Ribelle, Pedina, Re - Морган Райс 4 стр.


Ma in che razza di posto sarebbero dovuti venire. Sartes guardò fuori mentre il carro avanzava sussultando attraversando il paesaggio, e vide la piattezza dei dintorni che lasciava spazio a fosse e cumuli rocciosi, stagni ribollenti di nero e calore. Anche da dove si trovava poteva sentire l’odore acre e amaro del catrame.

C’erano delle persone che lavoravano in file. Sartes vide le catene che li tenevano legati tra loro a coppie mentre dragavano il catrame con dei secchi e lo raccoglievano in modo che altri potessero usarlo. Poteva vedere le guardie che stavano loro addosso con delle fruste, e proprio mentre guardava un uomo cadde per i colpi che riceveva. Le guardie lo liberarono dalle catene e lo spinsero a calci nella fossa di catrame più vicina. Il catrame ci mise molto a ingoiare le sue grida.

Sartes allora avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non poteva. Non poteva levare gli occhi dall’orrore di tutto questo. Dalle gabbie a cielo aperto che erano ovviamente le dimore dei prigionieri. Dalle guardie che li minacciavano come non fossero niente più che animali.

Guardò fino a che il carro non si fermò e i soldati lo aprirono con le armi in una mano e le catene nell’altra.

“Prigionieri fuori,” gridò uno di essi. “Fuori o daremo fuoco al carro con voi dentro, schifosi!”

Sartes strisciò fuori alla luce insieme agli altri e poté osservare il pieno orrore della situazione. I fumi di quel posto erano quasi travolgenti. Le fosse di catrame attorno a loro ribollivano in strane e imprevedibili combinazioni. Addirittura mentre lui guardava, un pezzo di terreno vicino a una delle fosse cedette cadendo nel catrame.

“Queste sono le fosse del catrame,” annunciò il soldato che aveva parlato. “Non preoccupatevi di abituarvici. Sarete morti ben prima che ciò accada.”

La parte peggiore, sospettòSartes mentre gli fissavano un anello alla caviglia, era che poteva anche darsi che avessero ragione.

CAPITOLO CINQUE

Tano fece scivolare la sua piccola imbarcazione fino alla secca della spiaggia distogliendo lo sguardo dagli anelli disposti sotto la linea della marea. Si fece strada sulla spiaggia, sentendosi esposto a ogni passi in mezzo a quel posto di roccia grigia. Sarebbe stato fin troppo facile essere avvistato lì, e Tano non voleva assolutamente essere visto in un posto come quello.

Si arrampicò lungo un sentiero e si fermò sentendo la rabbia che si univa al disgusto mentre scorgeva cosa c’era da entrambe le parti della via. C’erano dei congegni – forche e lance, caterine e patiboli – tutti ovviamente intesi per procurare una morte spiacevole a chi vi fosse introdotto. Tano aveva sentito parlare dell’Isola dei Prigionieri, ma ad ogni modo la malvagità di quel posto gli faceva venire voglia di spazzarlo via.

Continuò lungo il sentiero, pensando a come potesse essere la vita per chiunque venisse portato lì, circondato da pareti rocciose e con la consapevolezza che solo la morte lo aspettava. Ceres era veramente finita in quel posto? Solo il pensiero era sufficiente a fargli sentire una fitta allo stomaco.

Davanti a sé Tano sentì delle grida, colpi di frusta e urla che risuonavano tanto animali quanto umane. C’era qualcosa in quel suono che lo fece restare immobile: il suo corpo gli diceva di prepararsi alla violenza. Si affrettò a risalire il sentiero, sollevando la testa al di sopra del livello delle rocce che gli bloccavano la vista.

Ciò che vide oltre lo lasciò a bocca aperta. C’era un uomo che correva, i piedi scalzi che lasciavano delle orme insanguinate sul terreno roccioso. Indossava abiti laceri e strappati, una manica che penzolava dalla spalla, uno strappo sulla schiena che lasciava vedere una ferita al di sotto. Aveva capelli selvaggi e una barba ancora più selvaggia. Solo il fatto che i suoi abiti erano di seta lasciava intuire che non avesse vissuto a quel modo per tutta la sua esistenza.

L’uomo che lo inseguiva sembrava, se possibile, ancora più selvaggio, e c’era qualcosa in lui che fece sentire Tano come la preda di un qualche grosso animale, intenta a guardare il suo predatore. Indossava un misto di indumenti di pelle che sembravano essere stati rubati da una decina di posti diversi, e aveva il volto striato di fango in un modo che Tano sospettava fosse appositamente congegnato per farlo mimetizzare con la vegetazione della foresta. Aveva in mano una mazza e un pugnale corto, e i versi che emetteva mentre seguiva l’altro uomo fecero venire a Tano i brividi.

Per istinto Tano avanzò. Non poteva starsene lì a guardare qualcuno che veniva assassinato, neanche lì dove tutti avevano commesso un qualche crimine per esservi finiti. Salì sul promontorio e poi scattò in basso verso un punto dove i due sarebbero passati. Il primo uomo lo scansò. Il secondo si fermò con un sorriso fatto di denti affilati.

“Pare ce ne sia un altro a cui dare la caccia,” disse, e si lanciò su Tano.

Tano reagì con la rapidità del lungo allenamento, levandosi dalla traiettoria del primo colpo di coltello. La mazza lo prese alla spalla, ma lui ignorò il dolore. Fece ruotare di netto il pugno e sentì l’impatto quando andò a colpire la mandibola dell’avversario. L’uomo cadde privo di conoscenza e colpì il terreno.

Tano si guardò attorno e vide l’altro uomo che lo fissava.

“Non ti preoccupare,” gli disse. “Non ti farò del male. Sono Tano.”

“Herek,” disse l’altro uomo. A Tano la sua voce sembrò roca, come se non avesse parlato con nessuno per lungo tempo. “Io…”

Un altro grido venne da dietro, verso la sezione boscosa dell’isola. Sembravano molte voci unite in qualcosa che anche a Tano apparve terrificante.

“Veloce, da questa parte.”

L’altro uomo afferrò il braccio di Tano e lo tirò verso una serie di rocce più alte. Tano lo seguì, abbassandosi in uno spazio che non si poteva vedere dal sentiero principale, ma da dove potevano pur sempre scorgere segnali di pericolo. Tano poteva sentire la paura dell’altro uomo mentre stavano lì accucciati, e cercò di restare il più fermo possibile.

Avrebbe voluto aver pensato di prendere il pugnale dall’uomo che aveva messo al tappeto, ma ora era troppo tardi per farlo. Poteva invece solo stare lì mentre aspettavano che gli altri cacciatori scendessero al posto dove si trovavano prima.

Li vide avvicinarsi in gruppo, e non ce n’erano due di simili. Avevano tutti delle armi che ovviamente erano stato fabbricate da ciò che si erano trovati a portata di mano, mentre quelli che ancora avevano indosso i minimi rimasugli di abbigliamento portavano uno strano miscuglio di oggetti ovviamente rubati. C’erano sia uomini che donne, con aspetti affamati e pericolosi, mezzi morti di fame e malvagi.

Tano vide che una delle donne toccava con il piede l’uomo privo di conoscenza. Allora provò un brivido di paura, perché se quell’uomo si svegliava avrebbe potuto raccontare agli altri ciò che era successo, e loro si sarebbero messi alla ricerca.

Ma non si svegliò, perché la donna si inginocchiò e gli tagliò la gola.

Tano si irrigidì. Accanto a lui Herek gli mise una mano sul braccio.

“Gli Abbandonati non hanno tempo per nessun genere di debolezza,” sussurrò. “Vanno a caccia di chiunque possano, perché quelli alla fortezza non danno loro nulla.”

“Sono prigionieri?” chiese Tano.

“Siamo tutti prigionieri qui,” rispose Herek. “Anche le guardie sono solo prigionieri saliti ad alti livelli e che godono abbastanza della crudeltà da fare il lavoro dell’Impero. Eccetto che tu non sei un prigioniero, vero? Non hai l’aspetto di uno che è passato per la fortezza.”

“No,” ammise Tano. “Questo posto… sono prigionieri che lo fanno ad altri prigionieri?”

La parte peggiore era che poteva immaginarselo. Era il genere di cose che il re, suo padre, poteva pensare. Collocare i prigionieri in una sorta di inferno e poi dare loro la possibilità di evitare ulteriore dolore solo se se ne occupavano.

“Gli Abbandonati sono il peggio,” disse Herek. “Se i prigionieri non si sottomettono, se sono troppo folli o cocciuti, se non lavorano o se si ribellano troppo, vengono gettati qui nel mezzo del nulla. I guardiani della prigione danno loro la caccia. La maggior parte di loro implorano per essere riportati indietro.”

Tano non voleva pensarci, ma doveva, perché Ceres poteva trovarsi lì. Tenne gli occhi fissi sul gruppo di feroci prigionieri mentre continuava a sussurrare con Herek.

“Sto cercando una persona,” disse. “Potrebbero averla portata qui. Si chiama Ceres. Ha combattuto nell’arena.”

“La principessa combattente,” rispose in un sussurro Herek. “L’ho vista combattere nell’arena. Ma no, l’avrei saputo se l’avessero portata qui. Amano far sfilare i nuovi arrivati davanti a noi, in modo che possano vedere cosa li aspetta. Mi ricorderei di lei.”

Il cuore di Tano precipitò come una pietra gettata in una pozza. Era stato così certo che Ceres fosse lì. Aveva messo tutto ciò che aveva potuto nell’arrivare fino a lì, solo perché era l’unico indizio riguardo alla sua attuale collocazione. Se non era lì… dove poteva andare?

La speranza che aveva provato iniziò a gocciolare via, proprio come il sangue ai piedi di Herek, dove le rocce lo avevano ferito.

Il sangue che gli Abbandonati stavano fissando in quello stesso istante, seguendone le tracce…

“Corri!” gridò Tano, travolto dall’urgenza che prevalse sul suo crepacuore mentre trascinava Herek con sé.

Si trascinò sul terreno roccioso, diretto verso la fortezza semplicemente perché immaginava che fosse l’unica direzione in cui i loro inseguitori non avrebbero gradito andare. Ma lo seguirono comunque, e Tano dovette tirarsi dietro Herek per continuare a farlo correre.

Una lancia sfrecciò accanto alla sua testa e Tano rabbrividì, ma non si fermò. Osò darsi un’occhiata alle spalle e le forme chine dei prigionieri si stavano avvicinando, dando loro la caccia proprio come un branco di lupi. Tano sapeva di doversi voltare e combattere, ma non aveva armi. Al meglio poteva afferrare un sasso.

Figure con pantaloni di pelle scuri e camice di maglia di ferro si alzarono dalle rocce davanti a loro tendendo degli archi. Tano reagì d’istinto e trascinò se stesso ed Herek a terra.

Le frecce volarono sopra le loro teste e Tano vide un gruppo di feroci prigionieri che cadevano come granturco tagliato. Una donna si girò per scappare, ma una freccia la colpì alla schiena.

Tano si alzò mentre tre uomini avanzavano verso di loro. Quello che stava a capo del gruppetto aveva i capelli argentati e il volto spigoloso. Si mise l’arco in spalla mentre si avvicinava e sguainò un coltello lungo.

“Sei il principe Tano?” chiese quando fu vicino.

In quel momento Tano capì di essere stato tradito. Il capitano contrabbandiere aveva rivelato la sua presenza, per denaro o semplicemente perché non voleva passare guai.

Si sforzò di stare eretto in piedi. “Sì, sono Tano,” disse. “E tu sei?”

“Elsio, guardiano di questo posto. Una volta mi chiamavano Elsio il macellaio. Elsio l’assassino. Ora quelli che ammazzo si meritano il loro destino.”

Tano aveva udito quel nome. Era un nome che i bambini con cui era cresciuto usavano per spaventarsi tra loro, il nome di un nobiluomo che aveva ucciso e ucciso fino a che addirittura l’Impero aveva pensato che fosse troppo malvagio per permettergli di restare in libertà. Avevano inventato storie delle cose che aveva fatto a coloro che catturava. Almeno Tano sperava che fossero inventate.

“Hai intenzione di tentare di uccidermi adesso?”

Tano cercò di suonare minaccioso, anche se non aveva armi.

“Oh no, mio principe. Abbiamo programmi molto migliori per te. Però il tuo compagno…”

Tano vide che Herek tentava di alzarsi, ma non fu abbastanza rapido. Il capo si fece avanti e lo trafisse con rapida efficienza. La lama entrò e uscì più volte dal corpo dell’uomo. Tenne Herek in piedi, come a voler impedirgli di morire prima che fosse pronto.

Alla fine lasciò crollare il cadavere del prigioniero. Quando si girò verso Tano, il suo volto era una maschera sfigurata che non aveva quasi nulla di umano.

“Come ci si sente, principe Tano,” gli chiese, “a diventare prigionieri?”

CAPITOLO SEI

Lucio era arrivato ad amare l’odore delle case che bruciavano. C’era qualcosa di rinvigorente in esso, qualcosa che faceva salire l’eccitazione in lui alla prospettiva di tutto ciò che ne sarebbe conseguito.

“Aspettateli,” disse dalla sua postazione in sella a un massiccio destriero.

Attorno a lui i suoi uomini erano sparpagliati per circondare le case cui stavano dando fuoco. Erano a malapena delle case a dire il vero: semplici dimore di contadini, così malandate che non valeva neppure la pena di saccheggiarle. Magari avrebbero rovistato tra la cenere più tardi.

Per adesso però c’era da divertirsi.

Lucio vide un barlume di movimento mentre le prime persone fuggivano gridando dalle loro case. Indicò con una mano inguantata e la luce del sole riverberò sull’oro della sua armatura.

“Lì!”

Spronò il suo cavallo al galoppo, sollevando una lancia e gettandola contro una delle figure in corsa. Accanto a lui i suoi uomini si misero a rincorrere uomini e donne, colpendo e uccidendo e lasciandoli solo occasionalmente in vita quando appariva ovvio che sarebbero valsi di più nel mercato degli schiavi.

C’era dell’arte, Lucio aveva scoperto, nel bruciare un villaggio. Era importante non correre semplicemente alla cieca e dare fuoco a ogni cosa. Quella era cosa da amatoriali. Gettarsi a capofitto senza preparazione e lasciar scappare la gente. Se si bruciavano le cose nell’ordine sbagliato c’era il rischio che venissero tralasciate cose di valore. Se si lasciavano troppe vie di fuga, le file di schiavi sarebbero state più corte di quanto avrebbero dovuto.

La chiave era la preparazione. Aveva fatto disporre i suoi uomini in un cordone fuori dal villaggio ben prima di entrarvi con indosso la sua armatura così visibile. Alcuni dei contadini erano fuggiti solo a quella vista, e Lucio ne aveva goduto. Era bello essere temuti. Era giusto che fosse così.

Ora erano al livello successivo, quello in cui bruciavano alcune delle case di minor valore. Dalla cima, ovviamente, gettando le torce sul tetto. La gente non poteva scappare se si dava fuoco ai loro nascondigli dal pianoterra, e se non scappavano non c’era divertimento.

Più tardi ci sarebbero stati i più tradizionali saccheggi, seguiti da torture per coloro che erano sospettati di avere simpatie per i ribelli, o che potevano semplicemente tenere nascoste delle cose di valore. E poi le esecuzioni ovviamente. Lucio sorrise a quel pensiero. Di solito faceva solo degli esempi. Oggi però sarebbe stato più… esauriente.

Si trovò a pensare a Stefania mentre attraversava il villaggio, sfoderando la spada per colpire a destra e a sinistra. Normalmente non avrebbe reagito bene a qualcuno che lo rifiutava nel modo che aveva fatto lei. Se qualcuna delle giovani donne di quel villaggio avesse osato, Lucio l’avrebbe probabilmente fatta scuoiare viva, piuttosto che semplicemente mandarla alle fosse degli schiavi.

Ma Stefania era diversa. Non solo perché era bellissima ed elegante. Quando pensava che fosse semplicemente questo, non aveva avuto altra idea che metterla ai propri piedi come un qualche meraviglioso animale domestico.

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