Voto Di Gloria - Морган Райс 2 стр.


Alla fine, dopo dieci secondi buoni, lo lasciarono andare.

McCloud si afflosciò sul pavimento, privo di conoscenza, sbavando, mentre il fumo si levava dalla metà bruciacchiata della sua faccia. Ora portava, stampato nella carne, l’emblema di Andronico.

Andronico si chinò in avanti, guardò il corpo privo di conoscenza di McCloud e ammirò il lavoretto appena fatto.

“Benvenuto nell’Impero.”

CAPITOLO DUE

Erec si trovava in cima alla collina, al limitare della foresta, e guardava il piccolo contingente armato che avanzava. Il cuore gli bruciava di ardore. Era nato per un giorno come quello. In alcune battaglie la linea di demarcazione sfumava tra giusto e ingiusto, ma non in una giornata come quella. Il signore di Baluster aveva sfacciatamente rubato la sua sposa e si era comportato da spaccone, per nulla dispiaciuto per ciò che aveva fatto. Era stato messo al corrente del suo crimine, gli era stata data la possibilità di ratificare i suoi errori, eppure lui si era rifiutato. Si era preso gioco dei suoi dolori. I suoi uomini avrebbero dovuto lasciar perdere, soprattutto ora che egli era morto.

Invece stavano avanzando, in centinaia: mercenari pagati da quel signorotto mediocre, tutti lanciati con lo scopo di uccidere Erec solo perché quell’uomo li aveva pagati. Procedevano verso di lui nelle loro scintillanti armature verdi, e mentre si avvicinavano lanciavano grida di guerra. Come se una cosa del genere potesse mai spaventarlo.

Erec non aveva la minima paura. Aveva visto troppe battaglie come quella. Se aveva imparato qualcosa nei suoi lunghi anni di allenamento, era di non avere mai paura quando combatteva dalla parte del giusto. Gli avevano insegnato che la giustizia non aveva sempre la meglio, ma poteva donare a chi la sostenesse la forza di dieci uomini.

Non era paura quella che Erec provava mentre guardava l’avanzata di quelle centinaia di uomini, consapevole che sarebbe probabilmente morto. Era attesa. Gli era stata concessa la possibilità di affrontare la propria morte nel modo più onorevole, e questo era un dono. Aveva fatto un voto di gloria e quel giorno quel voto gli domandava ciò che era dovuto.

Erec sguainò la spada e iniziò a correre a piedi giù dalla collina, rapido contro l’esercito che gli galoppava contro. In quel momento desiderava più di ogni altra cosa di poter avere il suo fidato destriero, per affrontare la battaglia a cavallo, ma provava un senso di pace sapendo che Warkfin stava riportando Alistair a Savaria, sana e salva alla corte del duca.

Quando fu più vicino ai soldati, ormai a neanche cinquanta metri da lui, Erec prese velocità deciso a colpire il cavaliere che stava a capo del gruppo, esattamente al centro. L’esercito non rallentò, e neppure Erec lo fece, preparandosi allo scontro ormai imminente.

Sapeva di avere un vantaggio: trecento uomini non potevano fisicamente avvicinarsi abbastanza da attaccare un uomo solo nello stesso istante. Aveva imparato dal suo allenamento che al massimo sei uomini a cavallo potevano arrivare sufficientemente vicini a un uomo a terra. Per come la vedeva Erec, ciò significava che lo scontro non era trecento a uno, ma solo sei a uno. Se fosse riuscito ad uccidere sei uomini alla volta, aveva delle possibilità di vittoria. Tutto ovviamente dipendeva dalla sua resistenza e se questa sarebbe stata sufficiente a sostenerlo per tutta la durata della battaglia.

Scendendo dalla collina, Erec estrasse dalla cintura l’arma che sapeva essere la migliore: un mazzafrusto con una catena lunga dieci metri, all’estremità della quale era appesa una palla chiodata. Era il genere di arma generalmente utilizzata per tendere trappole lungo la via, o per situazioni come quella.

Erec attese l’ultimo momento, fino a che fu certo che l’esercito non avesse tempo per reagire, poi fece roteare il mazzafrusto sopra la propria testa e lo scagliò verso il campo di battaglia. Mirò a un piccolo albero e la catena si srotolò attraverso il campo. Quando la palla si fu attorcigliata attorno all’albero, Erec iniziò a rotolare a terra, evitando così le lance che i nemici gli stavano scagliando, tenendosi alla catena con tutte le sue forze.

Il suo tempismo fu perfetto: l’esercito non ebbe alcun tempo per reagire. Videro la catena all’ultimo momento e cercarono di fermare i cavalli, ma stavano procedendo troppo velocemente e fu troppo tardi.

L’intera prima linea inciampò nel cavo, che tagliò le gambe dei cavalli mandando a terra i cavalieri, seguiti a ruota dalle loro cavalcature che atterrarono su di loro. Decine di uomini collassarono a terra in un grande caos generale.

Erec non ebbe il tempo per essere orgoglioso di quanto aveva fatto: un altro contingente girò e si lanciò contro di lui, avanzando con un grido di battaglia. Erec balzò in piedi pronto ad affrontarli.

Quando il cavaliere a capo del gruppo sollevò il suo giavellotto, Erec prese vantaggio dalle sue risorse: non aveva un cavallo, non poteva affrontare quegli uomini alla loro altezza, ma essendo basso poteva utilizzare il terreno sotto di lui. Improvvisamente si tuffò in terra, rotolò, sollevò la spada e tagliò le gambe del cavallo del primo cavaliere. L’animale inciampò e il soldato cadde a terra senza avere neanche l’occasione di usare la sua arma.

Erec continuò a rotolare e riuscì a schivare le zoccolate dei cavalli attorno a sé, che dovettero dividersi per evitare di calpestare il cavallo caduto a terra. Molti non vi riuscirono e incespicarono sull’animale morto, collassando a terra e sollevando un nuvola di polvere, causando così un vero e proprio ingorgo nel mezzo dell’esercito.

Era proprio ciò che Erec aveva sperato: polvere e confusione, decine di soldati e cavalli a terra.

Balzò in piedi, sollevò la spada e parò un colpo che stava scendendo contro la sua testa. Ruotò su se stesso e bloccò un giavellotto, poi una lancia, poi ancora un’ascia. Si difese contro colpi che gli piovevano contro da ogni parte, ma sapeva che non avrebbe potuto resistere a lungo. Doveva rimanere all’erta se voleva conservare una minima possibilità.

Erec rotolò di nuovo, uscì da quel pandemonio, si poggiò su un ginocchio e lanciò la spada come fosse una lancia. L’arma volò in aria e si conficcò nel petto del soldato più vicino. Questo sgranò gli occhi e cadde di lato dal suo cavallo, morto.

Erec colse l’occasione per balzare sul cavallo, prendendo il mazzafrusto dalle mani dell’uomo. Si trattava di un’arma ben fatta ed Erec l’aveva individuata per quel motivo: aveva un’asta d’argento borchiata e una catena di un metro e mezzo con tre palle chiodate all’estremità. Erec la tirò all’indietro  e la fece roteare sopra la testa, andando a spazzare via le armi dalle mani di diversi avversari in un colpo solo. Poi, con un altro colpo, li fece cadere dai loro cavalli.

Poi perlustrò il campo di battaglia e notò che aveva atterrato quasi un centinaio di cavalieri. Ma gli altri, ancora almeno duecento, si stavano lanciando contro di lui tutti insieme proprio in quel momento, ed erano decisamente determinati.

Erec galoppò loro incontro, un uomo solo contro duecento, e levò un forte grido di battaglia, brandendo il suo mazzafrusto e pregando Dio che la sua forza lo sostenesse.

*

Alistair piangeva mentre si teneva stretta a Warkfin con tutta la sua forza, mentre il destriero galoppava portandola lungo la fin troppo familiare strada per Savaria. Per tutto il tempo aveva calciato e gridato contro il cavallo, cercando di fare il possibile per farlo girare e tornare da Erec. Ma lui non l’aveva ascoltata. Non aveva mai incontrato un cavallo del genere prima d’ora: ascoltava risoluto il comando del suo padrone e non esitava un secondo. Era ovviamente intenzionato a portarla dove Erec gli aveva ordinato, e alla fine non poté che rassegnarsi al fatto che non c’era nulla da fare.

I sentimenti di Alistair erano contrastanti mentre attraversava i cancelli della città, una città nella quale aveva vissuto così a lungo da schiava. Da una parte si sentiva a casa, ma dall’altra le tornavano alla mente i ricordi del locandiere che l’aveva sfruttata, di ogni cosa ci fosse di sbagliato in quel luogo. Aveva desiderato così tanto andarsene, scappare da lì con Erec e iniziare una nuova vita insieme a lui. Mentre quelle mura la facevano sentire al sicuro, provava allo stesso tempo una crescente inquietudine per Erec, laggiù da solo, ad affrontare un esercito intero. Il solo pensiero le dava alla nausea.

Rendendosi conto che Warkfin non sarebbe tornato indietro, sapeva che la miglior cosa che avesse potuto fare sarebbe stata cercare aiuto per Erec. Lui le aveva chiesto di rimanere lì, all’interno delle mura protette della città, ma sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto. Era la figlia di un re dopotutto, e non era tipo da fuggire dalla paura o dagli scontri. Erec aveva trovato in lei una persona come lui: era altrettanto nobile e determinata. E non c’era modo per lei di sopravvivere se gli fosse accaduto qualcosa.

Conoscendo bene quella cittadina reale, Alistair diresse Warkfin verso il castello del duca, ed ora che si trovavano oltre il cancello, l’animale si lasciò guidare. Giunta all’ingresso del castello scese da cavallo e corse tra i servitori che cercavano di fermarla. Si scrollò di dosso le loro mani e percorse i corridoi di marmo che tanto bene aveva imparato a conoscere quando era una serva.

Si lanciò di peso contro le grandi porte reali della sala principale e le aprì con uno schianto, introducendosi in fretta e furia nella stanza privata del duca.

Diversi membri del consiglio si voltarono a guardarla, tutti abbigliati con paramenti reali, il duca seduto al centro, circondato da numerosi cavalieri. Rimasero tutti sorpresi: chiaramente aveva interrotto con il suo arrivo qualche affare importante.

“Chi sei, donna?” chiese un uomo.

“Chi osa interrompere gli affari ufficiali del duca?” gridò un altro.

“Riconosco questa donna,” disse il duca alzandosi in piedi.

“Anche io,” disse Brandt, che Alistair riconobbe essere l’amico di Erec. “È Alistair, vero?” chiese. “La nuova moglie di Erec?”

Lei gli corse incontro, in lacrime, e gli afferrò le mani.

“Vi prego, mio signore, aiutatemi. Si tratta di Erec!”

“Cos’è successo?” chiese il duca, allarmato.

“Si trova in grave pericolo. Sta affrontando un terribile esercito da solo in questo preciso istante! Non ha voluto che rimanessi con lui! Ha bisogno di aiuto!”

Senza dire una parola tutti i cavalieri saltarono in piedi e iniziarono a correre fuori dalla sala senza la minima esitazione. Anche Alistair si voltò e iniziò a correre con loro.

“Resta qui!” la esortò Brandt.

“Mai!” rispose lei, correndogli dietro. “Vi condurrò da lui!”

Corsero tutti insieme lungo i corridoi, fuori dai portoni del castello fino a un gruppo di cavalli già pronti. Ognuno montò sul suo senza aspettare un solo secondo. Alistair salì su Warkfin, lo spronò e si mise a capo del gruppo, ansiosa tanto quanto loro di partire.

Mentre attraversavano di gran carriera la corte del duca, altri soldati intorno a loro montarono a cavallo e si unirono al gruppo. Quando lasciarono i cancelli di Savaria formavano un grosso contingente di almeno cento uomini, Alistair a capo di esso, affiancata da Brandt e dal duca.

“Se Erec viene a sapere che sei con noi, vorrà la mia testa,” disse Brandt. “Per favore, mia signora, dicci semplicemente dove sta.”

Ma Alistair scosse la testa ostinatamente, ricacciando le lacrime mentre continuava a galoppare in quel frastuono di zoccoli attorno a lei.

“Preferirei scendere nella mia stessa tomba, piuttosto che abbandonare Erec!”

CAPITOLO TRE

Thor cavalcava cautamente lungo il sentiero che attraversava la foresta con accanto Reece, O’Connor, Elden e i gemelli, Krohn alle loro spalle, uscendo pian piano dalla foresta al confine del Canyon. Il cuore gli batteva trepidante di attesa mentre raggiungevano il limitare del fitto bosco. Sollevò una mano, facendo cenno agli altri di restare in silenzio, e tutti si immobilizzarono dietro di lui.

Thor si guardò attorno e osservò la vasta distesa di spiaggia, cielo aperto e, ancora oltre, lo sconfinato mare giallo che li avrebbe portati verso le remote terre dell’Impero. Il mar Tartuvio. Non vedeva quelle acque dal viaggio del Cento. Era strano trovarsi di nuovo lì e questa volta per una missione che riguardava il destino dell’Anello.

Dopo aver attraversato il ponte sul Canyon, il breve tragitto attraverso le Terre Selvagge era stato tranquillo. Kolk e Brom avevano detto a Thor di cercare una piccola imbarcazione ormeggiata sulle rive del Tartuvio, attentamente nascosta sotto i rami di un immenso albero che si protendeva sul mare. Thor seguì le loro indicazioni alla lettera, e quando raggiunsero il confine del bosco, scorse la barca, ben nascosta e pronta per portarli dove dovevano andare. Si sentì sollevato.

Ma poi vide sulla sabbia di fronte all’imbarcazione sei soldati dell’Impero intenti a studiarla. Un settimo vi era salito a bordo. La barca era attraccata a riva, giaceva per metà sulla sabbia e per il resto della lunghezza veniva lambita e fatta dondolare dalle onde. Non ci sarebbe dovuto essere nessuno lì.

Era un colpo di sfortuna. Scrutando verso l’orizzonte, Thor vide la lontana sagoma di quella che sembrava essere l’intera flotta dell’Impero: migliaia di navi scure con la bandiera nera dell’Impero. Fortunatamente non stavano navigando verso di loro, ma verso un’altra direzione, come se stessero percorrendo la lunga rotta circolare che portava a fare il giro dell’Anello, verso la parte dei McCloud, dove avevano oltrepassato il Canyon. Fortunatamente quell’armata era occupata con un diverso obiettivo.

Eccetto quella pattuglia. Quei sei soldati dell’Impero, probabilmente scorte in una missione di routine, che in qualche modo si erano imbattuti nella barca della Legione. Non era il momento opportuno. Se Thor e gli altri avessero solo raggiunto la riva pochi minuti prima, si sarebbero probabilmente già imbarcati e avrebbero salpato. Ora avevano uno scontro tra le mani. Non c’era modo di evitarlo.

Thor esaminò la spiaggia in tutte le direzioni e non vide altri contingenti dell’Impero. Almeno questo era a loro favore. Probabilmente si trattava di un gruppetto solitario.

“Pensavo che la barca dovesse essere ben nascosta,” disse O’Connor.

“Probabilmente non lo era abbastanza,” sottolineò Elden.

I sei rimasero ad osservare la barca e il gruppo di soldati nemici dai loro cavalli.

“Non ci vorrà molto perché diano l’allarme alle altre truppe dell’Impero,” osservò Conven.

“E allora avremo una guerra bella e buona da combattere,” aggiunse Conval.

Thor sapeva che avevano ragione. E che non era un rischio da correre.

“O’Connor,” disse Thor, “tra tutti noi sei quello con la mira migliore. Ti ho visto tirare da cinquanta metri. Vedi quello sulla prua? Abbiamo un tiro a disposizione. Ce la puoi fare?”

O’Connor annuì seriamente, gli occhi fissi sul soldato dell’Impero. Allungò con scioltezza una mano dietro la spalla, sollevò l’arco, posizionò una freccia e lo tenne pronto.

Stavano tutti guardando Thor e lui si sentiva pronto a dare il via.

“O’Connor, al mio segnale, tira. Poi noi ci butteremo su quelli più sotto. Tutti gli altri usino le loro armi da lancio non appena saremo vicini. Prima di tutto cercate di avvicinarvi il più possibile.”

Thor fece un gesto con la mano e subito O’Connor lasciò la corda.

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