Disponeva di venti cartucce, ma intendeva utilizzarne solo una, quando sarebbe stato il momento di sparare.
Avrebbe fatto fuori Barton con un colpo solo, o nessuno.
Sentiva l’energia del branco, come se lo stessero osservando, dandogli il loro sostegno.
Seguì Barton giungere finalmente alla sua destinazione, uno dei campi da tennis esterni della base. Diversi altri giocatori lo accolsero, mentre entrava in campo e prendeva la sua attrezzatura da tennis.
Ora che Barton era in un’area illuminata, il lupo non aveva più bisogno di utilizzare il mirino notturno. Lo sostituì con un visore ottico diurno. Poi, prese la mira, puntando direttamente alla testa di Barton. L’immagine non risultava più sgranata, ma cristallina e i colori risultavano vividi.
Barton distava circa trenta metri ora.
A quella distanza, il lupo poteva contare sulla precisione del fucile, fino a un centimetro.
Spettava a lui restare in quel centimetro.
E sapeva che ci sarebbe riuscito.
Solo una lieve pressione del grilletto, pensò.
Adesso era tutto ciò che gli serviva.
Il lupo si crogiolò in quel misterioso momento di sospensione.
C’era qualcosa di quasi religioso in quei secondi, prima di premere il grilletto, quando aspettava di decidere di sparare, aspettava di decidere di premere con il dito. In quell’istante, vita e morte sembravano stranamente fuori dalla portata delle sue mani. L’irrevocabile movimento si sarebbe innescato nella pienezza di un istante.
Sarebbe stata la sua decisione, e al contempo, non la sua decisione.
Allora di chi era tale decisione?
Immaginava che ci fosse un animale, un vero lupo, celato dentro di sé, una creatura crudele che prendeva il pieno comando in quel momento, e movimento, fatali.
Quell’animale era sia suo amico, sia suo nemico. E lo amava di un amore strano, che poteva provare soltanto nei confronti di un nemico mortale. Quell’animale dentro di sé era ciò che faceva emergere il meglio di lui, rendendolo davvero accettabile.
Il lupo giaceva in attesa di quell’animale per colpire.
Ma l’animale non lo fece.
Il lupo non premette il grilletto.
Si chiese perché.
C’è qualcosa che non va, l’uomo pensò.
Comprese rapidamente di che cosa si trattasse.
Vedere il bersaglio nel campo da tennis illuminato attraverso il mirino regolare era semplicemente troppo facile.
Avrebbe richiesto davvero il minimo sforzo.
Non c’era alcun ostacolo.
Non sarebbe stato degno di un vero lupo.
Inoltre, era passato troppo poco tempo dall’ultimo omicidio. Gli altri erano stati distanziati, per suscitare ansia e incertezza tra gli uomini che lui detestava. Sparare a Barton ora avrebbe minato il ritmico impatto psicologico della sua opera.
Sorrise un po’, rendendosene conto. Si alzò in piedi con il suo fucile, e cominciò a tornare indietro, nella direzione da cui era venuto.
Gli parve giusto lasciare la sua preda indisturbata per ora.
Nessuno sapeva quando avrebbe colpito di nuovo.
Nemmeno lui stesso.
CAPITOLO SETTE
Era ancora buio, quando il volo di linea di Riley decollò. Ma, anche calcolando il fuso orario, sapeva che sarebbe stato giorno a San Diego, al suo arrivo. Sarebbe stata in aria, per più di cinque ore e già si sentiva piuttosto stanca. Doveva essere completamente operativa l’indomani mattina, quando avrebbe raggiunto Bill e Lucy per le indagini. Ci sarebbe stato del lavoro serio di cui occuparsi, e aveva bisogno di prepararsi ad affrontarlo.
Farei meglio a dormire un po’, pensò Riley. La donna seduta accanto a lei sembrava già essersi assopita.
Riley reclinò il sedile e chiuse gli occhi. Ma, invece di addormentarsi, finì per ricordare la recita di Jilly.
Sorrise, ricordando come la Persefone che l’adolescente aveva interpretato avesse colpito Ade sulla testa, e fosse fuggita dagli Inferi, per vivere la vita a modo proprio.
Il ricordo della prima volta che aveva incontrato Jilly fece venire a Riley una fitta al cuore. Era successo una notte ad una fermata per camionisti a Phoenix. Jilly era scappata da una miserabile vita domestica, con un padre violento, e si era rifugiata in un camion parcheggiato. Intendeva davvero vendere il proprio corpo al camionista quando fosse tornato.
Riley rabbrividì.
Che cosa ne sarebbe stato di Jilly, se non si fosse imbattuta in lei quella notte?
Amici e colleghi avevano spesso detto a Riley che aveva fatto bene a portare Jilly nella sua vita.
E allora perché la cosa non la faceva sentire meglio? Invece, provava disperazione.
Dopotutto, c’erano numerose Jilly al mondo, e poche di esse venivano salvate da vite terribili.
Riley non poteva aiutarle tutte, tantomeno poteva liberare il mondo da tutti i malvagi assassini.
E’ tutto così inutile, pensò. Tutto quello che faccio.
Poi, aprì gli occhi e guardò fuori dal finestrino. Il jet si era lasciato alle spalle le luci di Washington DC, e fuori non c’era altro che un’impenetrabile oscurità.
Mentre scrutava nella notte buia, pensò al suo incontro quel giorno con Bill, Lucy e Meredith, e a quanto poco sapesse del caso di cui stava andando ad occuparsi. Meredith aveva detto che le tre vittime erano state colpite da una lunga distanza da un tiratore esperto.
Che cosa le diceva del killer?
Uccidere era uno sport per lui?
O quella che stava svolgendo era una sorta di sinistra missione?
Una cosa sembrava certa: il killer sapeva che cosa stava facendo, ed era bravo a farlo.
Il caso sarebbe stato decisamente una sfida.
Nel frattempo, le palpebre di Riley cominciarono a farsi pesanti.
Forse posso dormire un po’ pensò. Ancora una volta, appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi.
*
Riley stava guardando quelle che sembravano migliaia di Riley, tutte che stavano in piedi disposte tra di loro a varie angolazioni, diventando più piccole e infine svanendo a distanza.
Lei si voltò un po’, e così fecero tutte le altre Riley.
Sollevò un braccio, e così fecero anche le altre.
Poi si allungò, e la sua mano entrò in contatto con una superficie di vetro.
Sono in una sala degli specchi, Riley realizzò.
Ma com’era giunta lì? E come ne sarebbe uscita?
Sentì una voce gridare …
“Riley!”
Era una voce femminile, e in qualche modo, le sembrava familiare.
“Sono qui!” Riley rispose. “Dove sei?”
“Anch’io sono qui.”
Improvvisamente, Riley la vide.
Era proprio davanti a lei, nel bel mezzo della moltitudine di riflessi.
Era una donna esile e bella, che indossava un abito davvero démodé, appartenente ad un’altra epoca.
Riley la riconobbe immediatamente.
“Mamma!” disse in un sussurro sbalordito.
Era sorpresa di sentire che la sua stessa voce fosse quella di una ragazzina.
“Che cosa ci fai qui?” Riley chiese.
“Sono solo venuta a dirti addio” la mamma disse con un sorriso.
Riley faticò a comprendere che cosa stesse accadendo.
Poi, ricordò …
La mamma era stata uccisa proprio davanti ai suoi occhi, in un negozio di dolci, quando Riley aveva soltanto sei anni.
Ma lei era lì, e sembrava esattamente com’era quando Riley l’aveva vista viva.
“Dove stai andando, mammina?” Riley domandò. “Perché devi andartene?”
La mamma sorrise, e toccò lo specchio che le separava.
“Adesso sono in pace, grazie a te. Posso passare oltre ora.”
A poco a poco, Riley cominciò a capire.
Non molto tempo prima, aveva rintracciato il killer di sua madre.
Adesso era un vecchio barbone patetico, che viveva sotto un ponte.
Riley lo aveva lasciato lì, comprendendo che la sua vita era stata una punizione sufficiente per il suo terribile crimine.
Riley si allungò e toccò il vetro che la separava dalla mano materna.
“Ma non puoi andartene, mammina” le disse. “Sono solo una bambina.”
“Oh, no, non lo sei” la donna disse, con il volto radioso e felice. “Guardati.”
Riley guardò il suo stesso riflesso nello specchio, accanto alla mamma.
Era vero.
Ormai Riley era una donna adulta.
Sembrò strano realizzare che ormai avesse superato da parecchio l’età che sua madre aveva raggiunto.
Ma Riley sembrava anche stanca e triste, rispetto alla sua giovane madre.
Non diventerà mai più vecchia, pensò Riley.
Questo non valeva certamente per Riley.
E sapeva che il suo mondo era ancora pieno di ostacoli e sfide da superare.
Sarebbe mai riuscita a trovare il giusto riposo? Sarebbe mai entrata in pace per il resto della sua vita?
Si ritrovò a invidiare l’eterna, pacifica gioia di sua madre.
Poi la madre si voltò e se ne andò, sparendo nell’infinito intreccio di riflessi di Riley.
Improvvisamente, ci fu un terribile schianto, e tutti gli specchi si infransero.
Riley si trovò immersa in un’oscurità quasi totale, con vetri rotti che le arrivavano fino alle caviglie.
Mosse con precauzione i piedi, ad uno ad uno, per provare a farsi largo in mezzo a quel disastro.
“Stai attenta a dove metti i piedi” disse un’altra voce familiare.
Riley si voltò e vide un robusto uomo anziano, con un viso rugoso, duro e invecchiato.
Riley sussultò.
“Papà!” esclamò.
L’uomo sorrise all’evidente sorpresa della figlia.
“Speravi che fossi morto, non è vero?” disse. “Mi spiace deluderti.”
Riley aprì la bocca per contraddirlo.
Ma, poi, si rese conto che l’uomo aveva ragione. Lei non aveva sofferto per il lutto, quando era morto lo scorso ottobre.
E certamente non lo rivoleva nella propria vita.
Dopotutto, le aveva a malapena rivolto una parola gentile in tutta la sua vita.
“Dove sei stato?” Riley chiese.
“Dove sono sempre stato” il padre ribatté.
La scena cominciò a cambiare, passando da un vasto disastro di vetri rotti all’esterno della baita di suo padre nei boschi.
Ora il genitore si trovava di fronte alla scalinata d’ingresso.
“Potrebbe servirti il mio aiuto per questo caso” le disse. “Sembra che il tuo killer sia un soldato. So molto di soldati. E so molto di omicidi.”
Era vero. Il padre era stato un capitano in Vietnam. Lei non sapeva quanti uomini il genitore avesse ucciso durante l’esercizio del proprio dovere.
Ma l’ultima cosa che desiderava era ricevere il suo aiuto.
“E’ ora che tu te ne vada” Riley disse.
Il sorrisetto paterno fu sostituito da un sogghigno.
“Oh, no,” l’uomo esclamò. “Sto cominciando ad abituarmi.”
Il suo volto e il suo corpo cambiarono forma. Nell’arco di istanti, divenne più giovane, più forte, con la pelle scura e persino più minaccioso di prima.
Adesso era Shane Hatcher.
La trasformazione terrorizzò Riley.
Suo padre era sempre stata una presenza crudele nella sua vita.
Ma stava cominciando a temere Hatcher anche di più.
Molto più di quanto suo padre avesse mai fatto, Hatcher aveva una sorta di potere manipolatorio su di lei.
Poteva farle fare cose che lei non avrebbe mai immaginato.
“Vattene” Riley disse.
“Oh, no” Hatcher replicò. “Abbiamo un patto.”
Riley rabbrividì.
Abbiamo un patto, benissimo, lei pensò.
Hatcher l’aveva aiutata a trovare il killer di sua madre. In cambio, lei gli aveva concesso di vivere nella vecchia baita di suo padre.
Inoltre, sapeva di doverglielo. L’aveva aiutata a risolvere i casi, ma lui aveva fatto molto di più.
Aveva persino salvato la vita di sua figlia e quella del suo ex marito.
Riley aprì la bocca per parlare, per protestare.
Ma non venne fuori alcuna parola.
Invece, fu lui a parlare.
“Siamo uniti nella mente, Riley Paige.”
Riley fu svegliata di soprassalto da un brusco sussulto.
L’aereo era appena atterrato al San Diego International Airport.
Il sole del mattino stava sorgendo di là dalla pista.
Il pilota parlò attraverso l’interfono, annunciando il loro arrivo e scusandosi per il brusco atterraggio.
Gli altri passeggeri stavano radunando le loro cose, e si stavano preparando a lasciare l’aereo.
Mentre Riley si alzava assonnata, tirando giù la valigia dallo scompartimento in alto, ripensò all’incubo appena fatto.
Riley non era affatto superstiziosa, ma, nonostante tutto, non poté fare a meno di chiedersi …
L’incubo e il brusco atterraggio erano in qualche modo presagi di eventi futuri?
CAPITOLO OTTO
Era una radiosa e splendida mattina, quando Riley si mise alla guida della sua auto a noleggio, lasciando l’aeroporto. Il tempo era davvero meraviglioso, con una piacevole temperatura che si aggirava tra i 15 e i 20 gradi. Si rese conto che, in quell’occasione, molte persone avrebbero pensato di godersi la spiaggia o una piscina da qualche parte.
Ma Riley percepiva un’occulta apprensione.
Si chiese nostalgicamente se sarebbe mai tornata in California solo per godersi il clima, o andare in qualsiasi altro posto semplicemente per rilassarsi.
Sembrava che il male l’aspettasse ovunque si recasse.
La storia della mia vita, pensò.
Sapeva che doveva a se stessa e alla sua famiglia lasciare quella strada, prendersi del tempo per sé e le ragazze da poter trascorrere da qualche parte, solo per la completa gioia di farlo.
Ma quando sarebbe successo?
Emise un triste e stanco sospiro.
Forse mai, pensò.
Non era riuscita a dormire molto durante il volo, e stava risentendo del jet lag, per via delle tre ore di fuso orario tra lì e la Virginia.
Ciò nonostante, era entusiasta di cominciare ad occuparsi di questo nuovo caso.
Appena si diresse a nord, imboccando la San Diego Freeway, passò davanti ad edifici moderni, affiancati da palme e da altre piante. Presto, si ritrovò fuori dalla città, ma il traffico sull’autostrada a più corsie non tendeva a diminuire. Il rapido flusso di veicoli vicini passava attraverso le colline, dove il primo sole del mattino sottolineava un paesaggio ripido e asciutto.
Malgrado il paesaggio, trovò il Sud della California meno rilassante di quanto si aspettasse. Come lei, tutti nell’oceano di auto sembravano andare di fretta, diretti ad un’importante meta.
Prese un’uscita chiamata “Fort Nash Mowat.” Dopo qualche minuto, accostò davanti ad un cancello, mostrò il distintivo e le fu concesso di entrare.
Aveva già inviato un messaggio a Bill e Lucy, avvisandoli che stava arrivando; li trovò ad attenderla accanto ad un’auto. Bill le presentò la donna in uniforme, che era con loro, come il Colonnello Dana Larson, la comandante dell’ufficio CID di Fort Mowat.
Riley fu subito stupita dalla Larson. Era una donna forte e robusta, con intensi occhi neri. La sua stretta di mano trasmise immediatamente a Riley un senso di confidenza e professionalità.
“Sono felice di conoscerla, Agente Paige” il Colonnello Larson esordì in un tono frizzante e vigoroso. “La sua reputazione la precede.”
Gli occhi di Riley si spalancarono.
“Ne sono sorpresa” rispose.
La Larson sogghignò leggermente.
“Non lo sia” le disse. “Anch’io faccio parte delle forze dell’ordine, e mi tengo aggiornata con le attività del BAU. Siamo onorati di averla qui a Fort Mowat.”
Riley si sentì arrossire un po’, mentre ringraziava il Colonnello Larson.
Larson chiamò un soldato, lì vicino, che si avvicinò rapidamente a lei e salutò.
La donna ordinò: “Caporale Salerno, voglio che riporti l’auto dell’Agente Paige all’autonoleggio dell’aeroporto. Non ne avrà bisogno qui.”
“Sì, signora” il caporale disse, “immediatamente.” Entrò nell’auto di Riley, e uscì fuori dalla base.
Riley, Bill e Lucy entrarono nell’altra auto.
Mentre il Colonnello Larson guidava, Riley chiese: “Che cosa mi sono persa finora?”
“Non molto” Bill rispose. “Il Colonnello Larson ci ha accolti qui ieri sera, e ci ha mostrato i nostri alloggi.”
“Non abbiamo ancora incontrato il Colonnello comandante della base” Lucy aggiunse.