Riley non rispose. Questo era proprio da Ryan, rigirare le sue parole per provare a manipolarla.
“Come sta April?” riprese l'uomo.
Lei quasi sbuffò con una risata. Sapeva che stava provando ad avere una sorta di conversazione.
“E’ carino da parte tua chiedere” Riley rispose sarcasticamente. “Lei sta bene.”
Naturalmente, era una bugia. Ma coinvolgere Ryan nelle questioni poteva solo peggiorare le cose.
“Ascolta, Riley …” la voce di Ryan si bloccò. “Ho commesso molti errori.”
Sul serio, pensò Riley. Ma restò in silenzio.
Dopo alcuni istanti, Ryan proseguì: “Le cose non sono andate bene per me di recente.”
Riley continuò a restare in silenzio.
“Ecco, volevo solo assicurarmi che tu ed April steste bene.”
Riley riusciva a malapena a credere al suo coraggio.
“Stiamo bene. Perché lo chiedi? Una delle tue ragazze se n’è andata, Ryan? O le cose stanno andando male in ufficio?”
“Sei davvero dura con me, Riley.”
La donna pensava di essere stata il più gentile possibile. Ora aveva compreso tutto: Ryan doveva essere solo. L’alta società, di cui era entrato a far parte dopo il divorzio, doveva averlo lasciato, o qualche nuova relazione doveva essere andata a finire male.
Sapeva che Ryan non sopportava di stare solo. Era sempre tornato da Riley ed April come ultima spiaggia. Se lo avesse lasciato tornare, sarebbe durata solo fino a quando un’altra donna avesse catturato la sua attenzione.
Riley disse: “Credo che dovresti sistemare le cose con la tua ultima ragazza. O quella prima ancora. Non so nemmeno quante ce ne siano state, da quando abbiamo divorziato. Quante, Ryan?”
La donna sentì un lieve sussulto al telefono. Riley aveva senz’altro toccato il tasto giusto.
“Ryan, la verità è che questo non è un buon momento.”
Era vero. Aveva appena fatto una piacevole visita ad un uomo che le piaceva. Perché rovinare tutto adesso?
“Quando sarà un buon momento?” le chiese Ryan.
“Non lo so” fu la risposta. “Te lo farò sapere. Ciao.”
Mise fine alla telefonata. Si accorse che stava camminando avanti e indietro sin da quando aveva cominciato a parlare con l’ex.
Si sedette e fece alcuni brevi respiri per calmarsi.
Poi, inviò un sms ad April.
Faresti meglio a tornare subito a casa.
Trascorsero solo pochi secondi, prima di ottenere una risposta.
OK. Sto arrivando. Mi dispiace, mamma.
Riley sospirò. April sembrava star bene ora. Probabilmente lo sarebbe stata per un po’. Ma qualcosa non andava.
Che cosa le stava succedendo?
CAPITOLO CINQUE
Nel suo rifugio scarsamente illuminato, Scratch correva freneticamente avanti e indietro tra le centinaia di orologi, provando a preparare ogni cosa. Mancavano pochi minuti a mezzanotte.
“Sistema quello con il cavallo!” il nonno gridò. “E’ di un minuto indietro!”
“Lo faccio subito” rispose Scratch.
Sapeva che sarebbe stato punito comunque, ma sarebbe andata decisamente peggio se non avesse preparato tutto in tempo. In quel momento, aveva le mani piene degli altri orologi.
Sistemò quello con l’incurvatura formata da fiori metallici, che aveva finito per restare indietro di ben cinque minuti. Poi, aprì un pendolo e spostò la lancetta dei minuti solo un po’ più a destra.
Fu il turno del grande orologio con in cima delle corna di cervo. Spesso restava indietro, ma ora sembrava a posto. Infine, fu in grado di sistemare quello con il cavallo rampante. Anche questa era una cosa positiva. Era indietro di ben sette minuti.
“Questo basterà” il nonno brontolò. “Sai che cosa fare dopo.”
Scratch andò obbedientemente al tavolo e tirò su la frusta. Era un gatto a nove code, e il nonno aveva iniziato a picchiarlo, quando lui era troppo giovane per ricordare.
Si recò verso la fine del covo, dove era posizionata una recinzione metallica; al di là c’erano le quattro ragazze catturate, senza alcun mobile ad eccezione di brande di legno senza materassi. Un armadio, dietro di loro, era la loro latrina. Il tanfo aveva cessato di infastidire Scratch molto tempo prima.
La donna irlandese che lui aveva preso due notti fa lo stava osservando attentamente. Dopo la loro lunga dieta a base di briciole ed acqua, le altre erano straziate e stanche. Due di esse raramente facevano qualcosa d'altro se non piangere e lamentarsi. La quarta era seduta sul pavimento accanto alla recinzione, raggrinzita e cadaverica. Non esprimeva alcun suono. Sembrava a malapena viva.
Scratch aprì la porta della gabbia. L’irlandese si fece avanti, provando a fuggire. Scratch la colpì brutalmente al volto con la frusta e la donna rinunciò, tornando indietro. La frustò più volte sulla schiena. Sapeva - per esperienza - che le avrebbe fatto molto male, persino attraverso la camicetta stracciata, specialmente quando avesse colpito sui lividi e sui tagli che già le aveva procurato.
Poi un frastuono riempì l’aria: tutti gli orologi si misero a suonare la mezzanotte. Scratch sapeva che cosa doveva fare ora.
Mentre il frastuono continuava, tornò rapidamente dalla ragazza più debole e più magra, quella che sembrava a malapena viva. Lei lo guardò con una strana espressione. Era l’unica che era stata lì abbastanza a lungo da sapere che cosa l’uomo stava per fare. Sembrava quasi che lei fosse pronta per quello, forse gliene era persino grata.
L’uomo non ebbe esitazioni.
Si accovacciò accanto a lei, e le spezzò il collo.
Mentre la vita lasciava il suo corpo, lui stette a guardare un antico orologio intarsiato, appeso proprio di fronte alla recinzione. Una Morte scolpita a mano decorava la parte anteriore e posteriore dell’orologio: indossava un manto scuro con cappuccio, da cui emergeva un sorridente volto scheletrico ed appariva intenta ad abbattere cavalieri, re, regine e plebei. Era l’orologio preferito di Scratch.
Il rumore circostante scemò lentamente. Presto, non ci fu più alcun suono ad eccezione del coro di lancette ticchettanti e dei singhiozzi delle donne sopravvissute.
Scratch prese la ragazza morta sulle spalle. Era leggera come una piuma, tanto che non fece alcuno sforzo. Aprì la gabbia e ne uscì, richiudendola dietro di sé.
Sapeva che era giunto il momento.
CAPITOLO SEI
Davvero una buona interpretazione, pensò Riley.
La voce di Larry Mullins tremava un po’. Dopo aver letto la dichiarazione, preparata per la commissione, chiamata a decidere della sua richiesta di libertà condizionale, e per le famiglie delle vittime, sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.
“Ho avuto quindici anni di tempo per ricordare quello che ho fatto” disse Mullins. “Non passa un giorno in cui non sia pieno di rimorso. Non posso tornare indietro e cambiare quello che è successo. Non posso riportare Nathan Betts e Ian Harter in vita. Ma ho davanti degli anni, in cui potrei dare un significativo contributo alla società. Per favore, datemi una possibilità di farlo.”
Mullins si sedette. Prese il fazzoletto, che gli aveva porto il suo avvocato, e fece per asciugarsi le lacrime ma Riley non ne vide sgorgare.
Il consigliere relatore e il coordinatore parlottarono tra loro. Altrettanto fecero i membri della commissione per la libertà condizionale.
Riley sapeva che presto sarebbe stato il suo turno di testimoniare. Intanto, studiò il volto di Mullins.
Lei lo ricordava bene, e non le parve molto cambiato.
Anche a suo tempo si era presentato bene ed aveva parlato appropriatamente, con una sincera aria d’innocenza intorno a sé. Se ora si era indurito, nascondeva tutto dietro la sua espressione di dolore. A quei tempi, aveva lavorato come tata.
Riley fu molto colpita da quanto poco fosse invecchiato. Aveva venticinque anni quando era finito in prigione. Aveva ancora la stessa espressione, amabile e giovanile, di allora.
Lo stesso non valeva per i genitori delle vittime. Le due coppie sembravano essere prematuramente invecchiate, e distrutte nello spirito. Il cuore di Riley doleva per tutti i loro anni di dolore e dispiacere.
Avrebbe voluto fare qualcosa di buono per loro sin dal principio. Così come il suo primo partner, Jake Crivaro. Quello era stato uno dei primi casi di Riley, come agente, e Jake si era rivelato un buon mentore.
Larry Mullins era stato arrestato per l’omicidio di un bambino in un parco giochi. Durante le loro indagini, Riley e Jake scoprirono che un altro bambino era morto in circostanze quasi identiche, mentre era affidato a Mullins in una diversa città. Entrambi erano stati soffocati.
Quando Riley aveva arrestato Mullins, gli aveva letto i suoi diritti e lo aveva ammanettato, l’uomo aveva ostentato una espressione sorridente e compiaciuta; aveva fatto tutto tranne che ammettere la sua colpa.
“Buona fortuna” era arrivato a dirle sarcasticamente.
In effetti, le cose in un primo momento erano andate male per Riley e Jake, fin da quando l’uomo era stato messo agli arresti. Lui aveva fermamente negato di aver commesso gli omicidi. E, nonostante tutti gli sforzi di Riley e Jake, le prove contro di lui restavano pericolosamente poche. Era stato impossibile determinare il modo esatto in cui i ragazzi erano stati soffocati, e nessuna arma del delitto era stata trovata. Lo stesso Mullins aveva soltanto ammesso di averli persi di vista. Aveva negato di averli uccisi.
Riley ricordò le parole che il pubblico ministero aveva detto a lei e Jake.
“Dobbiamo stare attenti, o il bastardo se la caverà. Se proviamo ad incriminarlo per ogni possibile accusa, perderemo. Non possiamo provare che Muslims fosse l’unica persona ad avere accesso ai bambini, quando sono stati uccisi.”
Infine giunse il patteggiamento. Riley li odiava.
La sua avversione era cominciata con quel caso.
L’avvocato di Mullins propose un accordo: si sarebbe dichiarato colpevole di entrambi gli omicidi, ma senza premeditazione, e le sentenze avrebbero avuto corso simultaneamente.
Fu un patteggiamento disgustoso. Non aveva neanche senso. Se Mullins aveva ucciso davvero i bambini, come poteva essere soltanto negligente? Le due conclusioni erano completamente contraddittorie. Ma il pubblico ministero non ebbe altra scelta che accordare il patteggiamento. Mullins accettò la condanna a trent’anni di prigione con la possibilità di libertà condizionale, o il rilascio anticipato per buona condotta.
Le famiglie erano rimaste inorridite, distrutte. Avevano criticato Riley e Jake per non aver svolto il proprio lavoro. Jake si era dimesso alla chiusura del caso, amareggiato e arrabbiato.
Riley aveva promesso alle famiglie dei ragazzi che avrebbe fatto di tutto pur di mantenere Mullins dietro le sbarre. Pochi giorni prima, i genitori di Nathan Bett avevano chiamato Riley per dirle della richiesta di libertà condizionale. Era giunto il momento di mantenere la sua promessa.
I mormorii cessarono e il consigliere relatore, Julie Simmons, guardò Riley.
“So che l’Agente Speciale dell’FBI Riley Paige vorrebbe rilasciare una dichiarazione” disse.
Riley deglutì forte. Era arrivato il momento a cui si stava preparando da ben quindici anni. Sapeva che la commissione conosceva bene gli elementi di prova, incompleti com’erano. Non si poteva discuterne ancora. Lei doveva fare un appello più personale.
Si alzò e parlò.
“Comprendo che Larry Mullins è adeguato alla libertà condizionale, perché è un ‘prigioniero esemplare’”. Con una nota d’ironia, aggiunse: “Signor Mullins, mi congratulo con lei per il risultato ottenuto.”
Mullins annuì, col volto che non mostrava alcuna espressione. Riley proseguì.
“‘Condotta esemplare’—che cosa significa, esattamente? Mi sembra che più a che fare con quello che non ha fatto rispetto a quello che ha fatto. Non ha trasgredito le regole della prigione. Si è comportato bene. Ecco tutto.”
Riley lottò per mantenere ferma la propria voce.
“Francamente, non ne sono sorpresa. Non ci sono bambini in prigione che lui possa uccidere.”
Ci furono sussulti e mormorii nella stanza. Il sorriso di Mullins si trasformò in uno sguardo fisso.
“Chiedo scusa” aggiunse Riley. “Mi rendo conto che Mullins non si è mai dichiarato colpevole di omicidio premeditato, e l’accusa non ha mai ottenuto quel verdetto. Ma nondimeno si è dichiarato colpevole. Ha ucciso due bambini. Non può essere che l’abbia fatto con buone intenzioni.”
Poi, fece una pausa, per un momento, scegliendo con cura le parole successive. Avrebbe voluto indurre Mullins a mostrare la sua rabbia, a esporre il suo vero io. Ma, naturalmente, l’uomo sapeva bene che, se avesse ceduto alla provocazione, avrebbe rovinato il suo registro di buona condotta e non sarebbe mai uscito di prigione. La sua miglior strategia era sottoporre alla commissione la realtà di ciò che l’uomo aveva fatto.
“Ho visto il corpo privo di vita di Ian Harter, di quattro anni, il giorno dopo che è stato ucciso. Sembrava che si fosse addormentato con gli occhi aperti. La morte lo aveva privato di ogni espressione, e il suo viso era fiacco e pacifico. Nonostante ciò, potevo ancora vedere il terrore nei suoi occhi senza vita. I suoi ultimi momenti su questa terra sono stati pieni di terrore. Lo stesso è stato per il piccolo Nathan Betts.”
Riley sentì entrambe le madri iniziare a piangere. Odiava riportare in vita vecchi amari ricordi, ma non aveva proprio altra scelta.
“Non dobbiamo dimenticare il loro terrore” disse Riley. “E non dobbiamo dimenticare che Mullins ha mostrato poche emozioni durante il suo processo, e certamente nessun segno di rimorso. Quest’ultimo è arrivato, molto, molto più tardi — sempre che sia vero.”
Riley fece un lungo e lento respiro.
“Quanti anni di vita ha tolto a quei ragazzi, se li metteste insieme? Molto, molto più di un centinaio, mi sembra. Ha ottenuto una sentenza di trent’anni. Ne ha solo scontati quindici. Non è abbastanza. Non vivrà mai abbastanza per pagare tutti quegli anni perduti.”
La voce di Riley ora tremava. Sapeva di doversi controllare. Non poteva scoppiare in lacrime o gridare per la rabbia.
“E’ arrivato il momento di perdonare Larry Mullins? Questo lo lascio decidere alle famiglie dei ragazzi. Non è del perdono che tratta questa udienza. Non è questo il punto. Il punto davvero importante è il pericolo che ancora rappresenta. Non possiamo rischiare che altri bambini muoiano per mano sua.”
Riley notò che un paio dei membri della commissione stavano guardando l’orologio e si preoccupò. Avevano già esaminato altri due casi quel mattino e altri quattro dovevano essere portati a termine prima di mezzogiorno. Stavano diventando impazienti. Riley doveva terminare immediatamente. Li guardò dunque tutti negli occhi.
“Signore e signori, vi imploro di non concedere questa libertà condizionale.”
Poi, aggiunse: “Forse qualcun altro vorrebbe parlare a nome del detenuto.”
Riley si sedette. Le sue ultime parole erano state a doppio taglio. Sapeva perfettamente che nessuno era lì per parlare in difesa di Mullins. Nonostante la sua “buona condotta”, non aveva ancora un amico o un difensore al mondo. E Riley era sicura che non ne meritasse neanche uno.
“Qualcun altro vuole parlare?” l’uditore chiese.
“Vorrei aggiungere soltanto poche parole” una voce in fondo alla stanza disse.
Riley sussultò. Conosceva bene quella voce.
Si girò sulla sedia, e vide le sembianze a lei familiari di uomo basso e dal grosso petto, seduto in fondo alla stanza. Si trattava di Jake Crivaro, l’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere oggi. Riley era felice e sorpresa.