi aveva scoperto! Quando tornai a vedere, la marionetta si era fermata, Phenissa aveva alzato gli occhi, e Lelius era davanti a lei.
â Lia.
Allungò una mano e le toccò la spalla. La fanciulla ebbe un sobbalzo, e nello stesso istante la marionetta balzò in avanti, come... se volesse difenderla. Ma era assurdo. E comunque si fermò.
Phenissa... Lia mosse la bocca come per parlare, e con unâespressione che forse era di dolore chiuse gli occhi. Un gemito quasi impercettibile le uscì dalle labbra.
Lelius si voltò a guardare la marionetta, con irritazione.
â Non devi giocare con questi... â Lia dondolava la testa da destra a sinistra, lentamente.
â Domani reciterai la parte di Issadee â disse Lelius, con voce severa, ma anche, quasi, con... compassione. â Vieni.
Lia, che non aveva ancora riaperto gli occhi, si alzò. Lelius prese con una mano la candela e con lâaltra un braccio della fanciulla, e a passi lenti, come un cieco e la sua guida, i due sparirono dietro una statua colossale, alata ma priva di testa. Nel buio, qualcosâaltro si mosse. Lâultimo bagliore della fiamma si riflesse sui bottoni dorati delle spalline della marionetta, che seguiva a passi rapidi i suoi padroni. Poco dopo, sentii la porta chiudersi, la chiave girare nella toppa.
Ci misi un poâ prima di capire che ero prigioniero.
(5) LA TORRE
Il cortile era deserto. Tutti gli spettatori se nâerano andati, i commedianti si erano ritirati le scene smontate, i servitori avevano spento le lampade.
Io avevo provato la porta e le finestre, senza fortuna. Avrei potuto chiamare aiuto, gridare. E rendermi ridicolo agli occhi di Lia. Non lâavevo fatto, e ormai era troppo tardi. Avevo voglia di piangere. Anzi: lo stavo facendo. Pensavo a Jues e a Lucibello che se ne tornavano alle loro case, senza dubbio dopo avermi cercato. Pensavo a mia madre, e al mio letto.
Infine mi riscossi, balzai giù dalla finestra. Dovevo uscire, e câera un unico posto dove cercare: nelle viscere del magazzino. Nel buio più completo. Doveva esserci unâaltra porta: a Morraine, diceva un proverbio, nessuna stanza ha una porta sola.
Il buio si rivelò meno completo di quanto avevo pensato. Si era levata la luna, e una pallida luminescenza disegnava contorni di oggetti, per la maggior parte incomprensibili. Iniziai il giro della stanza, muovendomi a tentoni lungo le pareti. Sotto le mie dita lâintonaco umido si sbriciolava, cadendo con un fruscio di minute foglie morte, lasciando affiorare mattoni e pietre. Quando mi fermavo, e dovevo farlo spesso per superare o aggirare qualche ostacolo, sentivo altre cose muoversi nel magazzino: topi, speravo. Morraine è piena di favole sugli abitatori delle sue cantine. Cercai di convincermi che non credevo più alle favole.
La prima cosa che trovai non fu una porta, ma una botola: me ne accorsi dal risuonare a vuoto dei miei passi. Favole o no, non presi nemmeno in considerazione lâidea di aprirla e di scendere: è più difficile uscire da una cantina che da qualsiasi altro posto, mi dissi. E poi, unâaltra porta doveva pur esserci!
Non ne trovai una, ma tre. Tutte chiuse. Ero quasi tornato al punto di partenza, quando inciampai contro una scala. I gradini di pietra salivano lungo la parete, senza balaustra. Si infilavano nel soffitto, piegavano, salivano ancora. A questo punto neppure la luce della luna mi aiutava più. Ogni tanto, nelle pareti, si apriva una porta, invariabilmente chiusa.
Poi le rampe presero un andamento regolare, piegando ogni volta a sinistra: ero dentro una torre. Una serie di feritoie me lo confermò. Tutte troppo strette per uscire.
Alla fine della scala trovai unâultima porta. Mi sedetti sui gradini, ansimando. Non osavo toccarla. Non sapevo cosa avrei fatto se lâavessi trovata chiusa. Infine mi alzai, tirai un profondo respiro, cercai il catenaccio, lo tirai... spinsi.
La porta non si mosse.
Preso dal panico e dalla rabbia la scossi. E mi diedi dello stupido. Si apriva verso lâinterno: era ovvio. La scala proseguiva ancora per qualche gradino e terminava su una terrazza coperta.
Era la più bella notte di luna.
Attorno a me si stendeva tutta Morraine, in argento e seppia. Avrei potuto contare tutte le sue 120 torri, e perfino i 3600 merli delle mura, e le 480 campane, i 600 cipressi, e le 72 bandiere e gli 840 segnavento... Naturalmente non lo feci. Ma una cosa mi colpì, mentre facevo il giro del terrazzo, passando da una colonna di mattoni allâaltra: la città pareva estendersi egualmente in tutte le direzioni. Mi trovavo al centro di Morraine. E proprio sotto di me, nel cuore dunque della città , câera un magazzino di attrezzi teatrali. La cosa mi parve, in quel momento, piena di qualche arcano significato. E nel magazzino câera una botola... Se solo ci fossero stati con me Jues e Lucibello! Se solo non fosse stato quasi mezzanotte, e chissà cosa pensavano a casa mia! Se solo avessi avuto una lampada... E dopo un attimo pensai: se solo avessi meno paura.
I pipistrelli tentavano voli inquieti attorno alla torre. Lâaria era fresca, ma carica della promessa dellâestate, e di odori che arrestavano il respiro. Su alcune terrazze le lampade erano ancora accese, si scorgevano delle figure, e adesso che il mio respiro si era calmato, potevo sentire perfino brandelli di musica e di voci.
Cercai i punti di riferimento della mia casa: la Torre degli Unicorni; un vecchio pino dalla cima piegata, che si alzava al centro del Cortile dellâUovo; e sullo sfondo, la cima ancora innevata dellâYiril...
Dovevo solo calarmi dalla torre. Una volta sui tetti, tornare non sarebbe stata unâimpresa impossibile: come ho detto, Morraine è una sola casa.
Mi sporsi. La torre non era molto alta, ma câerano almeno venti braccia per arrivare al tetto sottostante. Senza appigli di cui mi fidassi. Serviva una corda. A malincuore ripresi le scale, tornai nel deposito, frugai nei pressi delle finestre, dove câera un poco di luce, trovai delle corde che non sembravano troppo sottili né troppo vecchie, le legai ad una grata e diedi qualche strattone per essere sicuro che non si rompessero, me le caricai sulle spalle.
Risalendo lungo la scala, giunto ad un pianerottolo, vidi qualcosa che mi fece fermare: una striscia di luce sotto una porta, alla mia sinistra. Prima, di certo, non lâavevo notata. Forse avevo richiamato lâattenzione di qualcuno, con i rumori che avevo fatto nel cercare le corde. E forse, in questa maniera, sarei uscito più in fretta... No: ormai potevo andarmene da solo. Superai la striscia di luce in punta di piedi, girai un angolo... E tornai indietro: ero penetrato nel Cortile Segreto, e non avevo intenzione di andarmene senza vedere tutto quello che câera da vedere!