Alto in aria al di sopra dell’isola solitaria volava un drago, un piccolo drago non ancora cresciuto del tutto. Il suo grido acuto squarciava l’aria lasciando già presagire ciò che sarebbe diventato un giorno. Volava trionfante, le piccole scaglie pulsanti, crescendo a ogni istante, con le ali che sbattevano e con gli artigli che tenevano stretta la cosa più preziosa che aveva avuto nella sua vita.
Il drago abbassò lo sguardo sentendo il calore tra gli artigli e controllando la sua preziosa conquista. Udì il pianto e lo sentì dimenarsi, rassicurato che il bambino fosse ancora lì, intatto.
Guwayne, aveva gridato quell’uomo.
Il drago poteva ancora sentire le grida riecheggiare dalla montagna mentre volava in alto. Era felice di aver salvato il bambino in tempo, prima che quegli uomini potessero pugnalarlo. Aveva strappato Guwayne dalle loro mani senza perdere un solo istante. Aveva portato perfettamente a termine ciò che gli era stato ordinato.
Il drago volò sempre più in alto al di sopra dell’isola, tra le nuvole già sparito alla vista degli uomini sotto di lui. Passò sopra l’isola, sopra i vulcani e le catene montuose, attraverso la nebbia, sempre più lontano.
Presto si ritrovò a volare sopra il mare aperto, lasciandosi la piccola isola alle spalle. Di fronte a lui si apriva la vasta distesa di mare e cielo, niente a spezzarne la monotonia per milioni di chilometri.
Il drago sapeva bene dove stava andando. C’era un posto dove doveva portare quel bambino, quel bambino che già amava oltre misura.
Un posto molto speciale.
CAPITOLO TRE
Volusia era in piedi sopra il corpo di Romolo e guardava il cadavere con soddisfazione, il sangue ancora caldo che le scorreva sopra i piedi bagnandole le dita lasciate scoperte dai sandali. Si godette quella sensazione. Non ricordava più quanti uomini, sebbene così giovane, avesse già ucciso e preso alla sprovvista in vita sua. La sottovalutavano sempre e far vedere quanto brutale poteva essere era uno dei suoi piaceri più intensi.
E ora aveva ucciso lo stesso Romolo – e con le sue stesse mani, non certo con l’aiuto di qualcun altro – il grande Romolo, un uomo leggendario, il guerriero che aveva ucciso Andronico e che si era preso il trono. Il supremo comandante dell’Impero.
Volusia sorrise deliziata. Eccolo lì, il supremo sovrano, ridotto a una pozza di sangue ai suoi piedi. E tutto per merito suo.
Volusia si sentiva rafforzata. Sentiva un fuoco scorrerle nelle vene, un fuoco capace di distruggere ogni cosa. Sentiva che il suo destino correva verso di lei. Sentiva che era giunto il suo momento. Sapeva, chiaramente come l’aveva capito nel momento in cui aveva ucciso sua madre con le sue stesse mani, che un giorno avrebbe governato l’Impero.
“Hai ucciso il nostro capo,” disse una voce tremante. “Hai ucciso il grande Romolo!”
Volusia sollevò lo sguardo e vide il volto del comandante di Romolo che stava di fronte a lei, guardandola con espressione mista di shock, paura e rispetto.
“Hai ucciso,” disse abbattuto, “l’uomo che non può essere ucciso.”
Volusia lo fissò con occhi freddi e duri e vide dietro di lui le centinaia di uomini di Romolo, tutti ricoperti delle migliori armature, allineati sulla nave, intenti a guardare e aspettare la sua prossima mossa. Erano tutti pronti ad attaccare.
Il comandante di Romolo si trovava sul pontile insieme a una decina di uomini, tutti in attesa di un suo comando. Dietro di sé Volusia sapeva di avere migliaia di suoi uomini. La nave di Romolo, per quanto perfetta, non poteva competere con le sue forze: i suoi uomini la circondavano lì nel porto. Erano in trappola. Quello era territorio di Volusia e lo sapevano. Sapevano che ogni attacco e ogni tentativo di fuga sarebbero stati inutili.
“Quest’azione non può rimanere senza risposta,” continuò il comandante. “Romolo ha un milione di uomini fedeli al suo seguito nell’Anello. Ha un milione ancora di altrettanto leali sudditi al sud, nella capitale dell’Impero. Quando si sarà diffusa la notizia di ciò che hai fatto, si mobiliteranno e si metteranno in marcia contro di te. Puoi anche aver ucciso il grande Romolo, ma non hai ucciso i suoi uomini. E le tue migliaia di soldati, anche se sono più di noi qui oggi, non possono resistere ai nostri milioni. Cercheranno vendetta. E l’avranno.”
“Davvero?” disse Volusia sorridendo e facendo un passo più vicina a lui, sentendo la lama stretta in mano e preparandosi a tagliargli la gola, desiderando ardentemente farlo.
Il comandante guardò il pugnale, l’arma che aveva ucciso Romolo, e deglutì come se le avesse letto nel pensiero. Volusia vide vera paura nei suoi occhi.
“Lasciaci andare,” le disse. “Lascia andare via i miei uomini. Non hanno fatto nulla per nuocerti. Dacci una nave piena d’oro e comprerai così il nostro silenzio. Porterò i nostri uomini nella capitale e dirò a tutti che se innocente. Che Romolo ha cercato di aggredirti. Ti lasceranno stare. Puoi avere la pace qui al nord e loro troveranno un altro sovrano supremo per l’Impero.”
Volusia sorrise divertita.
“Ma non stai forse già guardando il suo nuovo comandante supremo?” gli chiese.
Il comandante la guardò scioccato, poi si mise a ridacchiare con tono derisorio.
“Tu?” le disse. “Non sei che una ragazzina con poche migliaia di uomini. Pensi davvero di poterne annientare milioni solo perché hai ucciso un uomo? Sarai fortunata a tenerti stretta la vita e a scamparla sana e salva dopo quello che hai fatto oggi. Ti sto offrendo un dono. Finiamola con queste stupide chiacchiere, accetta tutto con gratitudine e lasciaci andare prima che cambi idea.”
“E se non volessi lasciarvi andare?”
Il comandante la guardò negli occhi e deglutì.
“Puoi ucciderci tutti qui,” le disse. “Questa è una tua scelta. Ma se lo fai non fai che uccidere te stessa e la tua gente. Verrai annientata dall’esercito che seguirà.”
“Dice la verità, mia sovrana,” le sussurrò una voce nell’orecchio.
Volusia si voltò e vide Soku, il suo generale, che le si era avvicinato. Era un uomo alto con gli occhi verdi, i lineamenti da guerriero e i capelli rossi, corti e ricci.
“Lasciateli andare a sud,” le disse. “Date loro l’oro. Avete ucciso Romolo. Ora dovete contrattare una tregua. Non abbiamo scelta.”
Volusia si voltò verso l’uomo di Romolo. Lo scrutò prendendo tempo e godendosi il momento.
“Farò come chiedi,” gli disse, “e vi farò tornare alla capitale.”
Il comandante sorrise soddisfatto e si preparò ad andare quando Volusia fece un passo avanti e aggiunse:
“Ma non per nascondere ciò che ho fatto,” gli disse.
Lui si fermò e la guardò confuso.
“Ti lascerò tornare alla capitale per portare loro un messaggio: che sappiano che ora sono io il supremo sovrano dell’Impero. Che se si inginocchiano e inchinano davanti a me ora, potrebbero sopravvivere.”
Il comandante la guardò sbalordito, poi scosse lentamente la testa e sorrise.
“Sei pazza come si diceva fosse tua madre,” le disse, poi si voltò e iniziò a risalire la rampa che portava alla nave. “Caricate l’oro nei forzieri in basso,” gridò senza nemmeno curarsi di voltarsi a guardarla.
Volusia si girò verso il suo comandante che stava pazientemente in attesa di un suo ordine e gli fece cenno con la testa.
L’uomo immediatamente si voltò e fece un cenno ai suoi uomini: si udì il rumore di decine di migliaia di frecce che venivano incendiate e scoccate.
I dardi riempirono il cielo, oscurandolo e disegnando un arco di fiamme andando ad atterrare sulla nave di Romolo. Accadde tutto velocemente perché chiunque a bordo potesse reagire e presto l’intera nave era in fiamme, con uomini che gridavano, il loro comandante più di tutti, mentre si dimenavano senza avere un posto dove scappare, cercando di spegnere il fuoco.
Ma non servì a nulla. Volusia fece una altro cenno e raffica dopo raffica altre frecce volarono in aria, coprendo la nave in fiamme. Gli uomini gridavano trafitti, cadendo dal ponte. Altri continuavano a dimenarsi a bordo. Fu una carneficina, nessun sopravvissuto.
Volusia stava a guardare sorridendo, osservando con soddisfazione mentre la nave bruciava lentamente dalla base fino all’albero maestro. Alla fine non rimasero che pochi pezzi anneriti.
Calò il silenzio quando gli uomini di Volusia si fermarono, tutti guardandola, in paziente attesa di un suo ulteriore comando.
Volusia fece un passo avanti, sguainò la spada e tagliò la spessa fune che teneva la nave ancorata al pontile. La corda si spezzò liberando l’imbarcazione e Volusia sollevò uno dei suoi stivali ricoperti d’oro e diede una spinta alla prua.
Guardò la nave che iniziava a muoversi, presa dalla corrente, una corrente che lei sapeva bene l’avrebbe portata a sud, nel cuore della capitale. Avrebbero tutti visto la barca bruciata, il cadavere di Romolo, le frecce dei volusiani. Tutti avrebbero capito che era opera sua. Avrebbero capito che era iniziata la guerra.
Volusia si voltò verso Soku che le stava accanto a bocca aperta e gli sorrise.
“È così,” gli disse, “che io offro la pace.”
CAPITOLO QUATTRO
Gwendolyn si inginocchiò a prua, tenendosi stretta al corrimano, le nocche bianche mentre cercava di raccogliere le forze necessarie per sporgersi e guardare l’orizzonte. Tutto il corpo le tremava, era debole per la mancanza di cibo e mentre guardava oltre si sentiva barcollante e con la testa leggera. Si mise in piedi trovando in qualche modo la forza e guardò con meraviglia la vista che aveva davanti.
Strizzò gli occhi nella nebbia chiedendosi se di trattasse di realtà o di un miraggio.
Lì all’orizzonte si allungava una costa interminabile e al centro di essa un fulcro trafficato con un enorme porto, due grandissimi pilastri d’oro scintillante che incorniciavano la città che sorgeva subito dietro, levandosi alti fino al cielo. Le colonne e gli edifici assumevano una tinta giallastro-verdognola mentre il sole si muoveva. Le nuvole si spostavano velocemente. Gwen non sapeva se ciò fosse dovuto al fatto che il cielo lì da quella parte del mondo era totalmente diverso o se dipendesse dal suo continuo perdere e riprendere conoscenza.
Nel porto della città si trovavano attraccate un migliaio di belle navi, tutte con alberi maestri che non aveva mai visto così alti, tutti ricoperti d’oro. Era la città più prospera che avesse mai visto, costruita proprio sulla costa e allungata all’infinito mentre l’oceano le scrosciava contro. Faceva apparire la Corte del Re come un paesino al confronto. Gwen non avrebbe mai immaginato che così tanti edifici potessero trovarsi allo stesso tempo in un luogo. Si chiese quanta gente potesse viverci. Doveva trattarsi di una grande nazione. La nazione dell’Impero.
Gwen provò un’improvvisa fitta allo stomaco rendendosi conto che le correnti li stavano spingendo proprio lì. Presto sarebbero stati risucchiati in quel grande porto, accerchiati da tutte quelle navi e fatti prigionieri, se non addirittura uccisi. Gwen ricordò quanto crudele fosse stato Andronico, quanto crudele fosse stato Romolo e sapeva che così erano fatti nell’Impero. Forse sarebbe stato meglio morire in mare.
Gwen udì un movimento di piedi sul ponte e voltandosi vide Sandara quasi svenuta per la fame ma pur sempre in piedi, attaccata al corrimano mentre teneva in mano un grosso cimelio dorato. Aveva la forma di corna di toro e lei lo rigirava in modo da farlo luccicare al sole. Vide come la luce veniva raccolta dallo strano oggetto e poi rispedita verso la costa come a trasmettere dei segnali. Sandara non lo stava indirizzando verso la città, ma più a nord, verso quello che sembrava essere un isolato gruppo di alberi lungo la costa.
Mentre gli occhi di Gwen, così pesanti, iniziavano a chiudersi e lei continuava a perdere e riprendere conoscenza, mentre si sentiva accasciare sul ponte, delle immagini cominciarono a scorrerle nella mente. Non era più sicura di cosa fosse realtà e cosa fosse invece generato dalla sua mancanza di cibo. Gwen vide delle canoe, ne vide a decine che emergevano dalla densa giungla di vegetazione e si dirigevano verso il mare aperto, verso la loro nave. Ne scorse un fuggevole scorcio mentre si avvicinavano e fu sorpresa di vedere non la razza dell’Impero, non enormi guerrieri con corna e pelle rossa, ma individui di tipo diverso. Vide uomini e donne fieri e muscolosi con la pelle color cioccolata e scintillanti occhi gialli, con volti compassionevoli e intelligenti. Tutti stavano remando verso di loro per accoglierli. Gwen vide che Sandara li guardava riconoscendoli e si rese conto che erano persone del suo popolo.
Gwen udì il suono sordo di qualcosa che sbatteva contro la nave e vide degli uncini che si attaccavano al ponte, delle funi che venivano gettate imbragando l’imbarcazione. Sentì che la nave cambiava direzione e abbassando lo sguardo vide la flotta di canoe che trascinava la barca guidandola controcorrente, in direzione opposta rispetto alla città dell’Impero. Gwen si rese lentamente conto che la gente di Sandara era giunta in loro aiuto. Stavano conducendo la loro nave verso un porto diverso, lontano dal porto dell’Impero.
Gwen sentì che la nave veniva fatta virare seccamente verso nord, verso la fitta vegetazione, verso un piccolo porticciolo nascosto. Chiuse gli occhi sentendosi colmare dal sollievo.
Subito dopo riaprì gli occhi e si ritrovò in piedi, china sul corrimano, a guardare la propria nave che veniva attraccata. Completamente esausta, Gwendolyn si ritrovò a sporgersi troppo perdendo la presa e scivolando: sgranò gli occhi per la paura e si rese conto che stava per cadere fuori bordo. Si aggrappò al corrimano ma era ormai troppo tardi: lo slancio la stava già portando oltre il bordo.
Il cuore di Gwen batteva per la paura: non poteva credere che dopo tutto quello che aveva passato sarebbe morta a quel modo, affondando silenziosamente nel mare quando erano ormai così vicini alla terra.
Mentre si sentiva cadere, Gwen udì un improvviso ringhio e improvvisamente sentì dei forti denti che le stringevano la camicia. Udì poi un mugolio e si ritrovò trascinata indietro, tirata lontano dall’abisso e finalmente adagiata sul ponte. Atterrò con un tonfo sul ponte di legno e si ritrovò stesa sulla schiena, sana e salva.
Sollevò lo sguardo e vide Krohn che stava sopra di lei e il suo cuore si riempì di gioia. Krohn era vivo e lei era felicissima di rivederlo. Sembrava più magro rispetto all’ultima volta che l’aveva visto, emaciato e si rese conto che aveva perso le sue tracce in tutto quel caos. L’ultima volta che l’aveva visto era stata quando era sceso sottocoperta durante una tempesta particolarmente impetuosa. Si rendeva conto ora che probabilmente era rimasto lì nascosto per tutto quel tempo trattenendosi dal mangiare così da non rubare provviste agli altri. Così era fatto Krohn. Sempre così altruista. E ora che si stavano riavvicinando alla terra era tornato in superficie.
Krohn piagnucolò e le leccò la faccia e Gwen lo abbraccio con il suo ultimo briciolo di forza. Rimase sdraiata sulla schiena e Krohn le si accoccolò accanto posandole la testa sul petto e stringendosi a lei come se non avesse altro posto rimasto dove andare al mondo.