Lui annuì. “L’ho fatto, perché è vero. Non potrei perdonarmi se ti succedesse qualcosa e io non fossi presente.”
“Ma non potrai essere sempre insieme a me,” replicò la figlia, “non importa quanto ci provi. E io devo essere in grado di occuparmi da sola dei miei problemi.”
“Hai ragione. Farò del mio meglio per lasciarti un po’ di spazio.”
Maya inarcò un sopracciglio. “Me lo prometti?”
“Prometto.”
“Okay.” La ragazza si alzò in punta di piedi e gli baciò una guancia. “Ci vediamo dopo la scuola.” Si diresse verso la porta, ma poi le venne in mente qualcos’altro. “Lo sai, magari dovrei imparare a sparare, giusto per sicurezza…”
Lui le puntò severamente contro un dito. “Non esagerare.”
Maya sorrise e svanì nell’edificio. Reid rimase fermo fuori per un paio di minuti. Dio, le sue ragazze stavano crescendo troppo in fretta. In due brevi anni Maya sarebbe stata legalmente adulta. Presto sarebbero arrivate le macchine, le rate del college, e… prima o poi sarebbero arrivati anche i ragazzi. Per fortuna non era ancora successo.
Si distrasse ammirando l’architettura del campus, mentre si dirigeva verso Copley Hall. Non credeva che si sarebbe mai stancato di aggirarsi per l’università, godendosi la vista degli edifici del diciottesimo e diciannovesimo secolo, costruiti in gran parte nello stile romanico fiammingo che andava tanto nel medioevo europeo. Di certo era d’aiuto che la metà di marzo in Virginia fosse il punto di svolta della stagione; il tempo stava migliorando e la temperatura raggiungeva i venti gradi durante le giornate più assolate.
Il suo ruolo come professore associato faceva sì che avesse classi piccole, dai venticinque ai trenta studenti alla volta e principalmente laureandi in storia. Lui era specializzato in lezioni sull’arte bellica, e spesso sostituiva il professor Hildebrandt, che era titolare di una cattedra e spesso viaggiava per un libro che stava scrivendo.
O magari è segretamente nella CIA, pensò Reid.
“Buongiorno,” disse ad alta voce entrando in classe. La maggior parte degli studenti si era già accomodata prima del suo arrivo, quindi si affrettò a raggiungere il centro della sala, appoggiò la borsa sulla cattedra e si sfilò la giacca di tweed. “Sono in ritardo di qualche minuto, quindi cominciamo subito.” Era piacevole essere di nuovo in classe. Quello era il suo elemento, o almeno uno di essi. “Sono sicuro che qui qualcuno sa dirmi: quale è stato l’evento più devastante, per numero di morti, della storia europea?”
“La seconda guerra mondiale,” rispose subito una voce.
“Uno dei peggiori al mondo, certo,” replicò Reid, “ma la Russia se l’è cavata molto peggio dell’Europa, a giudicare dalle cifre. Altre idee?”
“La conquista mongola,” disse una ragazza mora con i capelli raccolti in una coda di cavallo.
“Un’altra buona ipotesi, ma state pensando a dei conflitti armati. Io ho in mente qualcosa di meno antropogenico, e più biologico.”
“La Peste Nera,” borbottò un ragazzo biondo in prima fila.
“Sì, è giusto, signor…?”
“Wright,” rispose il ragazzo.
Reid sorrise. “Signor Wright? Un cognome importante, scommetto che è popolare tra i suoi coetanei.”
Il ragazzo sorrise timidamente e scosse la testa.
“Comunque sì, il signor Wright ha ragione: la Peste Nera. La pandemia della peste bubbonica è iniziata nell’Asia Centrale, ha attraversato la Via della Seta, è stata portata in Europa dai ratti sulle navi mercantili, e si stima che nel quattordicesimo secolo abbia ucciso dalle settantacinque alle duecento milioni di persone.” Per un momento camminò avanti e indietro in silenzio, per enfatizzare il concetto. “C’è un’enorme differenza tra le due cifre, vero? Come mai i numeri sono così incerti?”
La ragazza mora in terza fila alzò appena la mano. “Perché settecento anni fa non avevano un ufficio censimenti?”
Reid e qualche altro studente ridacchiarono. “Beh, certo, questo è vero. Ma è anche per via della velocità con cui la peste si è diffusa. Voglio dire, stiamo parlando della morte di un terzo della popolazione dell’Europa in due anni. Per farvi capire, sarebbe come se l’intera East Coast e la California svanissero.” Si appoggiò alla cattedra e incrociò le braccia. “Ora so che cosa state pensando. ‘Professor Lawson, lei non è il tizio che viene qui e ci parla della guerra?’ Sì, e adesso ci arrivo.”
“Qualcuno ha accennato alla conquista mongola. Per un breve periodo Genghis Khan ha avuto il più grande impero della storia, e il suo esercito marciò contro l’Europa dell’Est negli anni della peste in Asia. Si ritiene che Khan sia stato uno dei primi a usare quella che noi classifichiamo come guerra batteriologica; se una città non si arrendeva a lui, il suo esercito catapultava corpi infetti dalla peste oltre le mura nemiche e poi… gli bastava aspettare un po’.”
Il signor Wright, il ragazzo biondo in prima fila, arricciò il naso per il disgusto. “Non può essere vero.”
“È vero, glielo garantisco. Per esempio durante l’assedio di Caffa, in quella che ora è la Crimea, nel 1346. Vedete, vogliamo pensare che la guerra biologica sia un concetto nuovo, ma non lo è. Prima di avere i carri armati, o i droni, o i missili, o persino le pistole nel senso moderno, noi, uhm… loro, eh…”
“Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede Kate in tono accusatorio. I suoi occhi sono più spaventati che arrabbiati.
Dopo aver pronunciato la parola ‘pistole’, il ricordo gli apparve all’improvviso nella mente, lo stesso del giorno prima, ma più chiaro. Erano nella cucina della loro casa precedente, in Virginia. Kate aveva trovato qualcosa mentre spolverava i condotti dell’aria condizionata.
Una pistola sul tavolo, una piccola, una LC9 da nove millimetri argentata. Kate la indica come un oggetto maledetto. “Perché hai una cosa del genere, Reid?”
“È… solo per protezione,” menti.
“Protezione? Ma almeno sai come si usa? E se una delle ragazze l’avesse trovata?”
“Non la…”
“Lo sai quanto può essere curiosa Maya. Gesù. Non voglio nemmeno sapere come l’hai ottenuta. Non voglio questa cosa a casa nostra. Ti prego, portala via.”
“Ma certo. Mi dispiace, Katie.” Katie, il nome che usi solo quando è arrabbiata.
Prendi con esitazione l’arma dal tavolo, come se non fossi certo di come maneggiarla.
Dopo che se ne sarà andata a lavoro, dovrai recuperare le altre undici nascoste per tutta la casa. Sarà meglio trovare dei posti migliori.
“Professore?” Il ragazzo biondo, Wright, guardò Reid preoccupato. “Sta bene?”
“Uhm… sì.” Reid si raddrizzò e si schiarì la gola. Gli dolevano le dita; aveva stretto forte il bordo della cattedra quando il ricordo era riemerso. “Sì, scusatemi.”
Non aveva più alcun dubbio. Era sicuro che avesse perso almeno un ricordo di Kate.
“Uhm… scusate, ragazzi, ma non sono molto in forma,” disse alla classe. “Tutto a un tratto non mi sento bene. Per oggi… finiamola qui. Vi darò qualche capitolo da leggere, e riprenderemo lunedì.”
Gli tremavano le mani mentre enunciava i numeri delle pagine. Il sudore gli imperlava la fronte durante la lenta sfilata degli studenti fuori dalla porta. La ragazza mora si fermò alla sua cattedra. “Non ha un bell’aspetto, professor Lawson. Ha bisogno che chiamiamo qualcuno?”
Gli stava spuntano un’emicrania al centro della testa, ma si costrinse a sorridere in una maniera che sperò fosse educata. “No, grazie. Starò bene. Mi serve solo un po’ di riposo.”
“Okay. Spero che si senta meglio, professore.” Anche lei uscì dalla classe.
Non appena rimase da solo, frugò nel cassetto della cattedra, trovò un’aspirina e la mandò giù con dell’acqua da una bottiglia che aveva nella borsa.
Si appoggiò allo schienale della sedia e aspettò che i battiti del suo cuore rallentassero. Il ricordo che gli era appena tornato alla mente non aveva avuto solo un impatto psicologico o emotivo, ma anche uno molto fisico. Il pensiero di aver perso anche solo un istante delle sue memorie di Kate, quando già la moglie gli era stata strappata dalla vita, gli aveva fatto venire la nausea.
Dopo qualche minuto l’orrenda sensazione che aveva allo stomaco iniziò a calmarsi, ma non fu così per i pensieri che gli si agitavano nella testa. Non poteva più addurre delle scuse, doveva prendere una decisione. Avrebbe dovuto decidere che cosa voleva fare. A casa, in una scatola nel suo ufficio, c’era una lettera che indicava da chi sarebbe dovuto andare per chiedere aiuto: un medico svizzero di nome Guyver, il neurochirurgo che gli aveva installato il soppressore della memoria. Se qualcuno poteva far qualcosa per ripristinare i suoi ricordi, quello era lui. Reid aveva passato l’ultimo mese in preda all’incertezza, non sapendo se tentare o meno di recuperare tutta la memoria.
Ma un pezzo di sua moglie era svanito, e non aveva modo di sapere che cos’altro fosse stato occultato dal soppressore.
Ormai era pronto.
CAPITOLO SETTE
“Guardami,” disse l’Imam Khalil in arabo. “Per favore.”
Prese il ragazzo per le spalle in un gesto paterno, e si chinò per poterlo guardare direttamente in volto. “Guardami,” disse di nuovo. Non era un ordine, ma una gentile richiesta.
Omar faceva fatica a guardare Khalil negli occhi. Invece gli fissò il mento, la corta barba nera, rasata con cura sul collo. Studiò i risvolti della sua giacca marrone scuro, non molto costosa e tuttavia più elegante di qualsiasi abito Omar avesse mai visto. L’uomo anziano aveva un buon odore e parlava al ragazzo come se fossero stati alla pari, con un rispetto che nessuno gli aveva mai dimostrato prima. Era per tutti quei motivi che Omar non riusciva a costringersi a guardarlo negli occhi.
“Omar, sai che cosa è un martire?” stava chiedendo l’uomo. La sua voce era limpida ma non alta. Il ragazzo non aveva mai sentito l’Imam gridare.
Omar scosse la testa. “No, Imam Khalil.”
“Un martire è un tipo di eroe. Ma è qualcosa di più; è un eroe che si dona del tutto a una causa. Un martire è ricordato. Un martire è celebrato. Tu, Omar, tu sarai celebrato. Tu sarai ricordato. Tu sarai amato per sempre. Sai perché?”
Il ragazzo annuì leggermente, ma non parlò. Credeva negli insegnamenti dell’Imam, vi si era aggrappato come a un salvagente, e anche di più dopo che un bombardamento aveva ucciso la sua famiglia. Anche dopo essere stato cacciato dalla sua patria, la Siria, dai dissidenti. Tuttavia faceva fatica a credere a ciò che l’Imam Khalil gli aveva detto qualche giorno prima.
“Sei benedetto,” disse Khalil. “Guardami, Omar.” Con una certa difficoltà, il ragazzo alzò lo sguardo per incontrare gli occhi marroni dell’Imam, dolci e gentili ma allo stesso tempo intensi. “Tu sei il Mahdi, l’ultimo degli Imam. Il Redentore che libererà il mondo dai peccatori. Tu sei un salvatore, Omar. Lo capisci?”
“Sì, Imam.”
“E ci credi, Omar?”
Il ragazzo non era certo che fosse così. Non si sentiva speciale, o importante, o benedetto da Allah, ma tuttavia rispose: “Sì. Imam. Ci credo.”
“Allah mi ha parlato,” continuò piano Khalil, “e mi ha detto che cosa dobbiamo fare. Ti ricordi che cosa devi fare?”
Omar annuì. La sua missione era piuttosto semplice, anche se Khalil si era accertato che il ragazzo non avesse dubbi su che cosa avrebbe significato per lui.
“Bene. Bene.” Khalil fece un ampio sorriso. I suoi denti erano perfettamente bianchi e brillanti nel sole luminoso. “Prima che ci separiamo, Omar, mi faresti l’onore di pregare insieme a me per un momento?”
Gli tese una mano, e Omar la prese. Era calda e liscia nella sua. L’Imam chiuse gli occhi e mosse le labbra in parole silenziose.
“Imam?” disse il ragazzo in un sussurro. “Non dovremmo voltarci verso la Mecca?”
Ancora una volta Khalil fece un ampio sorriso. “Non oggi, Omar. Il vero Dio mi ha concesso un desiderio; oggi, io mi volto verso di te.”
I due uomini rimasero fermi insieme per un lungo istante, pregando in silenzio rivolti l’uno verso l’altro. Omar sentiva il calore del sole sul volto, e per il silenzioso minuto che seguì, pensò di percepire qualcosa, come se le dita invisibili di Dio gli stessero accarezzando una guancia.
Khalil era inginocchiato all’ombra di un piccolo aeroplano bianco. L’aereo poteva accogliere solo quattro persone e aveva delle eliche sulle ali. Omar non era mai stato più vicino di così a un velivolo, tranne che durante il volo dalla Grecia alla Spagna, che era stata l’unica volta che era stato su un aereo.
“Ti ringrazio per questo.” Khalil allontanò la mano da quella del ragazzo. “Ora devo andare, e tu devi fare lo stesso. Allah è con te, Omar, e che la pace sia con Lui e con te.” L’uomo anziano gli sorrise di nuovo, poi si voltò e salì sulla breve rampa che portava sull’aereo.
I motori partirono, emettendo un fischio iniziale che poi si trasformò in un rombo. Omar fece diversi passi all’indietro mentre il velivolo cominciava ad avanzare sulla piccola pista d’atterraggio. Lo guardò prendere velocità, sempre più rapido, fino a quando non si alzò in aria e alla fine svanì.
Da solo, Omar guardò dritto davanti a sé, godendosi il sole sul volto. Era una giornata calda, più calda rispetto alla media di quel periodo dell’anno. Poi iniziò il cammino di quatto miglia che lo avrebbe portato a Barcellona. Mentre procedeva, infilò una mano nella tasca, stringendo con delicatezza e protettivamente la piccola fiala di vetro.
Non riusciva a non chiedersi perché Allah non si fosse rivolto direttamente a lui. Invece il Suo messaggio era passato attraverso l’Imam. Gli avrei creduto? pensò Omar. O lo avrei ritenuto solo un sogno? L’Imam Khalil era santo e saggio, e aveva riconosciuto i segni quando erano apparsi. Omar era un giovane ragazzo ingenuo di soli sedici anni che sapeva ben poco del mondo, in particolare dell’Occidente. Forse non era stato adatto a sentire la voce di Dio.
Khalil gli aveva dato una manciata di Euro da portare con sé a Barcellona. “Prenditi il tuo tempo,” aveva detto l’uomo anziano. “Goditi un buon pasto. Te lo meriti.”
Omar non parlava spagnolo, e conosceva solo poche semplici frasi in inglese. Oltretutto non aveva fame, quindi invece di mangiare una volta arrivato in città, trovò una panchina da cui ammirare il panorama. Si sedette, chiedendosi perché proprio là, tra tutti i luoghi possibili.
Abbi fede, avrebbe detto l’Imam Khalil. Omar decise che l’avrebbe avuta.
Alla sua sinistra c’era l’Hotel Barceló Raval, uno strano edificio rotondo decorato con luci viola e rosse, da cui entravano e uscivano dei giovani ben vestiti. Non lo conosceva di nome, sapeva solo che sembrava un faro, che attraeva peccatori ricchi come una fiamma attrae le falene. Gli diede coraggio stare seduto davanti a quel palazzo, rinforzò la sua fede per fare ciò che si era ripromesso.
Omar prese con cura la fiala di vetro dalla tasca. Non sembrava che dentro ci fosse niente, o forse qualsiasi cosa contenesse era invisibile, come l’aria o un gas. Non aveva importanza. Sapeva bene che cosa doveva farci. Il primo passo era completo: entrare in città. Il secondo lo eseguì sulla panchina all’ombra del Raval.
Strinse la punta conica della fiala tra le dita e, con un piccolo movimento rotatorio, la staccò.
Un minuscolo frammento di vetro gli si infilò nel polpastrello. Guardò mentre si formava una goccia di sangue, ma resistette alla tentazione di infilarsi un dito in bocca. Invece fece quello che gli era stato detto: si infilò la fiala in una narice e inalò a fondo.
Non appena l’ebbe fatto, gli si strinse lo stomaco per la paura. Khalil non gli aveva spiegato nello specifico che cosa aspettarsi. Gli aveva solo detto di aspettare un po’, quindi rimase in attesa e fece del suo meglio per rimanere calmo. Osservò mentre altre persone entravano e uscivano dall’albergo, ognuna vestita in abiti appariscenti e lussuosi. Era ben consapevole del proprio abbigliamento umile, il logoro maglione, le guance macchiate, i capelli troppi lunghi e spettinati. Ricordò a se stesso che la vanità era un peccato.