Attese, come aveva fatto tutta la notte, perdendo le speranze. Non sapeva se sarebbe mai tornata da lui dopo il suo ultimo sforzo.
“Alistair,” la implorò ancora e ancora. “Per favore. Alzati per me.”
Erec attese, guardandola, ma lei non si mosse. Era così ferma, priva di conoscenza, bella come non mai alla luce della luna. Erec avrebbe voluto che tornasse in vita.
Poi distolse lo sguardo, abbassò la testa e chiuse gli occhi. Forse era tutto perduto, dopotutto. Semplicemente a quel punto non c’era altro che potesse fare.
“Sono qui,” disse una voce leggera, risuonando nella notte.
Erec sollevò lo sguardo pregno di speranza e si voltò vedendo Alistair che lo guardava. Il cuore iniziò a battergli con maggior forza, sopraffatto di amore e gioia. Appariva esausta, gli occhi aperti a malapena, e lo guardava con sguardo assonnato.
“Alistair, amore mio,” le disse con urgenza. “Ho bisogno di te. Solo quest’ultima volta. Non posso fare questa cosa senza di te.”
Lei chiuse gli occhi a lungo, poi li riaprì appena.
“Cosa ti serve?” gli chiese.
“Le nostre funi,” le disse. “Abbiamo bisogno che ci liberi. Tutti.”
Alistair chiuse ancora gli occhi e trascorse parecchio tempo durante il quale Erec non poté sentire altro che il vento che accarezzava la nave, il gentile sciabordio delle onde contro lo scafo. Un pesante silenzio riempì l’aria e mentre passava altro tempo, Erec ebbe la certezza che non li avrebbe più riaperti.
Alla fine, lentamente, la vide aprire gli occhi di nuovo.
Con quello che apparve essere uno sforzo estremo, Alistair sollevò le palpebre, alzò il mento e si guardò attorno nella nave, osservando tutto con attenzione. Vide che i suoi occhi cambiavano colore, brillando di blu e accendendo la notte come due torce.
Improvvisamente le funi di Alistair si ruppero. Erec le sentì spezzarsi nella notte, poi la vide sollevare le mani davanti a sé. Fece scaturire da esse una luce intensa.
Un attimo dopo Erec sentì un intenso calore dietro la schiena, lungo i polsi. Erano incredibilmente caldi, poi improvvisamente le funi iniziarono ad allentarsi. Con uno strappo alla volta Erec sentì che tutte le corde si rompevano fino a che fu capace di finire il lavoro da solo.
Erec sollevò i polsi e li guardò incredulo. Era libero. Era veramente libero.
Udì uno schiocco di corde e si voltò vedendo che anche Strom si liberava dalle funi. Gli schiocchi continuarono in tutta la nave e anche sulle altre ed Erec vide tutti i suoi uomini liberarsi, uno alla volta.
Guardarono tutti Erec che si portò un dito alle labbra facendo loro segno di fare silenzio. Erec vide che le guardie non si erano accorte di nulla. Tutte davano loro le spalle, in piedi al corrimano, parlando tra loro e guardando la notte. Ovviamente nessuno di loro era allerta.
Erec fece cenno a Strom e agli altri di seguirlo e in silenzio fece strada strisciando verso le guardie.
“Ora!” ordinò.
Scattò in azione e tutti lo seguirono, correndo all’unisono fino a che raggiunsero le guardie. Quando furono vicini alcuni dei soldati, allertati dagli scricchiolii del legno sul ponte, si voltarono iniziando a sguainare la spada.
Ma Erec e gli altri, tutti duri guerrieri, tutti disperatamente desiderosi di ottenere una possibilità di sopravvivenza, li batterono sul tempo muovendosi velocissimi nella notte. Strom balzò addosso a uno di essi e gli afferrò il polso prima che potesse girarsi. Erec portò una mano alla cintura dell’uomo, sguainò il suo pugnale e gli tagliò la gola mentre Strom gli prendeva la spada. Nonostante tutte le loro differenze i due fratelli lavoravano perfettamente insieme, combattendo come fossero una persona sola.
Gli uomini di Erec strapparono le armi alle guardie, uccidendole con le loro stesse spade e pugnali. Altri si limitarono a placcare i soldati che si muovevano troppo lentamente, spingendoli oltre il corrimano e facendoli precipitare, gridando, in mare.
Erec vide che anche sulle altre sue navi i suoi uomini stavano uccidendo guardie a destra e a sinistra.
“Tagliate le ancore!” ordinò Erec.
Su tutte le navi i suoi uomini tagliarono le funi che li tenevano fermi sul posto e presto Erec percepì la familiare sensazione della nave che dondolava sotto i suoi piedi. Finalmente erano liberi.
Suonarono dei corni, si sentirono delle grida e le torce vennero accese lungo le navi mentre la grandiose flotta dell’Impero si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Erec si voltò e guardò verso il muro di navi che bloccava loro il passaggio verso il mare aperto. Capì che davanti a sé aveva la battaglia della sua vita.
Ma non gli interessava. I suoi uomini erano vivi. Erano liberi. Ora avevano un’occasione.
E ora, questa volta, sarebbero caduti combattendo.
CAPITOLO QUATTRO
Dario si sentì il viso spruzzato dal sangue e voltandosi vide una decina dei suoi uomini massacrati da un soldato dell’Impero a cavallo di un immenso destriero nero. Il soldato faceva roteare una spada più grande che mai e con un solo colpo netto aveva tagliato addirittura dodici teste.
Dario udì le grida che si levavano tutt’attorno a lui e si girò da ogni parte vedendo ovunque uomini che venivano uccisi. Era una scena surreale. Tiravano fendenti fortissimi e i suoi uomini iniziarono a cadere a decine, poi a centinaia, poi a migliaia.
Dario si trovò improvvisamente in piedi su un piedistallo da dove poteva vedere a perdita d’occhio solo cadaveri. Tutto il suo popolo, gente morta ammassata all’interno delle mura di Volusia. Non era rimasto nessuno. Non un singolo uomo.
Dario lanciò un forte grido di dolore, di impotenza. Poi si sentì afferrare da dietro da un soldato dell’Impero che lo trascinava via, tra le grida, nell’oscurità.
Dario si svegliò di soprassalto annaspando per respirare e dimenandosi. Si guardò attorno cercando di capire cosa stesse accadendo, cosa fosse reale e cosa un sogno. Udì un rumore di catene e quando i suoi occhi si abituarono al buio iniziò a rendersi conto da dove quel rumore provenisse. Abbassò lo sguardo e vide le sue caviglie legate con delle pesanti catene. Sentì dolori e botte su tutto il corpo, il bruciore di ferite fresche. Si ritrovò ricoperto di ferite impregnate di sangue secco. Il dolore era continuo e si sentiva come se fosse stato preso a pugni da un milione di uomini. Aveva un occhio talmente gonfio da stare aperto appena.
Lentamente Dario si voltò e si guardò in giro. Da una parte era sollevato che fosse stato tutto un sogno, ma mentre considerava tutto iniziò lentamente a ricordare e il dolore tornò. Era stato un sogno, ma c’era anche molta verità in esso. Gli tornarono alla mente dei frammenti di ricordi della battaglia contro l’Impero all’interno dei cancelli di Volusia. Ricordò l’imboscata, i cancelli che si chiudevano, i soldati che li circondavano, tutti i suoi uomini che venivano massacrati. Il tradimento.
Si sforzò di ricordare tutto e l’ultima cosa che gli venne in mente, dopo aver ucciso numerosi soldati dell’Impero, fu di aver ricevuto un colpo in testa inferto con il manico di un’ascia.
Allungò una mano, facendo tintinnare le catene, e sentì il grosso livido al lato della testa che scendeva fino al gonfiore dell’occhio. Quello non era stato un sogno. Era tutto reale.
Gli tornò tutto alla mente e Dario fu pervaso dall’angoscia, dal pentimento. I suoi uomini, tutta la gente che aveva amato, erano stati uccisi. E tutto a causa sua.
Si guardò attorno nervosamente nella scarsa luce, cercando un qualche segno di qualcuno dei suoi uomini, un qualsiasi segno di sopravvissuti. Magari molti erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri come lui.
“Muoviti!” disse una voce rude nel buio.
Dario sentì delle mani ruvide che lo afferravano da sotto le braccia e lo tiravano in piedi, poi uno stivale gli diede un calcio dietro alla schiena.
Sbuffò di dolore inciampando in avanti, con le catene che sferragliavano, sentendosi volare contro la schiena di un ragazzo che gli stava davanti. Il ragazzo si voltò e gli diede una gomitata in faccia, facendolo barcollare indietro.
“Non provarti a toccarmi di nuovo,” gli ringhiò contro.
Lì a fissarlo c’era un ragazzo dall’aspetto disperato, in catene come lui. Si accorse quindi di essere legato in una lunga fila di ragazzi disposti sia davanti che dietro di lui, uniti tra loro da lunghe catene di ferro pesante che congiungevano i loro polsi e le loro caviglie. Lo stavano conducendo lungo una buia galleria di pietra. Dei supervisori dell’Impero li prendevano a calci e a gomitate lungo il cammino.
Dario scrutò i volti meglio che poté, ma non riconobbe nessuno.
“Dario!” sussurrò una voce. “Non cadere di nuovo. Ti uccideranno!”
Il cuore gli balzò in gola al suono di quella voce familiare e voltandosi vide un po’ più indietro Desmond, Raj, Kraz e Luzi, i suoi vecchi amici, tutti e quattro incatenati, tutti dall’aspetto emaciato come probabilmente appariva anche lui. Lo guardavano tutti con sollievo, chiaramente felici che fosse vivo.
“Parla di nuovo,” sibilò un supervisore rivolgendosi a Raj, “e ti taglio la lingua.”
Dario, per quanto fosse felice di rivedere i suoi amici, si interrogò su tutti gli innumerevoli altri uomini che avevano combattuto e prestato servizio per lui, che lo avevano seguito tra le strade di Volusia.
Il supervisore andò oltre lungo la linea e quando scomparve alla vista Dario si voltò e rispose con un sussurro: “E gli altri? È sopravvissuto qualcun altro?”
Pregò segretamente che centinaia dei suoi uomini ce l’avessero fatta, che stessero aspettando da qualche parte, magari prigionieri.
“No,” giunse una decisa risposta da dietro. “Ci siamo solo noi. Tutti gli altri sono morti.”
Dario si sentì come se gli avessero dato un pugno in pancia. Si sentiva come se avesse tradito tutti e nonostante tutto una lacrima gli scese lungo la guancia.
Gli veniva voglia di piangere. Una parte di lui avrebbe voluto morire. Poteva capacitarsene a malapena: tutti quei guerrieri provenienti da tutti quei villaggi di schiavi… Era stato l’inizio di quella che poteva essere la più grandiosa rivoluzione cha mai ci fosse stata, una rivoluzione che avrebbe cambiato per sempre il volto dell’Impero.
Ed era terminata di colpo in un massacro di massa.
Adesso ogni possibilità di libertà per loro era andata distrutta.
Mentre camminava, dolorante per le ferite ed i lividi, per le catene che gli affondavano nella pelle, Dario si guardò attorno e iniziò a chiedersi dove fosse. Si chiese chi fossero quegli altri prigionieri e dove li stessero portando. Mentre li guardava si accorse che erano tutti più o meno della sua età e sembravano tutti straordinariamente in forma. Parevano essere tutti combattenti.
Svoltarono a una curva nella buia galleria di pietra e la luce del sole improvvisamente apparve davanti a loro filtrando attraverso le sbarre di ferro che avevano sopra la testa, alla fine della galleria. Dario si sentì spingere violentemente, colpito alle costole da una mazza, e si affrettò in avanti insieme agli altri fino a che le sbarre vennero aperte e gli venne dato un ultimo calcio. Si trovò fuori, alla luce del giorno.
Dario incespicò in avanti insieme agli altri e tutti caddero insieme nella polvere. Dario sputò terra dalla bocca e sollevò le mani per proteggersi dai forti raggi del sole. Altri gli rotolarono addosso, tutti stretti da catene.
“In piedi!” gridò un supervisore.
Andavano di ragazzo in ragazzo e li colpivano con le mazze. Alla fine Dario si alzò in piedi insieme agli altri. Barcollò mentre, incatenato insieme agli altri ragazzi, cercava di mantenere l’equilibrio.
Si trovarono in piedi di fronte al centro di un cortile di terra largo forse una quindicina di metri e contornato da alte mura di pietra con delle aperture chiuse da sbarre. Di fronte a loro, in piedi al centro, intento ad osservarli con sguardo severo c’era un supervisore, chiaramente il loro comandante. Incombeva su di loro, più grande e più alto degli altri, con pelle e corna gialle, gli occhi rossi scintillanti, senza camicia e con i muscoli ben evidenti. Indossava un’armatura nera che gli proteggeva le gambe, degli stivali e delle fasce di pelle ai polsi. Portava gli stemmi da ufficiale dell’Impero e camminava avanti e indietro esaminandoli tutti con aria colma di disapprovazione.
“Io sono Morg,” disse con voce cupa, tuonante e carica di autorità. “Mi chiamerete signore. Sono il vostro nuovo guardiano. Sono tutta la vostra vita adesso.”
Respirava rumorosamente mentre camminava, un suono del tutto simile a un ringhio.
“Benvenuti nella vostra nuova casa,” continuò. “Cioè, la vostra casa provvisoria. Perché prima che la luna sia alta in cielo sarete tutti morti. In effetti sarà un grosso piacere vedervi morire tutti.”
Sorrise.
“Ma fino a che sarete qui,” aggiunse, “vivrete. Vivrete per assecondare me. Vivrete per assecondare gli altri. Vivrete per assecondare l’Impero. Siete nostri oggetti di intrattenimento ora. Od oggetti da esibizione. Il nostro intrattenimento saranno le vostre morti. E lo metterete bene in pratica.”
Sorrise crudelmente continuando a camminare osservandoli con attenzione. Venne un forte grido da qualche parte in lontananza e tutto il terreno tremò sotto i piedi di Dario. Sembrava il grido di centomila uomini assetati di sangue.
“Udite quel grido?” chiese. “È il grido della morte. Sete di morte. Laggiù, oltre quelle mura, si trova una grande arena. In quell’arena combatterete con gli altri, tra di voi. Fino a che non sarà rimasto nessuno.”
Sospirò.
“Ci saranno tre round di battaglia,” aggiunse. “In quello finale, se qualcuno di voi sopravviverà, vi verrà assicurata la libertà: vi verrà assicurata una possibilità di combattere nella più grande arena. Ma non siate troppo speranzosi: nessuno è mai sopravvissuto così a lungo.
“Non morirete velocemente,” aggiunse. “Sono qui per accertarmene. Voglio che moriate lentamente. Voglio che siate grandiosi oggetti di intrattenimento. Imparerete a combattere, e lo imparerete bene, pe prolungare il piacere. Perché non siete più uomini. Non siete schiavi. Siete meno degli schiavi: siete gladiatori adesso. Benvenuti nel vostro nuovo e ultimo ruolo. Non durerà moltissimo.”
CAPITOLO CINQUE
Volusia camminava nel deserto, le sue centinaia di migliaia di uomini dietro di lei, il rumore dei loro stivali a riempire l’aria attorno. Era un dolce suono alle sue orecchie, un suono di progresso, di vittoria. Guardava davanti a sé mentre procedeva ed era soddisfatta di vedere i cadaveri sparpagliati all’orizzonte, ovunque sulla sabbia dura e secca attorno alla capitale dell’Impero. Migliaia, dappertutto, tutti perfettamente immobili, stesi sulle schiene con i volti pietrificati dall’agonia rivolti ora verso il cielo, come se fossero stati appiattiti da una gigantesca ondata.
Volusia sapeva che non era stata un’ondata. Era opera dei suoi stregoni, i Voks. Avevano scagliato un incantesimo molto potente e avevano ucciso tutti coloro che pensavano di poterle tendere un’imboscata e ucciderla.
Volusia sogghignava mentre marciava, contemplando il suo lavoro e godendosi quel giorno di vittoria in cui aveva annientato con un colpo solo coloro che volevano eliminarla. Erano tutti capi dell’Impero, tutto uomini grandiosi, uomini che non erano mai stati sconfitti prima, l’unica barriera ancora in piedi tra lei e la capitale. E adesso erano tutti lì, quei capi dell’Impero, tutti quegli uomini che avevano osato sfidarla, tutti quegli uomini che avevano pensato di essere più furbi di lei. Erano lì, tutti morti.