Concessione D’armi - Морган Райс 6 стр.


Mentre marciavano, passando in rassegna un’altra volta i morti, i pensieri di Selese andarono a Reece. Nonostante tutto quello che la circondava, non riusciva a levarselo dalla testa. Aveva fatto tutto il viaggio fino a Silesia per trovarlo e stare con lui. Ma il destino li aveva separati troppo presto, quella stupida guerra li aveva trascinati in due direzioni diverse. Si chiedeva a ogni momento che passava se lui fosse in salvo. Si chiedeva dove si trovasse precisamente sul campo di battaglia. E a ogni cadavere che passava, guardava velocemente il volto con un senso di timore, sperando e pregando che non fosse lui. Lo stomaco le si stringeva a ogni corpo che avvicinava, fino a che non lo rigirava e vedeva il volto, capendo che non era lui. E ogni volta sospirava di sollievo.

Però a ogni passo che facevano era sempre tesa, temeva di trovarlo ferito o, ancora peggio, morto. Non sapeva se sarebbe potuta andare avanti in caso fosse successo.

Era determinata a trovarlo, vivo o morto. Aveva viaggiato fino a lì e non sarebbe tornata indietro fino a che non avesse saputo cosa gli aveva riservato il destino.

“Non ho visto tracce di Godfrey,” disse Illepra, guardando per terra mentre procedevano.

Illepra aveva parlato di Godfrey a tratti da quando erano partite ed era ovvio che anche lei era cotta di lui.

“Neppure io,” le rispose Selese.

Erano in costante dialogo, entrambe rapite dai due fratelli, Reece e Godfrey, due fratelli che non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro. Selese, personalmente, non riusciva a capire cosa Illepra trovasse in Godfrey. A lei sembrava solo un ubriacone, uno sciocco, uno da non prendere sul serio. Era divertente e simpatico, e certamente furbo. Ma non era il tipo di uomo che Selese desiderava. Lei voleva un uomo sincero, serio, sensibile. Voleva un uomo che mostrasse cavalleria e onore. E Reece era perfetto per lei.

“Non so come possa essere sopravvissuto a tutto questo,” disse Illepra tristemente.

“Lo ami, vero?” le chiese Selese.

Illepra arrossì e distolse lo sguardo.

“Non ho mai parlato di amore,” disse sulla difensiva. “Sono solo preoccupata per lui. È solo un amico.”

Selese sorrise.

“Davvero? Allora perché non smetti mai di parlare di lui?”

“Parlo sempre di lui?” chiese Illepra. “Non me ne ero accorta.”

“Sì, costantemente.”

Illepra scrollò le spalle e tacque.

“Immagino che in qualche modo mi dia sui nervi. Mi fa impazzire a volte. Sono sempre lì a trascinarlo fuori dalle taverne. Ogni volta mi promette che non ci tornerà più. Ma poi non mantiene mai la parola. Mi irrita, sul serio. Lo getterei nell’immondizia, se potessi.”

“È per questo che sei così ansiosa di trovarlo?” le chiese Selese. “Per gettarlo da parte?”

Ora toccò a Illepra sorridere.

“Forse no,” disse. “Forse lo voglio anche abbracciare.”

Svoltarono attorno a una collina e arrivarono accanto a un soldato, un Silesiano. Giaceva sotto a un albero, lamentandosi, una gamba chiaramente rotta. Selese lo poteva vedere anche da lì grazie al suo occhio esperto. Accanto, legati all’albero, c’erano due cavalli.

Le due ragazze gli corsero accanto.

Mentre si preparava a curargli la ferita – un profondo taglio nella coscia – Selese non poté trattenersi dal chiedere ciò che domandava a ogni soldato che incontrava: “Hai visto qualcuno della famiglia reale? Hai visto Reece?”

Tutti gli altri soldati si erano voltati scuotendo la testa e distogliendo lo sguardo e ora Selese era così abituata alla delusione che anche ora si aspettava una risposta negativa.

Ma con sua sorpresa il soldato fece un cenno affermativo con la testa.

“Non ero insieme a lui, ma l’ho visto, sì mia signora.”

Selese sgranò gli occhi per l’eccitazione e la speranza.

“È vivo? È ferito? Sai dove si trova?” gli chiese con il cuore che accelerava il battito e stringendogli il polso.

L’uomo annuì.

“Sì. Si è imbarcato in una missione speciale. Recuperare la Spada.”

“Quale spada?”

“La Spada della Dinastia.”

Lei lo guardò con stupore. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda.

“Dove?” chiese disperata. “Dove si trova?”

“Si è diretto verso l’Attraversamento Orientale.”

L’Attraversamento Orientale, pensò Selese. Era lontano, molto lontano. Non c’era modo di poterlo raggiungere a cavallo. Non a quel passo. E se Reece si trovava lì era sicuramente in pericolo. Aveva sicuramente bisogno di lei.

Quando ebbe finito di curare il soldato, guardò oltre e notò i due cavalli legati all’albero. Dato che quell’uomo aveva una gamba rotta non c’era modo che potesse cavalcare. I due cavalli gli sarebbero risultati inutili. E molto presto sarebbero morti se nessuno si fosse preso cura di loro.

Il soldato notò come Selese li guardava.

“Prendili, signora,” le propose. “Non ne avrò sicuramente bisogno.”

“Ma sono tuoi,” disse lei.

“Non posso cavalcarli. Non in queste condizioni. Puoi usarli tu. Prendili e trova Reece. È un lungo viaggio da qui e non ce la faresti a piedi. Mi hai dato un grande aiuto. Non morirò qui. Ho cibo e acqua per tre giorni. Arriveranno degli uomini a prendermi. Le pattuglie passano per di qua continuamente. Prendili e vai.”

Selese gli strinse i polsi, sopraffatta dalla gratitudine. Si voltò verso Illepra, determinata.

“Devo andare a trovare Reece, mi spiace. Ci sono due cavalli qui. Tu puoi prendere l’altro per qualsiasi luogo tu debba andare. Io devo attraversare l’Anello e dirigermi verso l’Attraversamento Orientale. Mi spiace, ma devo lasciarti.”

Selese montò a cavallo e fu sorpresa vedendo Illepra salire di corse sull’altro. Poi allungò un braccio con la sua spada corta e tagliò le funi che tenevano gli animali legati all’albero.

Si voltò verso Selese e sorrise.

“Pensavi davvero, dopo tutto quello che abbiamo attraversato insieme, che ti avrei lasciata andare da sola?” le chiese.

Selese sorrise. “Direi di no,” rispose.

Le due spronarono i cavalli e partirono, galoppando lungo la strada, dirette verso est, da qualche parte – Selese pregava – verso Reece.

CAPITOLO NOVE

Gwendolyn stava rannicchiata, il mento basso contro il vento e la neve, percorrendo il bianco campo infinito. Alistair, Steffen e Aberthol erano sempre al suo fianco, Krohn vicino alla sua gamba. Tutti e cinque erano in marcia da ore, fin da quando avevano attraversato il Canyon entrando nel Mondo Inferiore, e Gwen era esausta. I muscoli le facevano male e anche lo stomaco le doleva: forti fitte andavano e venivano di tanto in tanto mentre il bambino di muoveva. Quello che la circondava era un mondo completamente bianco, la neve cadeva senza sosta finendole negli occhi e l’orizzonte non offriva alcuna varietà. Non c’era nulla a spezzare la monotonia del paesaggio e Gwen si sentiva come se stessero camminando verso l’estremità assoluta della terra.

Si era fatto anche più freddo e, nonostante le pellicce, Gwendolyn sentiva il gelo che le entrava nelle ossa. Le mani erano già intorpidite.

Guardò avanti e vide che anche gli altri stavano tremando, tutti intenti a combattere il freddo, e iniziò a chiedersi se non avesse fatto un grave errore a portarsi lì. Anche se Argon si trovava lì, senza alcun segno all’orizzonte come avrebbero mai potuto trovarlo? Non c’era nessuna strada, nessun sentiero e Gwen provava un senso di crescente disperazione non avendo idea di dove si stessero dirigendo. Tutto ciò di cui era certa era che si stavano allontanando dal Canyon, sempre più a nord. Anche se avessero trovato Argon, come avrebbero mai potuto aiutarlo? Era possibile liberarlo?

A Gwen sembrava di essere arrivata a un luogo non inteso per gli umani, un luogo sovrannaturale adatto a stregoni e druidi, a forze misteriose e magiche che lei non poteva capire. Le sembrava di sconfinare in un altro mondo.

Avvertì un’altra forte fitta alla pancia, sentendo il bambino che continuava a girarsi e rigirarsi dentro di lei. Questa volta il dolore fu così intenso da farle quasi mancare il fiato e facendola barcollare per un momento.

Una mano rassicurante le afferrò il polso e la tenne in piedi.

“Mia signora, ti senti bene?” le chiese Steffen, sopraggiunto velocemente accanto a lei.

Gwen chiuse gli occhi, fece un respiro profondo, gli occhi umidi per il dolore, e annuì. Si fermò un momento e si mise una mano sulla pancia. Era evidente che il suo bambino non era felice di trovarsi lì. Non lo era neppure lei.

Gwen rimase lì per qualche momento, respirando affannosamente, fino a che il dolore svanì. Si chiese nuovamente se si fosse sbagliata ad avventurarsi in quel luogo, ma poi pensò a Thor e il suo desiderio di salvarlo trionfò su tutto il resto.

Ricominciarono a camminare e mentre il dolore si attenuava, Gwendolyn temette non solo per il suo bambino, ma anche per gli altri. In quelle condizioni non sapeva quanto avrebbero resistito e non sapeva neppure se a quel punto sarebbero potuti tornare indietro. Erano incastrati. Quello era un territorio completamente inesplorato, non esistevano mappe e non si scorgeva alcuna meta.

Il cielo era tinto di una luce viola, ogni cosa riluceva di ambra e violetto, facendola sentire ancora più disorientata. Non c’era senso di giorno e notte in quel luogo. Era un’interminabile marcia nel nulla.

Aberthol aveva ragione: era veramente un altro mondo, un abisso di neve e vuoto, il luogo più desolato che lei avesse mai visto.

Gwendolyn si fermò un momento per prendere fiato e nello stesso istante sentì una mano calda e rassicurante che le si posava sulla pancia, cogliendola di sorpresa.

Si voltò e vide Alistair accanto a sé che, con una mano sul suo ventre, la guardava con preoccupazione.

“Tu porti un bambino in grembo,” le disse. Era più un’affermazione che una domanda.

Gwendolyn la fissò, scioccata che lei sapesse, soprattutto dato che la sua pancia era ancora piatta. Non aveva più la forza di mantenere il segreto e annuì.

Alistair le fece un cenno di consapevolezza.

“Come fai a saperlo?” le chiese.

Ma Alistair si limitò a chiudere gli occhi e a fare un profondo respiro, tenendo la mano sulla pancia di Gwen. Era una sensazione confortevole e Gwen si sentì pervadere da un benefico calore.

“Un bambino molto potente,” disse Alistair, sempre con gli occhi chiusi. “Ha paura. Ma non sta male. Andrà tutto bene. Ora lo sto privando dei suoi timori.”

Gwendolyn sentì delle ondate di piacere e calore scorrerle dentro. Presto si sentì completamente ristorata.

Era colma di gratitudine e amore per Alistair e si sentiva inspiegabilmente legata a lei.

“Non so come ringraziarti,” le disse alzandosi e sentendosi di nuovo quasi normale quando Alistair tolse la mano.

Alistair abbassò la testa con umiltà.

“Non c’è nulla di cui ringraziarmi,” le rispose. “È quello che faccio.”

“Non mi hai detto che eri incinta, mia signora,” le disse Aberthol con serietà. “Se l’avessi saputo non avrei mai suggerito un viaggio del genere.”

“Mia signora, non potevo immaginare,” disse Steffen.

Gwendolyn scrollò le spalle, non volendo tutte quelle attenzioni sul suo bambino.

“E chi è il padre?” chiese Aberthol.

Gwen sentì un profondo senso di incertezza quando pronunciò il nome: “Thorgrin.”

Gwen si sentiva combattuta. Provava ondate di senso di colpa per ciò che aveva fatto a Thor, per come si erano salutati; allo stesso tempo provava sentimenti contrastanti riguardo la linea di sangue del suo bambino. Si immaginò la faccia di Andronico e rabbrividì.

Aberthol annuì.

“Un lignaggio eccellente,” disse. “Porti un guerriero dentro di te.”

“Mia signora, darei la mia vita per proteggere il tuo bambino,” disse Steffen.

Krohn le si avvicinò, appoggiò la testa sulla sua pancia e la leccò diverse volte, piagnucolando.

Gwen era sopraffatta dalla loro gentilezza e si sentiva sostenuta.

Improvvisamente Krohn si voltò e li sorprese tutti ruggendo ferocemente. Fece diversi passi avanti verso la neve accecante, il pelo dritto. Scrutò nella neve, ignorando tutto il resto.

Gwen e gli altri si guardarono confusi. Anche Gwen scrutò fra la neve ma non riuscì a vedere nulla. Non aveva mai udito Krohn ruggire a quel modo.

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