Obiettivo Primario - Джек Марс 5 стр.


“Uh… se quando parla della missione nel suo complesso, intende dire la ricerca e l’esecuzione di Abu Mustafa Faraj, allora sì, signore. Suppongo sia stata un successo.”

“È quello che intendevo, sergente. Faraj era un terrorista pericoloso, e il mondo è un posto migliore ora che se n’è andato. Specialista Murphy?”

Murphy fissò il generale. Per Luke era ovvio che il commilitone non era più del tutto a casa. Stava meglio rispetto al mattino seguente alla battaglia, ma non molto.

“Sì?”

Il generale digrignò i denti. Guardò gli uomini alla sua destra e sinistra.

“Quale è la sua valutazione sulla missione, prego?”

Murphy annuì. “Oh. Quella che abbiamo appena finito?”

“Sì, specialista Murphy.”

Murphy non rispose per diversi secondi. Sembrava stesse riflettendo.

“Beh, abbiamo perso nove uomini della Delta e due piloti di elicottero. Martinez è vivo, ma è fregato. Oltretutto abbiamo ucciso diversi bambini, e almeno qualche donna. C’erano mucchi di morti a terra. E intendo centinaia di morti. E immagino ci fosse anche un terrorista famoso in mezzo, ma non l’ho mai visto. Quindi… tutto come al solito, immagino che direbbe lei. È così che vanno queste cose. Questa non è stata la mia prima giostra, se sa cosa voglio dire.”

Guardò Luke dall’altra parte del corridoio.

“Stone sembra a posto. E parlando solo per me, non mi sono fatto neanche un graffio. Quindi certo, direi che è andata bene.”

Gli ufficiali fissarono Murphy.

“Signore,” intervenne Luke. “Credo che quello che lo specialista Murphy voglia dire, e dalla mia testimonianza vedrete che sono d’accordo, è che la missione è stata organizzata male e probabilmente è stata una scelta azzardata. Il tenente colonnello Heath era un uomo coraggioso, signore, ma forse non un eccellente stratega o tattico. Dopo che il primo elicottero si è schiantato ho richiesto che annullassimo la missione, e lui ha rifiutato. È stato anche personalmente responsabile della morte di un gran numero di civili, e probabilmente della morte del caporale Wayne Hendricks.”

Assurdamente, pronunciare il nome dell’amico quasi portò Luke alle lacrime. Le ricacciò indietro. Non era il momento né il luogo.

Il generale abbassò di nuovo lo sguardo sui documenti. “E tuttavia concorda che la missione ha avuto successo? L’obiettivo della missione è stato raggiunto?”

Luke ci rifletté per un lungo momento. Nel più stretto senso militare, avevano raggiunto l’obiettivo. Era vero. Avevano ucciso un terrorista ricercato, e probabilmente in futuro ciò avrebbe salvato delle vite. Forse avrebbe persino salvato più vite di quante ne avesse tolte.

Era così che quegli uomini definivano il successo.

“Sergente Stone?”

“Sì, signore. Concordo.”

Il generale annuì. Il colonnello fece lo stesso. L’uomo in abiti civili non replicò in alcuna maniera.

Il generale riunì i suoi fogli e li tese al colonnello.

“Bene,” disse. “Presto atterreremo in Germania, signori, e io mi congederò da voi. Prima che succeda, voglio sottolineare che sono convinto abbiate fatto un ottimo lavoro, e dovete essere orgogliosi. Siete ovviamente uomini coraggiosi, e molto abili nel vostro lavoro. Il vostro paese ha con voi un debito di riconoscenza, uno che non sarà mai ripagato adeguatamente. Non sarà neanche mai riconosciuto pubblicamente.”

Si fermò.

“Vi prego di accettare che la missione di uccidere Abu Mustafa Faraj al-Jihadi, anche se ha avuto successo, non è mai esistita. Non esiste in nessun rapporto, né esisterà mai. Gli uomini che hanno perso le loro vite nel corso della missione sono morti in un incidente in addestramento durante una tempesta di sabbia.”

Li guardò, con uno sguardo severo.

“Sono stato chiaro?”

“Sì, signore,” disse Luke, senza esitazione. Il fatto che stessero coprendo l’intera missione non lo sorprendeva affatto. L’avrebbe coperta lui stesso, se avesse potuto.

“Specialista Murphy?”

Murphy alzò una mano e scrollò le spalle. “È una tua scelta, amico. Non credo di aver mai partecipato a una missione che sia esistita.”

CAPITOLO QUATTRO

23 marzo

4:35 p.m.

Comando per le Operazioni Speciali per l’Esercito degli Stati Uniti.

Fort Bragg

Fayetteville, North Carolina

“Posso portarti una tazza di tè?”

Luke annuì. “Grazie.”

La moglie di Wayne, Katie, era una bionda attraente, minuta, e di qualche anno più giovane del marito. Luke credeva che avesse intorno ai ventiquattro anni. Era incinta della loro bambina, di otto mesi, ed era enorme.

Viveva negli alloggi dell’esercito, a mezzo miglio da Luke e Becca. La casa era un minuscolo bungalow a tre stanze in un vicinato di case tutte identiche. Wayne era morto. Lei era lì perché non aveva nessun altro luogo dove andare.

Portò a Luke il suo tè in una piccola tazza decorata, la versione adulta di quelle che le bambine usavano quando davano tea party immaginari. Si sedette davanti a lui. Il soggiorno era scarsamente arredato. Il divano era un futon che si poteva aprire e trasformare in un letto matrimoniale per gli ospiti.

Luke aveva incontrato Katie due volte in passato, entrambe per cinque minuti o meno. Non la vedeva da prima che rimanesse incinta.

“Eri un buon amico di Wayne,” disse lei.

“Sì, lo ero.”

La donna fissò dentro la sua tazzina, come se Wayne stesse galleggiando sul fondo.

“Ed eri nella missione in cui è morto.” Non era una domanda.

“Sì.”

“Lo hai visto? Lo hai visto morire?”

Subito Luke non apprezzò il significato recondito di quelle parole. Come rispondere a una domanda come quella? Non aveva visto lo sparo che aveva ucciso Wayne, ma lo aveva visto morire, quello era vero. Avrebbe fatto praticamente tutto per toglierselo dalla mente.

“Sì.”

“Come è morto?” chiese.

“È morto da uomo. Da soldato.”

Lei annuì, ma non disse nulla. Forse quella non era la risposta che stava cercando. Ma Luke non voleva continuare a parlarne.

“Ha sofferto?” continuò a chiedere.

Luke scosse la testa. “No.”

La donna lo fissò in faccia. I suoi occhi erano arrossati e orlati di lacrime. Dentro essi c’era una terribile tristezza. “Come fai a saperlo?”

“Gli ho parlato. Mi ha chiesto di dirti che ti amava.”

Era una bugia, ovviamente. Wayne non era riuscito a completare la frase. Ma era a fin di bene. Era sicuro che Wayne lo avrebbe detto, se avesse potuto.

“È per questo che sei venuto qui, sergente Stone?” domandò Katie. “Per dirmelo?”

Luke prese un respiro.

“Prima di morire, Wayne mi ha chiesto di essere il padrino di vostra figlia,” disse. “Ho accettato, e sono qui per onorare quell’impegno. Vostra figlia nascerà presto, e voglio aiutarti in questa situazione in ogni modo possibile.”

Ci fu una lunga pausa silenziosa tra di loro. Durò molto a lungo.

Alla fine Katie scosse la testa, in maniera impercettibile. Parlò a bassa voce.

“Non potrei mai lasciare che un uomo come te sia il padrino di mia figlia. Wayne è morto per colpa di uomini come te. La mia bambina non avrà più un padre per colpa di uomini come te. Lo capisci? Sono qui perché ho ancora l’assistenza sanitaria, e quindi mia figlia nascerà qui. Ma dopo? Me ne andrò più lontano possibile dall’esercito e da quelli come te. Wayne è stato sciocco a farsi coinvolgere da tutto questo, e io sono stata sciocca ad assecondarlo. Non ti devi preoccupare, sergente Stone. Non sono una tua responsabilità. Non sei il padrino di mia figlia.”

Luke non riusciva a pensare a una sola cosa da dire. Guardò nella tazza e vide che aveva già finito il suo tè. La appoggiò sul tavolo. Lei la prese e spostò la sua mole davanti alla porta della minuscola casa. La aprì e la tenne spalancata.

“Buona giornata, sergente Stone.”

Lui la fissò.

Katie iniziò a piangere. La sua voce rimase bassa.

“Ti prego. Esci da casa mia. Esci dalla mia vita.”

***

La cena fu triste e deprimente.

Erano seduti al tavolo, uno davanti all’altra, senza parlare. Lei aveva preparato pollo farcito e asparagi, ed erano buoni. Aveva stappato una birra per lui e l’aveva versata in un bicchiere. Era stata gentile.

Mangiavano in silenzio, quasi come se le cose fossero normali.

Ma Luke non riusciva a costringersi a guardarla.

C’era una Glock nove millimetri nero opaco sul tavolo vicino alla sua mano destra. Era carica.

“Luke, stai bene?”

Lui annuì. “Sì, sto bene.” Prese un sorso della sua birra.

“Perché la tua pistola è sul tavolo?”

Alla fine Luke alzò lo sguardo su di lei. Era bellissima, ovviamente, e la amava. Era incinta del suo bambino, e indossava una camicetta premaman a fiori. Avrebbe potuto piangere per la sua bellezza, e per la forza del suo amore per lei. Lo provava intensamente, come un’onda che si infrangesse sugli scogli.

“Uh, è solo in caso mi servisse, amore.”

“Perché dovrebbe servirti? Stiamo solo cenando. Siamo nella base. Siamo al sicuro qui. Nessuno può…”

“Ti dà fastidio?” chiese.

Rebecca alzò le spalle. Si infilò una piccola forchettata di pollo in bocca. Becca mangiava lentamente e con cura. Prendeva morsi piccoli e spesso le serviva molto tempore finire la cena. Non divorava il pasto come faceva altra gente. A Luke piaceva quella sua caratteristica. Era una delle loro differenze. Lui tendeva a far sparire il suo cibo in un batter d’occhio.

La guardò masticare lentamente. Aveva denti larghi e gli incisivi molto grandi. Era carino. Lo trovava adorabile.

“Sì, un po’,” rispose la donna. “Non lo hai mai fatto prima. Hai paura che…”

Luke scuse la testa. “Non ho paura di niente. Sta per nascere il nostro bambino, no? È importante tenerlo al sicuro da tutto. È nostra responsabilità. È un mondo pericoloso, Becca, nel caso non lo sapessi.”

Luke annuì per sottolineare la verità delle proprie parole. Sempre più, stava iniziando a notare i rischi che li circondavano. C’erano coltelli affilati nei cassetti della cucina. C’erano trincianti e una grossa mannaia nel blocco di legno sul bancone. C’erano forbici nell’armadietto dietro allo specchio del bagno.

La macchina aveva i freni, e qualcuno avrebbe potuto tagliarli con facilità. Se Luke sapeva farlo, lo stesso valeva per molte altre persone. E là fuori c’era molta gente che poteva voler pareggiare i conti con Luke Stone.

Sembrava quasi…

Becca stava piangendo. Spinse via la sedia dal tavolo e si alzò. Il suo volto era diventato rosso nel giro di pochi secondi.

“Amore? Che c’è che non va?”

“Tu,” rispose lei, con le guance rigate di lacrime. “C’è qualcosa che non va in te. Non sei mai tornato a casa in queste condizioni prima. Mi hai salutata a malapena. Praticamente non mi hai toccata. Mi sento come se fossi invisibile. Rimani sveglio tutta la notte. Non credo che tu abbia chiuso occhio da quando sei qui. E ora tieni una pistola sul tavolo da pranzo. Ho paura, Luke. Ho paura che ci sia qualcosa di orribilmente sbagliato in te.”

Lui si alzò e Rebecca fece un passo indietro. Spalancò gli occhi.

Quello sguardo. Era lo sguardo di una donna spaventata da un uomo. Ed era lui quell’uomo. Ne fu inorridito. Ritornò bruscamente alla realtà. Non si sarebbe mai immaginato che la moglie lo guardasse mai in quella maniera. Non voleva che le capitasse mai più, né per colpa sua, né per colpa di qualcun altro, per nessuna ragione.

Abbassò gli occhi sul tavolo. Vi aveva appoggiato una pistola carica durante la cena. Ma perché aveva fatto una cosa simile? All’improvviso si vergognò di quell’arma. Era squadrata, piatta e brutta. Avrebbe voluto coprirla con il tovagliolo, ma era troppo tardi. Lei l’aveva già vista.

Guardò di nuovo Rebecca.

Lei era in piedi dall’altra parte del tavolo, miserevole, come una bambina, con le spalle curve, il volto contratto e le guance bagnate di lacrime.

“Io ti amo,” gli disse. “Ma mi preoccupi adesso.”

Lui annuì. La cosa seguente che Luke disse sorprese anche lui.

“Credo che io debba allontanarmi per un po’.”

CAPITOLO CINQUE

14 aprile

9:45 a.m. Eastern Daylight Time

Presidio sanitario dell’ufficio veterani (VA) di Fayetteville

Fayetteville, North Carolina

“Perché sei qui, Stone?”

La voce riscosse Luke delle fantasticherie in cui si era perso. Gli capitava spesso di addentrarsi tra i suoi pensieri e le memorie di quei tempi, e in seguito non riusciva a ricordare su che cosa stesse riflettendo.

Alzò lo sguardo.

Era seduto su una sedia pieghevole in un gruppo di otto uomini. La maggior parte era seduta su altre sedie pieghevoli. Due erano in carrozzina. Il gruppo occupava un angolo di una sala ampia ma squallida. Le finestre sulla parete opposta mostravano che era una giornata assolata di inizio primavera, ma in qualche modo la luce esterna non riusciva a penetrare nella stanza.

Il gruppo era posizionato in semicerchio, rivolto verso un uomo barbuto di mezza età con un grosso stomaco. Indossava pantaloni di velluto a coste e una camicia di flanella rossa. Il suo ventre sporgeva in fuori, simile a un pallone da spiaggia nascosto sotto la camicia, ma era piatto, come se fosse stato mezzo sgonfio. Luke sospettava che se gli avesse sferrato un pugno, lo avrebbe trovato duro come una padella di ferro. Era alto, ed era appoggiato all’indietro sullo schienale della sedia, le gambe sottili stese diritte davanti a lui.

“Chiedo scusa?” domandò Luke.

L’uomo sorrise, ma senza alcun divertimento.

“Perché… sei… qui?” ripeté lui. Lo disse lentamente, come se stesse parlando con un bambino, o con un idiota.

Luke guardò gli uomini attorno a sé. Quella era la terapia di gruppo per i veterani di guerra.

Era una domanda legittima. Luke non apparteneva a quel posto. Quegli uomini erano distrutti. Fisicamente disabili. Traumatizzati.

Sembrava che alcuni di loro non sarebbero mai tornati come prima. L’uomo di nome Chambers forse era quello nella situazione peggiore. Aveva perso un braccio ed entrambe le gambe. Aveva il volto sfigurato. La metà sinistra era coperta da bende, e da sotto sporgeva una grande placca metallica, per stabilizzare quello che era rimasto delle ossa facciali di quel lato. Aveva perso l’occhio sinistro, e ancora non glielo avevano sostituito. A un certo punto, dopo avergli ricostruito l’orbita oculare, gli avrebbero messo un bell’occhio finto.

Chambers era stato a bordo di un Humvee che era finito su una mina in Iraq. Il dispositivo era stato una novità: una carica cava che era penetrato direttamente dalla parte inferiore dei veicoli, e poi attraverso Chambers, maciullandolo dal basso verso l’alto. L’esercito stava installando una pesante armatura sulla superficie inferiore sui vecchi modelli di Humvee, e riprogettando quelli nuovi, per proteggersi da quel tipo di attacco in futuro. Ma ciò non avrebbe aiutato Chambers.

A Luke non piaceva guardarlo.

“Perché sei qui?” chiese di nuovo il capo del gruppo.

Luke scrollò le spalle. “Non lo so, Riggs. Perché tu sei qui?”

“Io sto cercando di aiutare questi uomini a riprendersi le loro vite,” rispose Riggs. Lo disse senza perdere un colpo. Doveva essere una dichiarazione preparata appositamente per quando qualcuno lo avesse affrontato, oppure ci credeva davvero. “E tu?”

Luke non rispose, ma ormai tutti lo fissavano. Era raro che parlasse in quel gruppo. Tanto valeva che non lo frequentasse. Non credeva che lo stesse aiutando. A dire la verità, pensava che tutta quella faccenda fosse una perdita di tempo.

“Hai paura?” chiese Riggs. “È per questo che sei qui?”

“Riggs, se credi questo, si vede che non mi conosci molto bene.”

“Ah,” rispose l’uomo, e sollevò leggermente le grosse mani. “Adesso siamo sulla strada giusta. Sei un duro, questo lo sappiamo già. Quindi fallo, dimostraci quanto vali. Parlaci del sergente di prima classe Luke Stone delle Forze Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti. Delta, ho ragione? Immerso fino al collo in quella merda, giusto? Uno degli uomini che ha partecipato al fiasco dell’assassinio del tizio di Al Qaeda, quello che avrebbe bombardato la USS Sarasota?”

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