Sogno Da Mortali - Морган Райс 4 стр.


Volusia camminava tra loro, a volte evitando i corpi, altre scavalcandoli, altre ancora – se ne aveva voglia – calpestandoli. Provava una grossa soddisfazione nel sentire la carne dei nemici sotto i propri piedi. La faceva sentire ancora bambina.

Volusia sollevò lo sguardo e vide la capitale davanti a sé, la sua enorme cupola dorata che brillava inconfondibile in lontananza; vide le massicce mura che la circondavano, alte una trentina di metri; notò l’ingresso delimitato da imponenti portoni d’oro. Provò un brivido percependo il proprio destino che si stava dispiegando davanti a lei. Ora niente si trovava più tra lei e il definitivo seggio del potere. Niente più politici, capi o comandanti potevano porsi davanti a lei con la pretesa di governare l’Impero. Solo lei poteva farlo. La lunga marcia, la conquista di una città dopo l’altra per tutti quei cicli lunari; la crescita del suo esercito prelevando soldati da una città alla volta, alla fine aveva portato a quel risultato. Appena dietro a quelle mura, subito dietro a quei luccicanti portoni dorati, si trovava la conquista finale. Presto sarebbe stata all’interno, avrebbe preso il trono del potere e a quel punto non ci sarebbe stato più nessuna persona o cosa a fermarla. Avrebbe assunto il comando di tutti gli eserciti dell’Impero, di tutte le province e regioni, dei quattro corni e delle due punte; ogni singola creatura dell’Impero avrebbe dovuto dichiarare lei – un’umana – proprio comandante supremo.

Ancora di più: avrebbero dovuto chiamarla Dea.

Il pensiero la fece sorridere. Avrebbe fatto erigere statue di sé in ogni città, davanti a ogni sala del potere; avrebbe istituito festività in suo nome, avrebbe fatto salutare la gente tra loro con l’uso del suo nome e l’Impero avrebbe presto conosciuto nessun altro nome se non il suo.

Volusia marciava davanti al suo esercito sotto il sole della mattina presto, esaminando quelle porte dorate e rendendosi conto che quello sarebbe stato uno dei migliori momenti della sua vita. Facendo strada ai suoi uomini si sentiva invincibile, soprattutto ora che tutti i traditori all’interno dei suoi ranghi erano morti. Quanto stupidi erano stati, pensò, a credere che lei fosse così ingenua, a dare per scontato che sarebbe caduta nella loro trappola solo perché era giovane. Così stupidi per la loro età attempata, erano andati talmente oltre da cascarci loro stessi. Si erano guadagnati solo una morte prematura, una morte prematura per aver sottovalutato la sua saggezza, una saggezza molto superiore alla loro.

Eppure Volusia, mentre camminava e osservava i corpi dei soldati dell’Impero disseminati nel deserto, iniziava a provare un crescente senso di preoccupazione. Si rendeva conto che non c’erano così tanti corpi come avrebbero dovuto. C’erano forse qualche migliaia di cadaveri, ma non le centinaia di migliaia che si era aspettata, non la parte principale dell’esercito dell’Impero. Quei capi non avevano portato tutti i loro uomini? E se era così, dove potevano essere adesso?

Iniziò a interrogarsi: con i suoi capi morti la capitale dell’Impero si sarebbe difesa da sola?

Mentre si avvicinava ai cancelli della città Volusia fece cenno a Vokin di avvicinarsi e al suo esercito di fermarsi.

All’unisono si fermarono dietro a lei e alla fine calò il silenzio nella mattinata sul deserto: non si udiva nient’altro che il suono del vento che soffiava, della sabbia che si sollevava in aria, dei cespugli di spine che rotolavano. Volusia osservò con attenzione le massicce porte sigillate, l’oro decorato con figure, segni e simboli che narravano le antiche battaglie delle terre dell’Impero. Quelle porte erano famose in tutto l’Impero: si diceva che ci fossero voluti cento anni per realizzarle e che fossero spesse più di tre metri. Erano un segno di potenza che rappresentava tutte le terre dell’Impero.

Volusia, ad appena quindici metri di distanza, non era mai stata così vicina all’ingresso della capitale prima d’ora e lo contemplava a bocca aperta. Non solo era un simbolo di forza e stabilità, ma anche un capolavoro, un’antica opera d’arte. Avrebbe voluto allungare una mano e toccare quelle porte dorate, far scorrere le dita sulle immagini intagliate.

Ma sapeva che ora non era il momento. Le osservò percependo un senso di inquietudine crescerle dentro. C’era qualcosa che non andava. Non erano sorvegliate. E c’era troppo silenzio.

Volusia guardò davanti a sé e in cima alle mura vedendo migliaia di soldati dell’Impero che lentamente apparivano sui parapetti, allineati. Guardavano in basso con lance e archi pronti.

Nel mezzo si trovava un generale che li guardò.

“Siete dei folli a venire così vicini,” disse con voce tonante e riecheggiante. “Siete a portata di tiro per le nostre lance e per i nostri archi. A uno schiocco delle mie dita vi posso far uccidere in un istante.”

“Ma voglio graziarvi,” aggiunse. “Comanda ai tuoi soldati di deporre le armi e vi permetterò di vivere.”

Volusia guardò il generale che aveva il volto in ombra, controluce. Era l’unico comandante rimasto a difendere la capitale. Poi guardò lungo i bastioni vedendo i suoi uomini, tutti con gli occhi puntati su di lei, con gli archi alla mano. Capì che intendeva ogni singola parola che aveva detto.

“Ti darò io la possibilità di deporre le vostre armi,” rispose lei, “prima di uccidere tutti i tuoi uomini e ridurre questa capitale in macerie, dandole fuoco.”

L’uomo ridacchiò, poi lui ei suoi uomini abbassarono le visiere e si prepararono alla battaglia.

Veloce come il fulmine Volusia udì improvvisamente il rumore di migliaia di frecce che venivano scoccate e di migliaia di lance che venivano scagliate. Sollevando lo sguardo vide il cielo annerirsi, pieno di armi che erano dirette verso di lei.

Lei rimase ferma al suo posto, priva di paura e senza neppure muoversi. Sapeva che nessuna di quelle armi poteva farle del male. Dopotutto era una dea.

Accanto a lei Vokin alzò una sola mano verde e una sfera dello stesso colore partì dal suo palmo e fluttuò in aria davanti a lei, costruendo uno scudo di luce verde a poche decine di centimetri dalla sua testa. Un attimo dopo le frecce e le lance rimbalzarono innocue e caddero a terra in un grosso mucchio.

Volusia guardò con soddisfazione quel cumulo sempre più grosso di lance e frecce, poi sollevò lo sguardo verso i volti stupiti dei soldati dell’Impero.

“Vi concedo un’altra possibilità di deporre le armi!” gridò Volusia.

Il comandante dell’Impero rimase lì serio, chiaramente frustrato e dibattuto su cosa fare, ma non si spostò. Fece invece cenno ai suoi uomini e Volusia li vide preparare un’altra raffica.

Volusia fece cenno a Vokin e poi ai suoi uomini. Decine di Voks si fecero avanti e si allinearono sollevando le mani in alto sopra le loro teste e dirigendo i loro palmi contro i nemici. Un attimo dopo decine di sfere verdi si libravano dalle loro mani e riempivano il cielo dirigendosi verso le mura della capitale.

Volusia guardò con trepidazione, aspettandosi che le mura si sbriciolassero, aspettandosi di vedere tutti quegli uomini cadere ai suoi piedi, aspettandosi di vedere che la capitale diveniva sua. Era già ansiosa di sedersi sul trono.

Ma vide con sorpresa e delusione che le sfere di luce verde rimbalzavano contro le mura della capitale senza arrecare alcun danno, poi scomparivano in grandi lampi di luce. Non capiva: non funzionavano.

Volusia guardò Vokin che aveva lo stesso aspetto sorpreso.

Il comandante dell’Impero, in alto, rise.

“Non siete gli unici ad usare la stregoneria,” disse. “Queste mura non possono essere toccate da nessuna magia: hanno sostenuto la prova del tempo per migliaia di anni, hanno tenuto alla larga barbari, interi eserciti più grandi del tuo. Non esiste magia che possa toccarle, solo mani umane.”

Fece un ampio sorriso.

“Quindi vedi,” aggiunse, “hai commesso lo stesso errore di tanti altri potenziali conquistatori prima di te. Ti sei fidata della stregoneria per avvicinarti alla capitale e ora ne pagherai il prezzo.”

Lungo i bastioni suonarono dei corni e Volusia si voltò scioccata di vedere un esercito di soldati allinearsi all’orizzonte. Riempivano di nero la linea dell’orizzonte, erano centinaia di migliaia, un esercito vastissimo, molto più grande degli uomini che aveva alle sue spalle. Erano stati tutti chiaramente in attesa dietro alle mura, dalla parte opposta della capitale, nel deserto, in attesa del comando da parte del loro generale. Non solo era incappata in un’altra battaglia, ma in una guerra vera e propria.

Suonò un altro corno e improvvisamente le massicce porte d’oro davanti a lei iniziarono ad aprirsi. Mentre si allargavano sempre di più dall’interno giunse un forte grido di battaglia e migliaia di soldati dell’Impero emersero lanciandosi contro di loro.

Nello stesso istante anche le centinaia di migliaia di soldati all’orizzonte si lanciarono all’attacco, dividendo l’esercito attorno alla città e attaccando da entrambe le parti.

Volusia rimase ferma, sollevò un pugno in alto e poi lo abbassò di scatto.

Dietro di lei il suo esercito lanciò un grido di battaglia e corse in avanti per scontrarsi con gli uomini dell’Impero.

Volusia sapeva che quella sarebbe stata la battaglia che avrebbe deciso il destino della capitale, il vero destino dell’Impero. I suoi stregoni l’avevano abbandonata, ma i suoi soldati non l’avrebbero fatto. Dopotutto lei poteva essere più brutale di qualsiasi altro uomo e non aveva bisogno della stregoneria per farlo.

Vide gli uomini venire verso di lei e rimase ferma al suo posto, assaporando la possibilità di uccidere o essere uccisa.

CAPITOLO SEI

Gwendolyn aprì gli occhi sentendo una fitta e un bozzo sulla testa. Si guardò attorno disorientata. Vide che si trovava stesa sul fianco, su una dura piattaforma di legno, e che tutto le ruotava attorno. Udì un piagnucolio e sentì qualcosa di umido sulla guancia. Girandosi vide Krohn accoccolato accanto a lei intento a leccarle la faccia. Il cuore le si gonfiò di gioia. Krohn sembrava malaticcio, affamato, esausto, ma almeno era vivo. Questo era tutto ciò che contava. Anche lui era sopravvissuto.

Gwen si leccò le labbra e si rese conto che non erano più secche come prima. Fu sollevata di poterle addirittura leccare, dato che prima la sua lingua era stata troppo gonfia anche solo per muoversi. Sentì un rivoletto d’acqua fresca entrarle in bocca e vide con la coda dell’occhio uno di quei nomadi del deserto vicino a lei con un fiasco in mano. Gwen leccò l’acqua con piacere fino a che lui smise di versarla.

Quando ritrasse la mani Gwen gli afferrò un polso e lo tirò verso Krohn. Inizialmente il nomade parve sorpreso, ma poi capì e versò dell’acqua anche nella bocca del leopardo. Gwen si sentì sollevata guardando Krohn che lappava l’acqua e beveva rimanendo sdraiato, ansimante, accanto a lei.

Gwen sentì un’altra fitta alla testa, un altro colpo mentre la piattaforma tremava. Si guardò attorno, si girò di lato e non vide altro che cielo davanti a sé, le nuvole che scorrevano sopra di lei. Sentì il corpo sollevarsi, sempre più in alto in aria a ogni colpo, non capendo cosa stesse accadendo né dove si trovasse. Non aveva la forza di mettersi a sedere, ma poteva allungare il collo abbastanza da vedere che era sdraiata su un’ampia piattaforma di legno sostenuta da corde a ogni estremità. Qualcuno dall’alto stava tirando le funi, facendole scricchiolare, e a ogni strattone la piattaforma si sollevava sempre di più. La stavano issando lungo delle ripide e interminabili pareti rocciose, le stesse pareti che aveva visto prima di perdere i sensi. Quelle stesse pareti in cima alle quali si trovavano bastioni e scintillanti cavalieri.

Ricordando Gwen si voltò e allungò il collo guardando in basso. Subito le girò la testa: si trovavano a decine di metri da terra e salivano sempre più.

Si rigirò e guardò in alto. Una trentina di metri sopra di loro vide dei bastioni, anche se la visuale era oscurata dal sole. I cavalieri guardavano verso il basso ed erano sempre più vicini a ogni colpo di fune.

Gwen si voltò immediatamente e scrutò la piattaforma, sentendosi traboccante di sollievo vedendo che tutta la sua gente era ancora con lei: Kendrick, Sandara, Steffen, Arliss, Aberthol, Illepra, la piccola Krea, Stara, Brandt, Atme e diversi guerrieri dell’Argento. Si trovavano tutti stesi su delle piattaforme, tutti sorvegliati dai nomadi che versavano acqua nelle loro bocche e sui loro volti. Gwen provò un’ondata di gratitudine nei confronti di quelle strane creature nomadi che avevano salvato loro la vita.

Chiuse nuovamente gli occhi, pose la testa sul duro legno, sentendo Krohn raggomitolato accanto a lei, e la testa le parve pesare tonnellate. Tutto era comodamente silenzioso, lassù non c’era alcun suono se non quello del vento e dello scricchiolio delle funi. Aveva fatto un viaggio così lungo e per così tanto tempo: si chiese quando sarebbe finito. Presto si sarebbero trovati in cima, e pregava solo che i cavalieri, chiunque fossero, fossero ospitali come quei nomadi del deserto.

A ogni strattone della fune i soli si facevano sempre più forti, sempre più caldi, nessuna ombra sotto la quale ripararsi. Si sentiva quasi sul punto di friggere, come se la stessero portando verso il centro del sole.

Gwendolyn aprì gli occhi sentendo un ultimo scossone e si rese conto di essersi addormentata un’altra volta. Percepì del movimento e si accorse che i nomadi la stavano trasportando con cautela posando lei e la sua gente di nuovo sui teli di stoffa e trasportandoli dalla piattaforma ai parapetti. Si sentì alla fine appoggiata giù, delicatamente, sul pavimento di pietra. Sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre diverse volte al sole. Era troppo stanca per sollevare il collo, non era sicura di essere ancora sveglia o di sognare.

Vide decine di cavalieri che le si avvicinavano, vestiti con maglie di ferro e placche completamente immacolate e luccicanti. Le si appressarono attorno guardandola con curiosità. Gwen non riusciva a capire come dei cavalieri potessero trovarsi in quel grandioso deserto, in quella vasta desolazione nel mezzo del nulla; come potessero stare di guardia in cima a quell’immenso crinale, sotto i due soli. Come potevano sopravvivere là? Cosa stavano sorvegliando? Dove trovavano delle armature così regali? Era tutto un sogno?

Addirittura l’Anello, con la sua antica tradizione di grandezza, aveva delle armature poco paragonabili a quelle che indossavano quegli uomini. Erano le più intricate sulle quali avesse mai posato lo sguardo, forgiate in argento e platino, oltre a qualche altro materiale che non conosceva, decorate con segni complessi. Anche le armi erano ben abbinate ad esse. Era chiaro che quei soldati erano professionisti. La fecero pensare a quando era una ragazzina e accompagnava suo padre al campo: lui le mostrava i soldati e lei li vedeva allineati in tutto il loro splendore. Gwendolyn si chiedeva come una tale bellezza potesse esistere, come potesse essere possibile. Forse era morta e quella era la sua visione del paradiso.

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