“No, non capisco! Hai dei problemi? Dovremmo chiamare la polizia?”
“No, non farlo,” disse lui. “Non ancora. Dammi solo un po’ di tempo per sistemare questa faccenda.”
Lei rimase in silenzio per un lungo momento. Poi disse: “Promettimi che stai bene.”
Reid sussultò.
“Papà?”
“Sì,” rispose forzatamente. “Sto bene. Ti prego, fai quello che ti ho chiesto e vai con la zia Linda. Voglio bene a entrambe, di’ a Sara che te l’ho detto, e abbracciala per me. Vi contatterò non appena potrò.”
“Aspetta, aspetta,” lo fermò Maya. “Come farai a contattarci se non saprai dove siamo andate?”
Ci rifletté per un istante. Non poteva chiedere a Ronnie di compromettersi più di così. Non poteva chiamare direttamente le ragazze. E non poteva rischiare di sapere dove fossero, perché avrebbero potute essere usate come merce di scambio contro di lui…
“Creerò un finto account,” propose Maya, “sotto un altro nome. Tu sai quale è. Io ci entrerò solo dal computer dell’albergo. Se vuoi contattarci, manda un messaggio.”
Reid capì al volo. Fu colto da un’ondata di orgoglio; era così intelligente, e molto più lucida sotto pressione di quanto avrebbe osato sperare.
“Papà?”
“Sì,” disse lui. “Va bene. Prenditi cura di tua sorella. Devo andare…”
“Anche io ti voglio bene,” rispose Maya.
Reid chiuse la chiamata. Poi tirò su con il naso. Eccolo di nuovo, l’istinto bruciante di correre a casa da loro, di tenerle al sicuro, di mettere in valigia tutto quello che potevano e andarsene, via lontano…
Non poteva farlo. Di qualunque cosa si trattasse, chiunque fosse che gli stava dando la caccia, lo avevano trovato una volta. Era stata una fortuna che non volessero anche le sue figlie. Forse non sapevano di loro. La prossima volta, se ci fosse stata, forse non avrebbe avuto tanta fortuna.
Reid aprì il telefono, ne entrasse la carta SIM e la spezzò in due. Lasciò cadere i pezzi in un tombino. Mentre si incamminava in strada, lasciò la batteria in un cestino del pattume, e le due metà del telefono in altri cestini.
Sapeva che era genericamente diretto verso Rue de Stalingrad, anche se non aveva idea di che cosa avrebbe fatto una volta che ci fosse arrivato. Il suo cervello gridava di cambiare direzione, di andare ovunque tranne che lì. Ma il sangue freddo che pervadeva il suo subconscio lo spinse ad avanzare.
I suoi rapitori gli avevano chiesto che cosa sapeva dei loro ‘piani’. I posti di cui gli avevano domandato, Zagreb e Madrid e Teharan, dovevano essere collegati, ed erano chiaramente legati anche agli uomini che lo avevano catturato. Qualunque cosa fossero quelle visioni—ancora si rifiutava di ammettere che fossero altro—c’era in esse la conoscenza di qualcosa che era già successo o che stava per accadere. Una conoscenza che non aveva saputo di possedere. Più ci pensava, più sentiva una certa urgenza sospingerlo dal fondo della sua mente.
No, era più di quello. Era un obbligo.
A quanto pareva i suoi rapitori erano stati disposti a ucciderlo per quello che sapeva. E lui aveva la sensazione che se non avesse scoperto di che cosa si trattava e che cosa avrebbe dovuto sapere, molta più gente sarebbe morta.
“Monsieur.” Reid fu strappato dai suoi pensieri da una donna in carne con uno scialle, che gli toccò gentilmente il braccio. “Sta sanguinando,” disse lei in inglese, e si indicò il sopracciglio.
“Oh. Merci.” Lui si portò due dita alla fronte. Un piccolo taglietto gli aveva impregnato la benda e una goccia di sangue gli stava colando lungo il viso. “Devo trovare una farmacia,” borbottò ad alta voce.
Rimase senza fiato quando fu colpito da un pensiero: c’era una farmacia a due isolati di distanza. Non c’era mai entrato, secondi i ricordi della sua memoria infida, ma semplicemente lo sapeva, con la stessa facilità con cui conosceva il percorso per arrivare al Pap’s Deli.
Gli corse un brivido dalla base della spina dorsale fino al collo. Le altre visioni erano state viscerali, e si erano manifestate tutte in seguito a qualche stimolo esterno, come una visione, suoni e persino odori. Quella volta non c’era stata nessuna visione. Era semplicemente un ricordo, proprio come aveva saputo dove andare davanti a ogni cartello stradale. Lo stesso modo in cui sapeva come caricare una Beretta.
Prese una decisione prima che il semaforo diventasse verde. Sarebbe andato a quell’incontro e avrebbe ottenuto qualsiasi informazione fosse stato possibile. Poi avrebbe deciso cosa farci, se fare rapporto alle autorità, e scagionarsi riguardo alla morte dei quattro uomini nello scantinato. Lasciare che la polizia facesse il suo mestiere mentre lui tornava a casa dalle sue figlie.
In farmacia, comprò un tubetto di supercolla, una scatola di cerotti a farfalla, dei tamponi di cotone e un fondotinta del colore del suo incarnato. Portò i suoi acquisti in bagno e chiuse la porta.
Si tolse le bende che si era messo goffamente all’appartamento e si lavò il sangue incrostato dalle ferite. Sui tagli più piccoli applicò i cerotti a farfalla. Su quelli più profondi, che normalmente avrebbero richiesto dei punti, strinse insieme la pelle e vi depositò una goccia di supercolla, sibilando tra i denti per tutto il tempo. Poi trattenne il fiato per circa trenta secondi. La colla bruciava, ma man mano che si asciugava smise di infastidirlo. Alla fine si passò il fondotinta sul volto, in particolare sulle opere dei suoi sadici ex rapitori. Non era possibile riuscire a mascherare l’occhio gonfio e la mascella livida, ma almeno così meno gente lo avrebbe fissato per la strada.
L’intero procedimento impiegò mezz’ora, e due volte in quell’arco di tempo dei clienti gli bussarono alla porta (la seconda, una donna aveva gridato in francese che il figlio stava per scoppiare). Entrambe le volte, Reid aveva gridato: “Occupé!”
Alla fine, quando ebbe concluso, si riguardò allo specchio. Era tutt’altro che perfetto, ma almeno non sembrava che fosse stato brutalizzato in una sala delle torture sotterranea. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a scegliere un fondotinta più scuro, qualcosa che lo avrebbe fatto sembrare straniero. La persona con cui aveva parlato sapeva con chi avrebbe dovuto incontrarsi? Avrebbe riconosciuto chi era, o meglio, chi pensavano che lui fosse? I tre uomini che erano andati a casa sua non erano sembrati molto sicuri, lo avevano persino confrontato con una fotografia.
“Che cosa sto facendo?” si chiese. Ti stai preparando per un incontro con un pericoloso criminale che probabilmente è un noto terrorista, disse la voce nella sua testa, e non la nuova coscienza invadente, ma la sua, quella di Reid Lawson. Era il suo stesso buon senso, che si prendeva gioco di lui.
Poi la personalità pacata e sicura di sé, quella appena sotto la superficie, parlò. Andrà tutto bene, gli disse. Non è niente che tu non abbia già fatto. Istintivamente portò la mano al calcio della Beretta infilata dietro ai suoi pantaloni, nascosta dalla nuova giacca. Sai come comportarti.
Prima di uscire dalla farmacia, comprò qualche altro oggetto: un orologio economico, una bottiglia d’acqua e due tavolette di cioccolato. Fuori sul marciapiede, divorò entrambe le barrette. Non era certo di quanto sangue avesse perso e voleva tenere alti i livelli di zucchero. Scolò l’intera bottiglietta d’acqua e poi chiese l’ora a un passante. Sistemò l’orologio e se lo infilò al polso.
Erano le sei e mezza. Aveva tutto il tempo per arrivare al luogo d’incontro in anticipo e prepararsi.
*
Si era quasi fatto buio quando raggiunse l’indirizzo che gli era stato dato per telefono. Il tramonto su Parigi lanciava lunghe ombre sui viali. Rue de Stalingrad 187 corrispondeva a un bar nel decimo arrondissement chiamato Féline, un postaccio con le finestre dipinte di nero e la facciata malmessa. Era in una strada altrimenti popolata da studi d’arte, ristoranti indiani e bar bohémien.
Reid si fermò con una mano sulla porta. Una volta entrato non sarebbe più potuto tornare indietro. Ancora poteva andarsene. No, decise, invece non poteva. Dove sarebbe andato? A casa, per farsi ritrovare di nuovo? E a vivere con quelle strane visioni nella testa?
Entrò.
Le pareti del bar erano dipinte di nero e coperte di poster anni ’50 con donne dal volto severo, portasigarette e silhouette. Era troppo presto, o forse troppo tardi, perché il posto fosse affollato. I pochi clienti all’interno parlavano a bassa voce, curvi con aria protettiva sui loro drink. Una melanconica musica blues suonava dolcemente da uno stereo dietro il bancone del bar.
Reid controllò tutto il posto, da destra a sinistra e poi da capo. Nessuno guardò verso di lui, e di certo nessuno somigliava ai tipi che lo avevano rapito. Si accomodò a un tavolino sul fondo e si sedette guardando verso la porta. Ordinò un caffè, anche se per lo più lo lasciò fumare davanti a sé.
Un vecchio uomo curvo scese dal suo sgabello e si avviò zoppicando verso i bagni. Reid si scoprì ipnotizzato dal suo movimento e studiò l’uomo. Sulla sessantina. Displasia dell’anca. Dita ingiallite, respiro pesante: un fumatore di sigari. Senza spostare la testa il suo sguardo corse dall’altro lato del bar, dove due uomini dall’aria burbera e in tute da lavoro stavano avendo una conversazione sussurrata ma concitata sullo sport. Operai. Quello sulla sinistra non dorme abbastanza, probabilmente ha dei figli piccoli. L’uomo sulla destra è stato in una rissa di recente, o almeno ha dato un pugno, dato che le sue nocche sono ferite. Senza pensare, si ritrovò a esaminare gli orli dei loro pantaloni, le loro maniche, il modo in cui appoggiavano i gomiti sul tavolo. Qualcuno con una pistola cercherebbe di proteggerla, di nasconderla, anche inconsciamente.
Reid scosse la testa. Stava diventando paranoico, e quei pensieri persistenti ed estranei non lo stavano aiutando. Poi si ricordò lo strano avvenimento della farmacia, come si fosse ricordato di un posto solo dopo aver detto ad alta voce che gliene serviva uno. Lo studioso dentro di lui intervenne. Forse c’è qualcosa che puoi imparare da questa consapevolezza. Forse invece di combatterla, dovresti provare ad aprirti a essa.
La cameriera era una giovane donna dall’aria stanca con una gran massa di capelli scuri e arruffati. “Stylo?” le chiese quando gli passò vicino. “Ou crayon?” Penna o matita? Lei infilò una mano in mezzo ai capelli e ne estrasse una penna. “Merci.”
Spianò un tovagliolo da cocktail e ci appoggiò sopra la punta della penna. Quella non era una nuova abilità di origine sconosciuta, bensì una tecnica del professor Lawson, una che aveva usato molte volte in passato per rafforzare la memoria.
Ripensò alla conversazione, se così poteva definirla, con i tre rapitori arabi. Cercò di non pensare ai loro occhi morti, al sangue per terra, o alla vaschetta di strumenti affilati per tagliargli di dosso qualsiasi verità credessero che avesse. Invece si concentrò sui dettagli verbali e scrisse il primo nome che gli tornò in mente.
Poi lo borbottò ad alta voce. “Sceicco Mustafar.”
Una prigione segreta in Marocco. Un uomo che ha passato tutta la sua vita in mezzo alle ricchezze e al potere, calpestando i meno fortunati di lui e schiacciandoli sotto le sue scarpe, ora è terrorizzato perché sa che potrebbero seppellirlo fino al collo nella sabbia e nessuno avrebbe mai ritrovato le sue ossa.
“Vi ho detto tutto quello che so!” insiste.
Come no. “Le mie fonti dicono altrimenti. Dicono che potresti sapere molto di più, ma che forse hai paura delle persone sbagliate. Ecco cosa ti dico, sceicco… il mio amico nella stanza qui vicina? Si sta innervosendo. Vedi, lui ha questo martello… è una cosetta, davvero, un martello da roccia, come quello che userebbe un geologo? Ma fa meraviglie sulle ossa più piccole, sulle nocche…”
“Lo giuro!” Lo sceicco si stringe le mani ansioso. Lo riconosci come un segnale. “Ci sono state altre conversazioni sui piani, ma erano in tedesco, in russo… io non le ho capite!”
“Lo sai, sceicco, un proiettile ha lo stesso suono in ogni lingua.”
Reid tornò di colpo al fetido baretto. Si sentiva la gola secca. Il ricordo era stato intenso, vivido e lucido come tutti gli altri. Ed era stata la sua voce a parlare, a minacciare con facilità, pronunciando cose che non si sarebbe mai sognato di dire a un’altra persona.
Piani. Lo sceicco aveva definitivamente detto qualcosa su dei piani. Qualsiasi cosa tremenda stesse sospingendo il suo inconscio, aveva la netta sensazione che ancora non fosse successa.
Prese un sorso del caffè ormai tiepido per calmare i nervi. “Okay,” disse a se stesso. “Okay.” Durante l’interrogatorio nello scantinato, gli avevano chiesto le identità di altri agenti attivi, e tre nomi gli erano lampeggiati nella mente. Ne scrisse uno, e poi lo lesse ad alta voce. “Morris.”
Un aeroporto privato a Zagreb. Morris sta correndo di fianco a te. Entrambi avete le pistole in pugno, con la canna puntata verso il basso. Non potete lasciare che i due iraniani raggiungano l’aereo. Morris prende la mira tra una falcata e un’altra e spara due volte. Un colpo arriva a segno a un polpaccio e il primo uomo cade. Tu ti avvicini all’altro, abbattendolo brutalmente al suolo…
Un altro nome. “Reidigger.”
Un sorriso giovanile, capelli pettinati accuratamente. Un po’ di pancetta. Il peso non gli sarebbe stato male addosso con qualche centimetro di più d’altezza. Il bersaglio di molti scherzi, ma li sopportava con pazienza.
Il Ritz a Madrid. Reidigger copre la hall mentre tu abbatti la porta a calci e prendi il terrorista di sorpresa. L’uomo cerca di prendere la pistola sul comò, ma tu sei più veloce. Gli spezzi il polso… Più tardi Reidigger ti dirà che ha sentito il rumore da fuori nel corridoio. Gli ha dato la nausea. Tutti ridono.
Il caffè ormai era freddo, ma Reid quasi non lo notò. Gli tremavano le dita. Non c’era alcun dubbio: qualsiasi cosa gli stesse succedendo, quelli erano dei ricordi… i suoi ricordi. O quelli di qualcuno. I rapitori, gli avevano tagliato qualcosa dal collo e lo avevano chiamato un soppressore dalla memoria. Non poteva essere vero; quello non era lui. Era qualcun altro. Aveva i ricordi di qualcun altro mescolati ai suoi.
Reid appoggiò di nuovo la punta della penna al tovagliolo e scrisse l’altro nome. Lo pronunciò ad alta voce: “Johansson.” Una forma gli apparve nella mente. Lunghi capelli biondi, lisci e lucidi. Zigomi rotondi e alti. Labbra piene. Occhi grigi, del colore dell’ardesia. Una visione lampeggiò…
Milano. Notte. Un albergo. Vino. Maria è seduta sul letto con le gambe incrociate sotto di sé. I primi tre bottoni della camicetta sono aperti. I capelli sono spettinati. Non avevi mai notato quanto fossero lunghe le sue ciglia. Due ore prima l’hai guardata uccidere due uomini in una sparatoria, e ora bevete Sangiovese e mangiate Pecorino toscano. Le vostre ginocchia quasi si toccano. Il suo sguardo incontra il tuo. Nessuno di voi due parla. Lo vedi nei suoi occhi, ma lei sa che non puoi farlo. Ti chiede di Kate…
Reid sussultò sentendo montare un gran mal di testa, che gli si allargò nel cranio come una nube temporalesca. Allo stesso tempo, la visione si sfocò e svanì. Strinse gli occhi e si premette le tempie per un minuto intero prima che il mal di testa diminuisse.
Che diavolo è stato quello?
Per qualche motivo sembrava che il ricordo della donna, Johansson, gli avesse provocato una breve emicrania. Ancora più disturbante, tuttavia, fu la strana sensazione che lo colse mentre il mal di testa gli passava. Era come… desiderio. No, era più di quello, sembrava passione, rinforzata dall’eccitazione e persino dal pericolo.