Concessione D’armi - Морган Райс 3 стр.


Ripensò alla corda uncinata che O’Connor gli aveva mostrato prima della discesa, l’attrezzo di emergenza che usavano generalmente per scalare le mura durante un assedio. In caso dovesse servire, aveva detto O’Connor.

“O’Connor! La tua fune!” gli gridò Reece. “Lanciamela!”

Reece sollevò lo sguardo e vide O’Connor estrarre la fune dalla cintura, raddrizzarsi e conficcare l’uncino in una fenditura della parete rocciosa. Lo spinse con tutta la sua forza, ne testò diverse volte la tenuta e poi lanciò giù la corda, che si srotolò oltre Reece.

Non sarebbe potuta arrivare in un momento più appropriato. Il palmo sudato di Elden stava scivolando dalla presa di Reece e proprio mentre iniziava a cadere all’indietro, Elden allungò il braccio e afferrò la fune. Reece trattenne il fiato pregando che tenesse.

E così fu. Elden lentamente si tirò su, fino a che trovò un saldo punto d’appoggio. Si mise in piedi su un pianerottolo, con il fiatone, di nuovo in equilibrio. Fece un profondo sospiro di sollievo e lo stesso fece Reece. C’era veramente mancato poco.

*

Continuarono la discesa fino a che Reece non seppe quanto tempo fosse passato. Il cielo si fece più scuro e Reece era madido di sudore nonostante il freddo. Gli sembrava che ogni momento potesse essere l’ultimo della propria vita. Le mani e i piedi gli tremavano violentemente e il suono del suo respiro affannoso gli riempiva le orecchie. Si chiese quanto ancora avrebbe potuto resistere. Sapeva che se non avesse trovato presto il fondo avrebbero dovuto fermarsi a riposare, soprattutto con il calare della notte. Ma il problema era che non c’era un posto dove potersi fermare.

Reece non poteva fare a meno di chiedersi se, in caso fossero diventati troppo stanchi, avrebbero iniziato a cadere tutti, uno alla volta.

Si sentì improvvisamente un forte rumore di roccia e poi una piccola frana, decine di sassi, iniziarono a piovere verso il basso cadendo sulla testa di Reece, sul viso e negli occhi. Gli si fermò il cuore quando udì un grido, diverso questa volta: un grido di morte. Con la coda dell’occhio vide precipitare accanto a sé, quasi troppo velocemente per poterlo vedere, un corpo.

Reece allungò una mano per afferrarlo, ma accadde tutto troppo in fretta: tutto ciò che poté fare fu voltarsi e vedere Krog, in volo che si dimenava e gridava, cadendo di schiena verso il nulla.

CAPITOLO TRE

Kendrick era in groppa al suo cavallo, affiancato da Erec, Bronson e Srog, di fronte alle loro migliaia di uomini mentre si apprestavano ad affrontare gli uomini di Tiro e l’Impero. Erano finiti dritti in trappola. Erano stati venduti da Tiro e Kendrick si era reso conto troppo tardi di aver fatto un errore madornale a fidarsi di lui.

Kendrick guardò in alto alla propria destra e vide diecimila soldati dell’Impero proprio al limitare della valle, con le frecce pronte. A sinistra ce n’erano altrettanti. E davanti a loro ancora di più. Le poche migliaia di uomini che costituivano il suo esercito non avrebbero mai potuto sovrastare una tale quantità di nemici. Sarebbero stati macellati solo per aver tentato. E con tutti quegli archi spiegati la minima mossa avrebbe determinato il massacro dei suoi uomini. Logisticamente neppure trovarsi alla base della valle costituiva un aiuto. Tiro aveva scelto accuratamente il luogo per la sua imboscata.

Mentre Kendrick sedeva lì, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, il volto contratto per la rabbia e l’indignazione, fissò Tiro che sedeva in groppa al suo cavallo, fiero e con un sorriso di pieno compiacimento in volto. Accanto a lui si trovavano i quattro figli e lì vicino un comandante dell’Impero.

“Il denaro è talmente importante per te?” chiese Kendrick a Tiro, a poco più di tre metri da lui, la voce fredda come l’acciaio. “Hai il coraggio di vendere la tua stessa gente, il tuo stesso sangue?”

Tiro non mostrava alcun rimorso e sorrise ancor più soddisfatto.

“Il tuo popolo non sono il mio sangue, ricordi?” disse. “È per questo che, secondo la tua legge, non sono designato ad avere il trono di mio fratello.”

Erec si schiarì la voce furente.

“Le leggi dei MacGil fanno passare il trono di padre in figlio, non di fratello in fratello.”

Tiro scosse la testa.

“Del tutto irrilevante ora. Le vostre leggi non contano più. La forza trionfa sempre al di sopra della legge. Sono quelli che detengono il potere a dettare legge. E ora, come potete vedere, sono io il più forte. Il che significa che da ora in poi sono io a dettare la legge. Le generazioni future non ricorderanno nessuna delle vostre leggi. Tutto ciò che ricorderanno sarà che io, Tiro, sono stato re. Non tu, né tua sorella.”

“I troni presi illegalmente non durano mai a lungo,” lo rimbeccò Kendrick. “Puoi anche ucciderci, puoi anche convincere Andronico a garantirti un trono. Ma sia tu che io sappiamo bene che non regnerai a lungo. Verrai tradito dalla medesima slealtà che hai usato contro di noi.”

Tiro rimase al suo posto, per niente scosso.

“E allora mi godrò questi brevi giorni di potere finché durano e applaudirò l’uomo che mi tradirà con la medesima abilità che ho saputo usare io con voi.”

“Basta parole!” gridò il comandante dell’Impero. “Arrendetevi ora o i vostri uomini moriranno!”

Kendrick lo fissò furioso, sapendo che doveva arrendersi, ma per niente desideroso di farlo.

“Deponete le armi,” disse Tiro con voce calma e rassicurante, “e vi tratterò bene, da guerriero a guerriero. Sarete miei prigionieri di guerra. Posso anche non condividere le vostre leggi, ma onoro il codice di battaglia di un guerriero. Vi prometto che sotto la mia sorveglianza non vi verrà fatto alcun male.”

Kendrick guardò Bronson, poi Srog ed Erec, che ricambiarono lo sguardo. Rimasero tutti lì, tutti valorosi guerrieri in groppa a cavalli scalpitanti, in silenzio.

“Perché dovremmo fidarci di te?” chiese Bronson a Tiro. “Tu che hai già provato che la tua parola non significa nulla. Ho intenzione di morire qui sul campo di battaglia, giusto per spazzare via quel sorrisetto spavaldo dalla tua faccia.”

Tiro si voltò e guardò Bronson con espressione accigliata.

“Parli anche se non sei un MacGil. Sei un McCloud. Non hai il diritto di immischiarti negli affari dei MacGil.”

Kendrick venne in difesa dell’amico: “Bronson è tanto un MacGil quanto ciascuno di noi, ora. Le sue parole danno voce ai pensieri dei nostri uomini.”

Tiro digrignò i denti, chiaramente irritato.

“A te la scelta. Guardati attorno e vedi le nostre migliaia di arcieri già pronti in posizione. Sei stato fregato. Se solo allunghi le mano alla spada, i tuoi uomini si troveranno morti sul posto all’istante. Chiaramente puoi vederlo. Ci sono momenti per combattere e momenti per arrendersi. Se vuoi proteggere i tuoi uomini farai ciò che qualsiasi bravo comandante farebbe. Deponi le armi.”

Kendrick serrò la mandibola, sentendosi avvampare. Per quanto odiasse ammetterlo, sapeva che Tiro aveva ragione. Si diede un’occhiata attorno e capì all’istante che la maggior parte dei suoi uomini, se non tutti, sarebbero morti lì se solo avesse provato a combattere. Per quanto volesse lottare, sarebbe stata una scelta egoista, e per quanto disprezzasse Tiro, sentiva che diceva la verità e che ai suoi uomini non sarebbe stato fatto del male. Fino a che sarebbero vissuti, avrebbero sempre potuto lottare in un altro momento, in qualche altro luogo o su qualche altro campo di battaglia.

Kendrick guardò Erec, un uomo con il quale aveva combattuto innumerevoli volte, il campione dell’Argento, e capì che anche lui stava pensando la medesima cosa. Era diverso essere un capitano o un semplice guerriero: un guerriero poteva combattere con abbandono e avventatezza, ma un capitano doveva pensare per prima cosa agli altri.

“C’è un tempo per le armi e un tempo per la resa,” dichiarò Erec. “Prenderemo per buona la tua parola di guerriero che ai nostri uomini non venga fatto alcun male, e a questa condizione deporremo le nostre armi. Ma se violerai la tua parola, che Dio abbia pietà dell’anima tua, tornerò dall’inferno per vendicare ciascuno dei miei uomini.”

Tiro annuì soddisfatto ed Erec allungò la mano lasciando cadere a terra la spada e il fodero, che atterrarono con un tonfo metallico.

Kendrick lo imitò e così fecero anche Bronson e Srog, tutti riluttanti ma sapendo che era la cosa più saggia da fare.

Dietro di loro si udì lo schianto di migliaia di armi che cadevano al suolo mentre tutti i MacGil e i Silesiani si arrendevano.

Tiro sorrise.

“Ora scendete da cavallo,” ordinò loro.

Uno alla volta scesero e si misero davanti ai loro cavalli.

Tiro sorrise assaporando la vittoria.

“Per tutti gli anni durante i quali sono stato esiliato nelle Isole Superiori e ho invidiato la Corte del Re, il mio fratello maggiore e tutto il suo potere. Ma ora quale fra i MacGil detiene tutto il potere?”

“Il potere della slealtà non è potere per niente,” gli rispose Bronson.

Tiro si accigliò e fece un cenno ai suoi uomini.

Quelli scattarono in avanti e con delle rozze funi legarono a tutti i polsi. Poi iniziarono a trascinarli via in qualità di prigionieri.

Mentre Kendrick veniva tirato, improvvisamente gli vene in mente suo fratello, Godfrey. Erano partiti tutti insieme, eppure non aveva ancora visto né lui né i suoi uomini da nessuna parte. Si chiese se in qualche modo fosse riuscito a fuggire e pregò che trovasse un destino migliore del loro. In qualche modo si sentiva ottimista.

Con Godfrey non si poteva mai sapere.

CAPITOLO QUATTRO

Godfrey cavalcava a capo dei suoi uomini, affiancato da Akorth, Fulton e il suo generale Silesiano, procedendo accanto al comandante dell’Impero che aveva deliberatamente pagato. Godfrey cavalcava con il sorriso stampato in viso, ben più che soddisfatto mentre osservava la divisione degli uomini dell’Impero, diverse migliaia di forti soldati che cavalcavano con loro, spinti dalla stessa causa.

Rifletté con soddisfazione sulla paga che aveva dato loro – infinite borse d’oro – richiamando alla memoria l’espressione sui loro volti, felice che il suo piano avesse funzionato. Non ne era stato certo fino all’ultimo momento, e per la prima volta poteva tirare un sospiro di sollievo. C’erano molti modi di vincere una battaglia, dopotutto, e lui ne aveva appena vinta una senza spargere una sola goccia di sangue. Probabilmente questo non lo rendeva cavalleresco o coraggioso come gli altri guerrieri. Ma era pur sempre vittorioso. E a conti fatti non era forse quello l’obiettivo? Preferiva mantenere i suoi uomini in vita usando un po’ di corruzione che vederne metà uccisi nel  mezzo di qualche avventato atto di cavalleria. Era così che era fatto.

Godfrey aveva lavorato sodo per ottenere ciò che aveva. Aveva utilizzato tutte le sue conoscenze del mercato nero attraverso bordelli, vicoli secondari e taverne per scoprire chi dormiva con chi, quali bordelli venivano frequentati dai comandanti dell’Impero nell’Anello e quale comandante in particolare fosse più disponibile ad vendersi per denaro. Godfrey aveva una sacco di contatti illeciti – in effetti aveva trascorso tutta la sua vita a raccoglierli – e ora gli erano tornati utili. E non gli aveva nuociuto per nulla pagare profumatamente ciascuno dei suoi contatti. Alla fine aveva fatto buon uso dell’oro di suo padre.

Ciononostante non poteva sapere se fossero veramente affidabili, non fino all’ultimissimo momento. Non c’era nessuno capace di imbrogliare quanto un ladro, e lui aveva dovuto cogliere l’occasione che gli si offriva. Sapeva che si trattava di un terno al lotto e che quelle persone erano tanto affidabili quanto l’oro con il quale li pagava. Ma li aveva comprati con oro veramente molto fino e loro si erano dimostrati più affidabili di quanto avesse immaginato.

Ovviamente non sapeva per quanto tempo quella divisione di truppe dell’Impero gli sarebbero rimasti leali. Ma almeno avevano scampato una battaglia e per il momento li avevano dalla loro parte.

“Mi ero sbagliato sul vostro conto,” disse una voce.

Godfrey si voltò e vide il generale Silesiano portarsi accanto a lui e guardarlo con ammirazione.

“Devo ammettere che ho dubitato di voi,” continuò. “Mi scuso. Non potevo immaginare il piano che avevate programmato. Ingegnoso. Non metterò più in dubbio le vostre parole.”

Godfrey sorrise, sentendosi rivendicato. Tutti i generali, tutti i tipi dell’esercito, avevano dubitato di lui per tutta la vita. Alla corte di suo padre, una corte di guerrieri, era sempre stato guardato con disdegno. Ora, finalmente, si stavano rendendo conto che, a modo suo, anche lui poteva essere competente quanto loro.

“Non ti preoccupare,” disse Godfrey. “Mi metto in dubbio io stesso. Sto imparando strada facendo. Non sono un comandante e non ho alcun piano geniale se non quello di sopravvivere in ogni modo possibile.”

“E ora dove andiamo?” chiese il generale.

“A raggiungere Kendrick, Erec e gli altri e fare ciò che possiamo per supportare la loro causa.”

Continuarono a galoppare, migliaia di uomini, una sgraziata e turbolenta alleanza tra i soldati dell’Impero e quelli di Godfrey, salendo e scendendo dalle colline, percorrendo lunghe, aride e polverose pianure, diretti verso la valle dove Kendrick aveva dato loro appuntamento.

Mentre avanzavano un milione di pensieri si rincorrevano nella mente di Godfrey. Si chiese come se la fossero cavata Kendrick ed Erec; si chiese quanto si fossero trovati in minoranza numerica e si chiese come se la sarebbe cavata lui stesso nella battaglia successiva, una battaglia vera. Non c’era più modo di evitarla, non aveva altri assi nella manica e aveva finito l’oro.

Deglutì nervoso. Sentiva di non avere lo stesso livello di coraggio che tutti gli altri sembravano avere e per cui sembravano essere tutti nati. Tutti gli altri sembravano così impavidi in battaglia e anche nella vita. Ma Godfrey doveva ammettere che aveva paura. Quando si veniva al sodo, alla battaglia vera e propria, sapeva che non si sarebbe tirato indietro. Ma era tuttavia goffo e impacciato, non aveva le abilità degli altri e non sapeva per quante altre volte gli dei della fortuna lo avrebbero assistito.

Agli altri sembrava non interessare se sarebbero morti: sembravano tutti desiderosi di donare le loro vite per la gloria. Godfrey apprezzava la gloria. Ma amava di più la vita. Amava la sua birra, il suo cibo: anche ora sentiva lo stomaco che brontolava, avvertiva l’urgenza di tornarsene alla salvezza della taverna da qualche parte. Una vita di battaglia non faceva per lui, punto e basta.

Ma poi pensò a Thor, là fuori da qualche parte, prigioniero. Pensò a tutti i suoi parenti che combattevano per la medesima causa e capì che lì il suo onore, per quanto macchiato, lo costringeva ad andare.

Continuarono a galoppare e finalmente giunsero alla sommità di un picco da cui riuscirono a vedere l’intera vallata che si apriva sotto di loro. Si fermarono e Godfrey strizzò gli occhi, accecato dal sole, cercando di ricomporsi e trovare un senso a ciò che aveva di fronte. Sollevò una mano per fare schermo contro  la luce e guardò, confuso.

Poi, con orrore, tutto divenne chiaro. Gli si fermò il cuore: là sotto migliaia di uomini di Kendrick, di Srog e di Erec venivano trascinati via, legati come prigionieri. Quelle erano le forze armate con le quali avrebbe dovuto incontrarsi. Erano completamente circondati da un numero di soldati dell’Impero almeno dieci volte superiore al loro esercito. Erano a piedi, i polsi legati, tutti prigionieri, tutti condotti via. Godfrey sapeva che Kendrick ed Erec non si sarebbero mai arresi a meno che non ci fosse una buona ragione. Sembrava che fossero stati incastrati.

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