Concessione D’armi - Морган Райс 4 стр.


Godfrey rimase impietrito, paralizzato dal panico. Si chiese come potesse essere successo. Si era aspettato di trovarli tutti nel bel mezzo di una battaglia ad armi pari, si era aspettato di lanciarsi alla carica e unirsi a loro. Invece ora stavano scomparendo all’orizzonte, ormai a mezza giornata di cammino da loro.

Il generale dell’Impero si portò accanto a Godfrey e lo sbeffeggiò.

“Sembra che i tuoi uomini abbiano perso,” gli disse. “Questo non faceva parte del nostro patto.”

Godfrey si voltò verso di lui e vide quanto ansioso sembrasse.

“Ti ho pagato bene,” gli disse nervosamente, ma cercando di mostrare una voce più sicura possibile mentre sentiva che il suo patto si stava sgretolando. “E tu hai promesso di unirti a me nella mia causa.”

Ma il generale dell’Impero scosse la testa.

“Ti ho promesso di seguirti in battaglia, non in una missione suicida. Le mie poche migliaia di uomini non potrebbero mai prevalere contro un intero battaglione di soldati di Andronico. Il nostro patto cambia. Puoi attaccarli da solo, io mi tengo comunque il tuo oro.”

Il generale dell’Impero si voltò e gridò spronando il proprio cavallo e partendo verso la direzione opposta, con tutti i suoi uomini alle calcagna. Presto scomparvero dall’altra parte della valle.

“Ha il nostro oro!” disse Akorth. “Non dovremmo seguirlo?”

Godfrey scosse la testa mentre li guardava scomparire.

“E che cosa ci guadagniamo? L’oro è oro. Non ho intenzione di rischiare la vita per esso. Lasciamoli andare. Ci sarà dell’altro.”

Godfrey si voltò e guardò l’orizzonte, il gruppo di uomini di Kendrick ed Erec che scomparivano in lontananza, cosa che gli stava più a cuore. Ora era senza riserve e si trovava ancora più isolato di prima. Sentì che tutti i suoi piani gli crollavano addosso.

“E adesso?” gli chiese Fulton.

Godfrey scrollò le spalle.

“Non ne ho idea,” rispose.

“Non dovresti dire una cosa del genere,” disse Fulton. “Ora sei un comandante.”

Ma Godfrey non fece che scrollare le spalle un’altra volta. “Dico la verità.”

“Questa cosa del guerriero è roba tosta,” disse Akorth, grattandosi la pancia mentre si toglieva l’elmo. “Non sembra funzionare come vorresti, giusto?”

Godfrey stava fermo a cavallo, scuotendo la testa e soppesando il da farsi. La sorte era girata in un modo che non aveva previsto un piano di riserva.

“Dobbiamo girarci e tornare indietro?” chiese Fulton.

“No,” Godfrey udì rispondere dalla sua stessa voce, sorprendendo addirittura se stesso.

Gli altri si voltarono a guardarlo, scioccati. Altri si avvicinarono di più per udire i suoi ordini.

“Potrò anche non essere un grande guerriero,” disse, “ma quelli laggiù sono miei fratelli. E li stanno portando via. Non possiamo tornare indietro. Anche se questo significa morire.”

“Siete impazzito?” chiese il generale Silesiano. “Tutti quegli ottimi guerrieri dell’Argento, dei MacGil, dei Silesiani, tutti insieme non sono riusciti a sconfiggere gli uomini dell’Impero. Come potete pensare che poche migliaia dei nostri uomini, sotto il vostro comando, possano farcela?”

Godfrey si voltò a guardarlo, irritato. Era stanco di essere messo in dubbio.

“Non ho mai detto che potremmo vincere,” ribatté. “Dico solo che questa è la cosa giusta da fare. Non li abbandonerò. Ora, se voi intendete girarvi e tornare a casa, sentitevi liberi di farlo. Li attaccherò da solo.”

“Siete un comandante senza esperienza,” disse accigliandosi. “Non avete idea di che cosa state parlando. Condurrete questi uomini a morte certa.”

“Lo so,” disse Godfrey. “È vero. Ma hai promesso di non mettere più in dubbio la mia parola. E io non ho intenzione di tornare indietro.”

Godfrey si portò diversi metri avanti, salendo su un promontorio in modo da poter essere ben visto da tutti i suoi uomini.

“UOMINI!” gridò con voce tonante. “So che non mi considerate un comandante provetto, come Kendrick, Erec o Srog. Ed è vero, non possiedo le loro abilità. Ma ho cuore, almeno all’occorrenza. E anche voi. Quello di cui sono certo è che quelli sono nostri fratelli, fatti prigionieri. E io stesso preferisco fare a meno di vivere, che rimanere a guardare mentre li portano via davanti ai nostri occhi per poi tornare a casa come cani, alle nostre città, aspettando che l’Impero venga a uccidere anche noi. Siatene certi: un giorno ci uccideranno.  Ora possiamo morire tutti, sui nostri piedi, combattendo, attaccando il nemico da uomini liberi. Oppure possiamo morire in vergogna e disonore. A voi la scelta. Venite con me e, vivi o no, andrete verso gloria certa!”

Si levò tra i suoi uomini un grido, talmente entusiasta da sorprendere Godfrey. Sollevarono tutti le spade in aria e questo gli diede maggiore coraggio.

E gli fece anche capire la verità di ciò che aveva appena detto. Non aveva realmente pensato alle parole che pronunciava: era semplicemente stato trascinato dal momento. Ora si rendeva conto che aveva preso un impegno e se ne sentiva un poco scioccato. Il suo coraggio intimidiva lui stesso.

Mentre gli uomini erano ormai incontenibili sui loro cavalli, sistemavano le armi e si preparavano per l’ultimo attacco, Akorth e Fulton gli si avvicinarono.

“Un goccio?” chiese Akorth.

Godfrey abbassò lo sguardo e lo vide allungare un otre di vino. Glielo strappò dalle mani, gettò la testa indietro e bevve a grosse sorsate, fino quasi a svuotarlo interamente, senza quasi fermarsi per prendere fiato. Alla fine Godfrey si asciugò la bocca con il dorso della mano e porse nuovamente l’otre all’amico.

Cos’ho mai fatto? Si chiese. Si era impegnato, e con sé aveva vincolato gli altri, in una battaglia che non poteva vincere. Aveva pensato la cosa giusta?

“Non pensavo che avessi tanto fegato,” gli disse Akorth, dandogli una forte pacca sulla schiena e ruttando. “Bel discorso. Meglio che a teatro!”

“Avremmo dovuto chiedere il biglietto!” si intromise Fulton.

“Sono convinto che non ti sbagli,” disse Akorth. “Meglio morire in piedi che sulla schiena.”

“Anche se sulla schiena non sarebbe poi così male, se fosse nel letto di un bordello,” aggiunse Fulton.

“Ben detto!” disse Fulton. “Oppure che ne direste di morire con un boccale di birra in mano e la testa reclinata indietro?”

“Anche questa non sarebbe male,” disse Akorth, bevendo.

“Ma dopo un po’ credo che diventerebbe tutto noioso,” disse Fulton. “Quanti boccali può bere un uomo e quante donne può portarsi a letto?”

“Beh, un sacco se ci pensi bene,” disse Akorth.

“Ma nonostante tutto penso possa essere più divertente morire in un modo diverso. Non così noioso.”

Akorth sospirò.

“Bene, se sopravviveremo a tutto questo, almeno avremo un motivo per farci veramente una bella bevuta. Per una volta nella nostra vita, potremo dire di essercela guadagnata.”

Godfrey si voltò da un’altra parte, cercando di non dare retta al continuo chiacchiericcio di Akorth e Fulton. Aveva bisogno di concentrarsi. Era giunto il tempo per lui di diventare un uomo, di lasciarsi alle spalle astuti scambi di battute e scherzi da taverna. Era arrivato il momento di prendere decisioni reali, che avessero effetto su uomini reali in  un mondo reale. Si sentiva una certa pesantezza addosso e non poteva fare a meno di chiedersi se anche suo padre si fosse sentito così. In qualche strano modo, anche se odiava quell’uomo, stava iniziando a provare una certa empatia con lui. E forse addirittura, con suo orrore, stava cominciando ad assomigliargli.

Dimenticando il pericolo davanti a lui, Godfrey venne sopraffatto da un impeto di sicurezza. Improvvisamente spronò il cavallo e con un grido di guerra si lanciò al galoppo verso la valle.

Dietro di lui si levò il grido di battaglia di migliaia di uomini e i passi dei loro cavalli gli riempirono le orecchie mentre lo seguivano.

Godfrey già si sentiva la testa leggera, il vento tra i capelli, il vino che gli dava alla testa mentre galoppava incontro a morte sicura, chiedendosi in cosa diavolo si fosse invischiato.

CAPITOLO CINQUE

Thor era in sella al suo cavallo, suo padre da una parte e McCloud dall’altra, Rafi poco più in là. Dietro di loro sedevano decine di migliaia di soldati dell’Impero, la divisione principale dell’esercito di Andronico, tutti disciplinati e pazienti in attesa di un ordine da parte di Andronico. Si trovavano tutti in cima a un crinale e guardavano verso l’Altopiano, con le sue vette ricoperte di neve. In cima all’Altopiano si trovava la città di McCloud – Highlandia – e Thor si irrigidì vedendo migliaia di uomini che uscivano dalle mura dirigendosi verso di loro, pronti alla battaglia.

Non erano uomini di MacGil e neppure dell’Impero. Indossavano un’armatura che Thor riconobbe a malapena, ma mentre stringeva la presa sull’elsa della sua nuova spada, non si sentiva perfettamente sicuro di chi fossero o del perché stessero attaccando.

“Uomini dei McCloud. I miei soldati di un tempo,” spiegò McCloud ad Andronico. “Tutti ottimi guerrieri. Tutti uomini che un tempo ho allenato e con i quali ho combattuto.”

“Ma ora ti si sono rivoltati contro,” osservò Andronico. “Si stanno lanciando alla carica per scontrarsi con te in battaglia.”

McCloud si accigliò. Senza un occhio e con metà del volto marchiato con il sigillo dell’Impero, aveva un aspetto grottesco.

“Mi spiace, mio signore,” disse. “Non è colpa mia. È tutta opera di mio figlio, Bronson. Ha scagliato la mia stessa gente contro di me. Se non fosse per lui, ora sarebbero tutti qui al mio fianco per sostenere la tua grandiosa causa.”

“Non dipende da tuo figlio,” lo corresse Andronico, la voce tagliente come l’acciaio, voltandosi verso di lui. “È perché sei un comandante debole e un padre ancora più debole. Il fallimento in tuo figlio è il tuo fallimento. Avrei dovuto sapere che saresti stato incapace di controllare i tuoi stessi uomini. Avrei dovuto ucciderti molto tempo fa.”

McCloud deglutì, nervoso.

“Mio signore, devi anche considerare che non stanno combattendo solo contro di me, ma anche contro di te. Vogliono sbarazzarsi dell’Impero e liberare l’Anello.”

Andronico scosse la testa, portando una mano alla sua collana di teste mozzate.

“Ma ora tu sei dalla mia parte,” disse. “Quindi combattere contro di me significa anche combattere contro di te.”

McCloud sguainò la spada, guardando con sguardo torvo l’esercito che si avvicinava.

“Andrò a combattere e uccidere ogni singolo uomo del mio precedente esercito,” dichiarò.

“So che lo farai,” disse Andronico. “Se così non fosse, ti ucciderei con le mie stesse mani. Non che abbia bisogno del tuo aiuto. I miei uomini possono creare ben più danni di quanti tu possa mai neanche sognarne, soprattutto se guidati dal mio stesso figlio, Thornico.”

Thor sedeva a cavallo e sentiva vagamente la conversazione tra i due, a tratti non ascoltandola per niente. Era come intontito. La sua mente brulicava di pensieri sconosciuti dei quali non aveva ricordo, pensieri che gli pulsavano nel cervello e gli ricordavano continuamente l’alleanza che aveva giurato a suo padre, il dovere di combattere per l’Impero, il suo destino di figlio di Andronico. Questi pensieri vorticavano senza sosta nella sua testa e per quanto ci provasse era impossibile riuscire a liberare la mente e avere pensieri propri. Era come trovarsi preso in ostaggio nel proprio stesso corpo.

Mentre Andronico parlava, ognuna delle sue parole diventava un suggerimento nella mente di Thor, tramutandosi poi in un ordine. Poi in qualche modo diventava il suo stesso pensiero. Thor combatté con se stesso, dato che una parte di sé avrebbe voluto sbarazzarsi di quei sentimenti invasivi e raggiungere così un punto di chiarezza. Ma più lottava, più difficile diveniva liberarsi.

Mentre sedeva a cavallo, guardando l’esercito che avanzava verso di loro al galoppo attraversando la piana, sentiva il sangue che gli scorreva vorticosamente nelle vene e tutto ciò a cui riusciva a pensare era la sua lealtà a suo padre, il suo bisogno di annientare chiunque si mettesse in mezzo ai piedi nel loro cammino. Il suo destino di comandare l’Impero.

“Thornico, mi hai sentito?” lo richiamò Andronico. “Sei pronto a dare prova di te in battaglia per tuo padre?”

“Sì, padre mio,” rispose Thor guardando fisso davanti a sé. “Combatterò contro chiunque si schieri contro di te.”

Andronico sorrise soddisfatto. Si voltò e si rivolse ai suoi uomini.

“UOMINI!” gridò con voce tonante. “È venuto il tempo di affrontare il nemico, di sbarazzare l’Anello dei suoi sopravvissuti ribelli una volta per tutte. Inizieremo da questi uomini di McCloud che osano sfidarci. Thornico, mio figlio, vi guiderà in battaglia. Lo seguirete come seguireste me. Darete la vostra vita per lui come fareste per me. Ogni tradimento contro di lui è un tradimento contro di me!”

“THORNICO!” gridò Andronico.

“THORNICO!” gli fece eco il coro di decine di migliaia di soldati dell’Impero alle sue spalle.

Thor, incoraggiato, sollevò in aria la sua nuova spada, la spada dell’Impero, quella che l’adorato padre gli aveva dato. Sentì il potere scorrergli dentro, il potere della sua linea di sangue, del suo popolo, di tutto ciò che gli dava significato. Finalmente era di nuovo a casa, di nuovo con suo padre. Per suo padre avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si sarebbe anche gettato contro la morte.

Thor lanciò un alto grido di battaglia, spronò il cavallo e scese al galoppo verso la valle, il primo a lanciarsi in battaglia. Dietro di lui si levò un forte grido di battaglia mentre decine di migliaia di uomini lo seguivano, tutti pronti a seguirlo fino alla morte.

CAPITOLO SEI

Micople sedeva rannicchiata, rinchiusa nell’immensa rete di acdonio, incapace di allungarsi e di sbattere le ali. Si trovava a bordo della nave dell’Impero e nonostante tutti gli sforzi non riusciva a sollevare il collo, a muovere le zampe o ad allungare gli artigli. Non si era mai sentita peggio di così in vita sua, non aveva mai fatto esperienza di una simile mancanza di libertà e di forza. Era accoccolata a forma di palla, sbatteva lentamente le palpebre e si sentiva abbattuta, più per Thor che per se stessa.

Micople poteva percepire l’energia di Thor, anche a quella distanza, anche se la nave stava attraversando l’oceano, oscillando tra onde mostruose che la facevano salire e ridiscendere infrangendosi contro lo scafo. Micople poteva anche avvertire il cambiamento di Thor: sentiva che stava diventando qualcun altro, non più l’uomo che aveva conosciuto. Questo le spezzava il cuore. Non poteva fare a meno di sentirsi come se in qualche modo lo avesse abbandonato. Tentò un’altra volta di divincolarsi, così desiderosa di andare da lui e salvarlo. Ma semplicemente era impossibile liberarsi.

Un’onda enorme si abbatté sul ponte e l’acqua schiumante del Tartuvio arrivò fin sotto alla rete facendola scivolare e mandandola a sbattere la testa contro il legno dello scafo. Micople tremò e ringhiò, avendo ormai perso lo spirito e la forza di un tempo. Si stava rassegnando al suo nuovo destino, sapendo che la stavano portando lontano per ucciderla o peggio per tenerla in cattività. Non le interessava cosa ne sarebbe stato di lei. Voleva solo che Thor stesse bene. E voleva un’occasione, solo un’ultima possibilità di vendetta contro i suoi aggressori.

“Guarda dov’è! Scivolata per mezzo pontile!” gridò uno dei soldati dell’Impero.

Назад Дальше