Gli strinse la mano, e il suo cuore si spezzò quando si rese conto che stava ingenuamente aspettando che lui gliela stringesse a sua volta. Lo fissò supplicante, sospirò, e poi prese il cellulare. Prima di uscire dalla stanza, lanciò un’occhiata alla televisione. Afferrò il telecomando per spegnerla e fu salutata dal volto che aveva cercato con tanto impegno di ignorare nelle ultime due settimane.
Howard Randall la fissava, la sua foto segnaletica riempiva mezzo schermo mentre un presentatore dall’aria seria leggeva qualcosa su un telesuggeritore. Avery spense la televisione per il disgusto e uscì rapidamente dalla stanza, come se l’immagine di Howard sullo schermo fosse stata un fantasma, teso ad afferrarla.
***
Sapere che Ramirez era stato pronto a trasferirsi da lei (e, a giudicare dall’anello che era stato scoperto nella sua tasca dopo che era stato colpito, a chiederle di sposarlo) rese il suo ritorno a casa un’esperienza tetra. Quando entrò nell’appartamento, si guardò intorno con aria assente. Il posto le sembrava morto. Dava la sensazione che nessuno vi avesse vissuto per anni, un’abitazione in attesa di essere svuotata, ridipinta e affittata a qualcun altro.
Pensò di chiamare Rose. Sarebbero potute stare un po’ insieme e mangiare una pizza. Ma sapeva che la figlia avrebbe voluto parlare di quello che stava succedendo e Avery non era ancora pronta. Di solito elaborava le cose piuttosto rapidamente, ma quella era diverso. Ramirez tra la vita e la morte e Howard in libertà… era troppo.
Tuttavia… anche se l’appartamento non le sembrava più una casa, non vedeva l’ora di stendersi sul divano. E il letto aveva il suo nome scritto sopra.
È ovvio che questa sia ancora casa tua, pensò. Solo perché Ramirez potrebbe non farcela e non venire mai a vivere qui con te, non significa che non sia più casa tua. Non essere così maledettamente drammatica.
Ed eccolo lì, chiaro come il giorno. Fino ad allora era riuscita evitare di pensare alla realtà, ma così esplicitata, era più traumatizzante di quanto avesse previsto.
Con aria mogia si diresse verso il bagno. Si spogliò, entrò nella vasca tirando le tende, e aprì l’acqua calda. Rimase ferma per diversi minuti senza toccare il sapone o lo shampoo, lasciando che l’acqua le sciogliesse i muscoli. Quando ebbe finito di lavarsi, chiuse la doccia, mise il tappo e fece scorrere l’acqua calda nella vasca. Mentre la riempiva si sedette, permettendosi di rilassarsi.
Quando l’acqua arrivò all’orlo, quasi sul punto di rovesciarsi oltre il lato della vasca, chiuse il rubinetto con un dito del piede. Chiuse gli occhi e si mise comoda.
L’unico suono nell’appartamento era il lento e ritmico gocciolio dell’acqua in eccesso dal rubinetto, e il suo respiro.
E poco dopo, un terzo rumore: il pianto di Avery.
Per la maggior parte si era controllata, non volendo mostrare quel lato di sé in ospedale e non volendo che Ramirez la sentisse, se ne era in grado. Qualche volta si era nascosta nel bagno della sua stanza a piangere per un po’, ma non aveva mai lasciato che le lacrime scendessero tanto liberamente.
Singhiozzò nella vasca da bagno e, così come la possibilità che Ramirez non ce la facesse, anche il pianto fu più traumatizzante di quanto non avesse previsto.
Continuò a piangere e non uscì dalla vasca fino a quando l’acqua non divenne tiepida e i piedi e le mani iniziarono a raggrinzirsi. Quando finalmente emerse, profumata nuovamente come un essere umano e idratata dal vapore, si sentiva molto meglio.
Dopo essersi vestita si prese persino il tempo di truccarsi un po’ e di dare un’aria presentabile ai propri capelli. Poi si avventurò in cucina, si versò una tazza di cereali per fare un pranzo tardivo e controllò il telefono, che aveva lasciato sul bancone della cucina.
A quanto pare, era stata piuttosto popolare mentre era in bagno.
Aveva ricevuto tre messaggi vocali e otto messaggi di testo. Venivano tutti da numeri che conosceva. Due erano linee telefoniche della centrale. Gli altri erano di Finley e Connelly. Uno dei messaggi era di O’Malley. Era stato l’ultimo ad arrivare, sette minuti prima, e andava dritto al punto. Il messaggio diceva: Avery, sarà meglio che tu risponda al tuo telefono del cazzo se ti importa del tuo lavoro!
Sapeva che era un bluff, ma il fatto che O’Malley, tra tutti, le avesse scritto, significava che stava succedendo qualcosa. O’Malley scriveva molto raramente. Doveva essere in ballo qualcosa di grosso.
Non si prese la briga di controllare i messaggi vocali. Invece chiamò Connelly. Non voleva parlare con Finley perché l’agente girava troppo intorno agli argomenti scomodi. E non aveva alcuna intenzione di parlare con O’Malley mentre era di cattivo umore.
Connelly rispose al secondo squillo. “Avery. Gesù… dove diavolo sei stata?”
“Nella vasca da bagno.”
“Sei al tuo appartamento?”
“Sì. È un problema? Ho visto un messaggio di O’Malley. Un messaggio. Che sta succedendo laggiù?”
“Senti… potremmo avere un grosso caso per le mani e se te la senti, vorremmo che venissi a lavoro. A dir la verità… anche se non te la senti, O’Malley ti vuole qui.”
“Perché?” chiese lei, incuriosita. “Che cosa c’è?”
“Ecco… vieni in centrale e basta, va bene?”
Lei sospirò, rendendosi conto che non le dispiaceva l’idea di tornare a lavoro. Forse le avrebbe dato un po’ di carica. Magari l’avrebbe tirata fuori dalla depressione in cui si era crogiolata nelle ultime due settimane.
“Che cosa c’è di così maledettamente importante?” domandò.
“C’è stato un omicidio,” disse “E siamo abbastanza certi che sia stato Howard Randall.”
CAPITOLO DUE
L’ansia di Avery raggiunse il culmine quando arrivò alla centrale. Ovunque c’erano furgoni, completi di giornalisti e presentatori che lottavano per raggiungere le posizioni migliori. C’era così tanta confusione nel parcheggio e nel viale che all’ingresso erano stati mandati agenti in uniforme per tenerla a bada. Avery si diresse verso il retro per raggiungere l’altro ingresso, lontano dalla strada, e vide che anche lì si era parcheggiato qualche furgone dei notiziari.
Tra gli agenti che cercavano di mantenere la calma dietro al palazzo, vide Finley. Quando lui notò la sua auto, si allontanò dalla folla per farle segno, indicandole di avvicinarsi. A quanto pareva, Connelly lo aveva mandato fuori come una specie di guardia, per assicurarsi che riuscisse ad attraversare la ressa di gente.
Lei parcheggiò l’auto e si diresse il più rapidamente possibile verso l’ingresso sul retro. Finley le si affiancò immediatamente. Per via del suo passato come avvocato e dei casi ad alto profilo che aveva seguito da detective, Avery sapeva di avere un volto che le truppe televisive locali riconoscevano facilmente. Fortunatamente grazie a Finley, nessuno riuscì a darle una bella occhiata fino a quando non fu sospinta attraverso la porta sul retro.
“Che diavolo sta succedendo? Abbiamo preso Randall?” chiese Avery.
“Mi piacerebbe molto dirti che cosa è successo,” rispose Finley. “Ma O’Malley mi ha raccomandato di stare zitto. Vuole essere il primo a parlare con te.”
“Mi sembra giusto, suppongo.”
“Come stai, Avery?” chiese Finley mentre si dirigevano rapidamente verso la sala conferenze vicina al retro del quartier generale dell’A1. “Voglio dire, per la faccenda di Ramirez?”
Lei fece del suo meglio per sembrare noncurante. “Sto bene. La sto affrontando.”
Finley capì l’antifona e lasciò perdere quell’argomento. Camminarono in silenzio fino alla sala conferenze.
Avery si aspettava che la stanza fosse piena come il parcheggio. Era certa che un caso in cui fosse coinvolto Howard Randall avrebbe radunato ogni agente disponibile in quella sala. Invece, quando entrò insieme a Finley, vide solo Connelly e O’Malley seduti al grande tavolo. I due uomini già presenti le lanciarono espressioni che in qualche modo erano l’una opposta dell’altra; lo sguardo di Connelly era preoccupato mentre quello di O’Malley sembrava dire Che diavolo devo fare con te adesso?
Quando si sedette, si sentì coma una scolaretta spedita nell’ufficio del preside.
“Grazie per essere venuta così in fretta,” esordì O’Malley. “So che stai passando un periodo infernale. E credimi… ti ho voluta qui solo perché ho pensato che volessi essere coinvolta in quello che sta succedendo.”
“Howard ha davvero ucciso qualcuno?” chiese lei. “Come fate a saperlo? Lo avete preso?”
I tre uomini si scambiarono un’occhiata imbarazzata intorno al tavolo. “No, non esattamente,” rispose Finley.
“È successo la notte scorsa,” spiegò Connelly.
Avery sospirò. Era vero che si era aspettata di sentire una cosa del genere al telegiornale o in un messaggio dell’A1. Tuttavia… l’uomo che aveva imparato a conoscere attraverso un tavolo in prigione, chiedendogli pareri e consigli, non le era sembrato capace di uccidere. Era strano… lei lo conosceva grazie al suo passato da avvocato e sapeva che lo era. Lo aveva fatto molte volte; c’erano undici omicidi collegati al suo nome quando era andato in prigione, e si diceva che ce ne sarebbero stati molti altri se solo ci fosse stata qualche prova in più. Ma la notizia la sconvolse ugualmente nonostante fosse assolutamente prevedibile.
“Siamo certi che sia stato lui?” chiese.
O’Malley fu subito in imbarazzo. Emise un sospiro e si alzò dalla sedia, iniziando a camminare avanti e indietro.
“Non abbiamo nessuna prova certa. Ma era una studentessa del college e l’omicidio è abbastanza cruento da farci pensare che sia opera di Randall.”
“Avete già aperto un fascicolo?” volle sapere.
“Lo stiamo mettendo insieme adesso e…”
“Posso vederlo?”
Di nuovo, Connelly e O’Malley si scambiarono uno sguardo incerto. “Non serve che ti concentri troppo su questo caso,” spiegò O’Malley. “TI abbiamo chiamata perché conosci quello psicopatico meglio di chiunque altro. Ma non è un invito a occupartene. Hai troppe cose per la testa in questo momento.”
“Apprezzo il pensiero. Avete delle foto della scena del crimine che posso vedere?”
“Le abbiamo,” rispose O’Malley. “Ma sono piuttosto macabre.”
Avery non disse niente. Era già abbastanza irritata che l’avessero chiamata a rapporto con tutta quella urgenza e che la stessero trattando come una bambina.
“Finley, potresti andare nel mio ufficio a prendere il materiale che abbiamo?” chiese O’Malley.
Finley si alzò, obbediente come sempre. Mentre lo guardava uscire, Avery si rese conto che le due settimane che aveva passato in uno stato di lutto incerto le erano sembrate più lunghe. Amava il suo lavoro e quel posto le era mancato da morire. Trovarsi vicino a quel meccanismo ben oliato le stava migliorando l’umore, anche se era solamente una fonte di informazioni per O’Malley e Connelly.
“Come sta Ramirez?” chiese O’Malley. “L’ultima notizia che ho ricevuto risale a due giorni fa ed era sempre uguale.”
“Sempre uguale,” rispose lei con un sorriso tirato. “Nessuna cattiva notizia, nessuna buona notizia.”
Fu sul punto di raccontar loro dell’anello che le infermiere gli avevano trovato in tasca, l’anello di fidanzamento che Ramirez aveva deciso di offrirle. Forse li avrebbe aiutati a capire perché si sentiva così coinvolta dalla sua ferita e aveva deciso di rimanergli accanto tutto il tempo.
Prima che la conversazione potesse progredire, Finley tornò nella stanza con una cartella che non conteneva molto. La appoggiò davanti a lei, ricevendo un cenno di approvazione da parte di Connelly.
Avery l’aprì e guardò le foto. In tutto ce n’erano sette, e O’Malley non aveva esagerato. Le immagini erano decisamente allarmanti.
C’era sangue ovunque. La ragazza era stata trascinata in un vicolo e spogliata fino alle mutande. Il suo braccio destro sembrava rotto. Aveva i capelli biondi, anche se la maggior parte era sporca di sangue. Avery cercò ferite da proiettile o coltellate ma non ne vide nessuna. Solo quando raggiunse la quinta foto, con un primo piano del volto della ragazza, capì il metodo dell’uccisione.
“Chiodi?” chiese.
“Già,” replicò O’Malley. “E da quello che siamo riusciti a capire, sono stati infilati con una tale forza e precisione che deve aver usato una di quelle sparachiodi pneumatiche. Abbiamo incaricato la Scientifica di occuparsene, quindi per ora possiamo solo fare ipotesi sull’ordine con cui è successo. Crediamo che il primo colpo sia stato quello proprio dietro l’orecchio sinistro. Deve essere stato sparato da una certa distanza perché non l’ha trapassata completamente. Le ha perforato il cranio, ma per adesso è tutto quello che sappiamo.”
“E se non è stato quel colpo a ucciderla,” continuò Connelly, “di certo è stato quello che l’ha presa di traverso sotto la mascella. È entrato attraverso il fondo della bocca, è passato nel palato ed è penetrato nella cavità nasale fino al cervello.”
La violenza implicata fa pensare davvero a Howard Randall, rifletté Avery. È innegabile.
Ma c’erano altri dettagli nelle immagini che non combaciavano con quello che sapeva di Howard. Studiò le foto, scoprendo che nonostante tutti i casi che aveva visto, quelle erano tra le più sanguinose e sconvolgenti.
“Quindi di preciso cosa vi serve da me?”
“Come ho detto…conosci quest’uomo piuttosto bene. In base a quello che sai, vorrei sapere dove potrebbe nascondersi. Credo che possiamo dire per certo che sia rimasto in città, a giudicare dall’omicidio.”
“Non è pericoloso dare per scontato che sia opera di Howard Randall?”
“Due settimane dopo che evaso di prigione?” chiese O’Malley. “No. Direi che combacia tutto ed è chiaramente opera sua. Vuoi andare a rivedere le foto delle scene dei crimini dei suoi casi?”
“No,” rispose Avery con un certo veleno. “Non mi serve.”
“Quindi che cosa puoi dirci? Lo stiamo cercando da due settimane e non abbiamo ancora scoperto niente.”
“Pensavo che avessi detto che non mi volevi sul caso.”
“Mi servono i tuoi consigli e la tua assistenza,” ribadì O’Malley.
Qualcosa in quella richiesta era quasi offensivo, ma discutere non avrebbe avuto senso. Oltretutto, in quel modo avrebbe potuto concentrarsi su qualcosa che non fosse la situazione di Ramirez.
“Tutte le volte che ho parlato con lui, non mi ha mai dato una semplice risposta. Era sempre una specie di indovinello. Lo faceva per provocarmi, perché avrei dovuto impegnarmi per avere la soluzione. Lo faceva anche per divertirsi. Sinceramente credo che mi vedesse come una specie di conoscente. Non davvero un’amica, ma qualcuno con cui poteva avere uno scambio a un livello intellettuale.”
“E non ce l’ha mai avuta con te per tutto la storia di quando sei stata il suo avvocato?”
“Perché avrebbe dovuto essere arrabbiato con me?” chiese lei. “L’ho fatto scagionare… l’ho liberato. Ricordi, praticamente dopo si è costituito. Ha ucciso di nuovo solo per far vedere quanto fossi incompetente.”
“E invece quelle tue visite in prigione… ne era felice?”
“Sì. E a essere sincera non l’ho mai capito. Credo fosse una questione di rispetto. E per quanto possa sembrare stupido, penso che una parte di lui si sia sempre pentita per quell’ultimo omicidio, per avermi fatto sembrare una sciocca al processo.”
“E ha mai parlato di tentativi di fughe durante le tue visite?” chiese Connelly.
“No. Lì dentro si trovava bene. Nessuno lo infastidiva. Tutti provavano una specie di timore per lui. Paura, forse. Ma era praticamente il re di quel posto.”
“Allora perché sarebbe evaso?” insistette O'Malley.
Avery sapeva dove stava andando a parare, che cosa stava cercando di farle dire. E il problema era che aveva senso. Howard sarebbe evaso solo se avesse avuto qualcosa da fare all’esterno. Qualche questione in sospeso. O forse era semplicemente annoiato.