Sentì qualcosa sulla mano e abbassando lo sguardo vide Krohn che la leccava e poi le appoggiava la testa in grembo. Gli accarezzò la testa mentre si metteva a sedere sul bordo del letto, ancora con il fiatone, prendendo lentamente l’orientamento ma sempre con il peso del sogno appena fatto sulle spalle.
Guwayne, pensò. Il sogno le era sembrato così reale. Era più di un semplice sogno, lo sapeva bene: era stata una visione. Guwayne, ovunque si trovasse, era in pericolo. Una qualche forza oscura lo stava portando via. Lo sentiva.
Gwendolyn si alzò in piedi, agitata. Più che mai provava l’urgenza di trovare suo figlio, di trovare suo marito. Voleva più di ogni altra cosa vederlo e stringerlo. Ma sapeva anche che non poteva essere.
Asciugandosi le lacrime si avvolse addosso il suo scialle di seta e attraversò velocemente la stanza sentendo la pietra fredda sotto i piedi scalzi e fermandosi accanto all’alta finestra ad arco. Scostò la vetrata colorata e la soffusa luce del giorno entrò mentre il primo sole stava sorgendo inondando la campagna di scarlatto. Era una scena mozzafiato. Gwen guardò verso il Crinale, l’immacolata capitale e la sconfinata campagna tutt’attorno, le ondeggiati colline e le abbondanti vigne, la maggiore ricchezza che mai avesse visto in un posto. Oltre si scorgeva il blu luccicante del lago illuminato dal giorno e oltre ancora i picchi del Crinale che disegnavano un cerchio perfetto circondando quel posto ancora velato di nebbia. Sembrava un luogo contro il quale non potesse scatenarsi alcun male.
Gwen pensò a Thorgrin, a Guwayne, da qualche parte oltre quelle cime. Dove si trovavano? Li avrebbe mai rivisti?
Andò al catino dell’acqua e si bagnò il viso, poi si vestì rapidamente. Sapeva che non avrebbe trovato Thorgrin e Guwayne standosene seduta in quella stanza e sentiva più che mai che doveva fare qualcosa. Se qualcuno poteva aiutarla, forse questo era il re. Doveva esserci un modo.
Gwen ripensò alla sua conversazione con lui quando avevano passeggiato tra i picchi del Crinale e avevano guardato Kendrick partire; ripensò ai segreti che le aveva rivelato. Che stava morendo. Che il Crinale stava morendo. C’erano altri segreti che le avrebbe rivelato, ma erano stati interrotti. I suoi consiglieri lo avevano richiamato per degli affari urgenti e lui se n’era andato promettendole di rivelarle di più e avvisandola che le avrebbe chiesto un favore. Di cosa si trattava? Cosa poteva volere da lei?
Il re le aveva chiesto di incontrarla nella sala del trono al sorgere del sole e Gwen ora si affrettava a vestirsi sapendo di essere già in ritardo. Il suo sogno l’aveva lasciata intontita.
Mentre correva attraverso la stanza Gwendolyn provò una fitta di dolore: la fame sofferta nella Grande Desolazione ancora le pesava addosso. Guardò il tavolo di prelibatezze preparato per lei – pane, frutta, formaggio, dolci – e velocemente afferrò qualcosa mangiando mentre andava. Ne prese più del necessario e ne diede la metà a Krohn che piagnucolava al suo fianco e fu felice di mangiare qualcosa. Gwen era così riconoscente per quel cibo, per quel riparo, per quelle lussuose stanze che la facevano sentire come se in qualche modo fosse tornata alla Corte del Re, nel castello della sua infanzia.
Le guardie scattarono sull’attenti quando Gwen uscì dalla stanza aprendo la pesante porta di quercia. Passò oltre e percorse i corridoi di pietra del castello appena illuminati dalle torce che ardevano dalla notte.
Gwen raggiunse la fine del corridoio e salì una serie di scale a chiocciola, sempre con Krohn alle calcagna, fino a raggiungere i piani superiori, dove sapeva esserci la sala del trono del re. Già quel castello le era diventato familiare. Attraversò di corsa un altro salone e si stava apprestando a oltrepassare un arco che si apriva nella pietra quando con la coda dell’occhio scorse del movimento. Rabbrividì, sorpresa di vedere una persona nell’ombra.
“Gwendolyn?” disse la voce dell’uomo, piana e troppo affettata mentre lui avanzava dall’ombra con un sorrisino compiaciuto in volto.
Gwendolyn sbatté le palpebre sorpresa e le ci volle un momento per ricordare chi fosse. Le erano state presentate così tante persone negli ultimi giorni che era ora un po’ confusa.
Ma quello era un volto che non poteva dimenticare. Si rese conto che si trattava del figlio del re, uno dei gemelli, quello con i capelli che aveva parlato contro di lei.
“Sei i figlio del re,” disse pensando ad alta voce. “Il terzogenito.”
Lui sorrise, un sorrisetto subdolo che non le piacque. Quindi fece un altro passo avanti.
“Il secondogenito in realtà,” la corresse. “Siamo gemelli, ma io sono nato per primo.”
Gwen lo guardava mentre si avvicinava sempre di più e notò che era vestito in maniera impeccabile, con la barba rasata e i capelli ben pettinati e acconciati. Sapeva di profumo e olio e aveva addosso gli abiti più belli che avesse mai visto. Mostrava un atteggiamento spavaldo e trasudava arroganza e sicurezza di sé.
“Preferisco che non si alluda a me come al gemello,” continuò. “Sono un uomo che sa pensare con la sua testa. Mi chiamo Mardig. È solo un caso che sia nato gemello, un caso che non potevo controllare. Un caso di corone si potrebbe dire,” concluse filosoficamente.
A Gwen non piaceva trovarsi insieme a lui, ancora punta dal trattamento che le aveva riservato la notte precedente. Percepiva anche la tensione di Krohn al suo fianco, il pelo ritto sul collo mentre stava appoggiato contro la sua gamba. Era impaziente di sapere cosa volesse da lei.
“Te ne stai sempre in agguato all’ombra nei corridoi?” gli chiese.
Mardig ridacchiò facendosi ancora più vicino, troppo vicino per lei.
“È il mio castello del resto,” rispose con fare territoriale. “Si sa che ci vado attorno.”
“Il tuo castello?” chiese lei. “Non è di tuo padre?”
La sua espressione si fece più cupa.
“Tutto a suo tempo,” rispose cripticamente facendo un altro passo avanti.
Gwendolyn si ritrovò involontariamente a fare un passo indietro: non le piaceva la sensazione che le dava la sua presenza e Krohn iniziò a ringhiare.
Mardig guardò Krohn con sprezzo.
“Lo sai che gli animali non sono ammessi nel nostro castello?” rispose.
Gwen si accigliò seccata.
“Tuo padre non aveva nulla in contrario.”
“Mio padre non bada alle regole,” rispose. “Io sì. E la guardia del re è sotto il mio comando.”
Gwen si accigliò frustrata.
“È per questo che mi hai fermata qui?” gli chiese seccata. “Per far rispettare il controllo sugli animali?”
Il giovane si accigliò a sua volta rendendosi forse conto di aver trovato pane per i suoi denti. La guardò fissa negli occhi come se la stesse studiando.
“Non c’è donna nel Crinale che non mi desideri,” disse. “Eppure non vedo passione nei tuoi occhi.”
Gwen lo guardò inorridita rendendosi finalmente conto di dove stesse andando a parare.
“Passione?” ripeté umiliata. “E perché dovrei dimostrarne? Sono sposata e l’amore della mia vita tornerà presto al mio fianco.”
Mardig rise ad alta voce.
“Davvero?” chiese. “Da quello che sento è morto da tempo. O talmente perduto da non tornare mai più.”
Gwendolyn si accigliò sentendo la rabbia che montava in lei.
“Anche se non dovesse mai più tornare” disse, “non starei mai con nessun altro. E sicuramente non con te.”
Lui si fece cupo in volto.
Gwen si voltò per andarsene ma lui le afferrò un braccio. Krohn ringhiò.
“Non chiedo quello che voglio, qui,” disse. “Me lo prendo. Ti trovi in un regno straniero e alla mercé di chi ti ospita. Sarebbe meglio per te obbedire a chi ti accoglie. Dopotutto, senza la nostra ospitalità saresti destinata alla desolazione. E ci sono circostanze molto più sfortunate che possono capitare a un ospite, anche con i padroni di casa meglio intenzionati.”
Lei si accigliò, avendo visto fin troppe vere minacce nella sua vita per avere paura dei suoi insignificanti avvertimenti.
“Ci reputi prigionieri?” gli chiese. “Io sono una donna libera nel caso tu non l’abbia notato. Posso andarmene da qui anche in questo istante se lo voglio.”
Il giovane rise, un suono orribile.
“E dove andresti? Te ne torneresti nella Grande Desolazione?”
Le sorrise e scosse la testa.
“Sarai anche tecnicamente libera di andare,” aggiunse, “ma lascia che ti chieda: quando il mondo è un posto ostile, dove ti abbandona?”
Krohn ringhiò minacciosamente e Gwen sentì che era pronto a saltare. Si scosse di dosso la mano di Mardig con indignazione e accarezzò Krohn sulla testa trattenendolo. Poi, mentre guardava Mardig negli occhi, ebbe un’improvvisa intuizione.
“Dimmi una cosa, Mardig,” disse con voce dura e fredda. “Com’è che non ti trovi là fuori a combattere con i tuoi fratelli nel deserto? Come mai sei l’unico rimasto qui? È la paura a trattenerti?”
Lui sorrise, ma dietro al suo sorriso Gwen poté scorgere la codardia.
“La cavalleria è per gli sciocchi,” le rispose. “Sciocchi veri e propri che ci preparano la strada in modo che possiamo avere quello che vogliamo. Fai sentire a qualcuno la parola ‘cavalleria’ e potrai usare quelle persone come dei burattini. Io stesso non posso essere utilizzato così facilmente.”
Lei lo guardò disgustata.
“Mio marito e il nostro Argento riderebbero di un uomo come te,” gli disse. “Non dureresti due minuti nell’Anello.”
Gwen spostò lo sguardo da lui all’ingresso che le stava bloccando.
“Hai due opzioni,” gli disse. “Puoi levarti di torno o Krohn qui può avere la colazione che tanto desidera. Penso che tu sia della misura giusta.”
Mardig guardò Krohn e Gwen vide che gli tremava il labbro. Si fece da parte.
Ma lei non si limitò ad andare. Gli si fece invece vicino, ghignando, volendo chiarirgli per bene il fatto suo.
“Sarai anche al comando del tuo piccolo castello,” gli disse con tono cupo, “ma non dimenticarti che stai parlando con una regina. Una regina libera. Non risponderò mai a te, non risponderò mai a nessuno fintanto che vivrò. E questo mi rende molto pericolosa, molto più pericolosa di te.”
Il principe la guardò sorpreso e sorrise.
“Mi piaci, regina Gwendolyn,” le rispose. “Molto più di quanto pensassi.”
Gwendolyn, con il cuore che le batteva forte lo vide voltarsi e andarsene, riscivolando nell’ombra e scomparendo in fondo al corridoio. Mentre i suoi passi si facevano sempre più distanti, si chiese: quali pericoli c’erano in agguato in quella corte?
CAPITOLO TRE
Kendrick galoppava percorrendo l’arido deserto con Brandt e Atme al suo fianco oltre a mezza dozzina di soldati dell’Argento, tutto ciò che era rimasto della compagnia dell’Anello. Erano di nuovo insieme come ai vecchi tempi. Mentre galoppavano addentrandosi sempre più nella Grande Desolazione, Kendrick sentiva il peso della nostalgia e della tristezza: gli tornarono alla mente i giorni migliori nell’Anello, quando era circondato dall’Argento, dai suoi fratelli d’armi e andava in battaglia insieme a migliaia di uomini. Aveva sempre combattuto insieme ai migliori cavalieri che il regno avesse da offrire, un guerriero migliore dell’altro e ovunque fosse andato le trombe avevano suonato e la gente era accorsa ad accoglierli. Lui e i suoi uomini erano sempre stati ben accetti ovunque ed erano sempre stati svegli fino a tardi di notte raccontando storie di battaglie, di scaramucce contro mostri che risalivano dal Canyon o peggio dalle terre selvagge dall’altra parte.
Kendrick sbatté le palpebre, con la polvere negli occhi, cercando di cacciare quei pensieri. Ora si trovava in tempi diversi e in un posto diverso. Guardò oltre e vide gli otto uomini dell’Argento aspettandosi di vederne migliaia. Ma la realtà calò lentamente su di lui e si rese conto che otto era tutto ciò che gli restava adesso: molte cose erano cambiate. Sarebbero mai tornati quei giorni di gloria?
L’idea che Kendrick aveva su come si diveniva guerrieri era cambiata negli anni e in quei giorni si era trovato a pensare che non si trattasse solo di onore e abilità, ma anche di perseveranza. Di capacità di andare avanti. La vita aveva un suo modo di gettarti addosso un sacco di ostacoli, calamità, tragedie, perdite, soprattutto cambiamenti. Lui aveva perso così tanti amici da non poterli neanche contare e il re stesso era vissuto meno di lui. La sua patria era scomparsa. Eppure lui continuava ad andare avanti, anche quando non era certo del motivo. Sapeva che lo stava cercando. Ed era forse soprattutto questa capacità di andare avanti che lo rendeva guerriero, che gli faceva superare la prova del tempo anche quando tanti altri cadevano. Questo separava i veri guerrieri da quelli effimeri.
“MURO DI SABBIA DAVANTI!” gridò una voce.
Era una voce sconosciuta, una voce che Kendrick doveva ancora abituarsi a sentire. Guardando avanti vide Koldo, il primogenito del re, con la sua pelle nera che lo faceva spiccare nel gruppo, lanciato alla guida del gruppo di soldati del Crinale. Il poco tempo che aveva avuto per conoscerlo gli era bastato per arrivare a rispettarlo: gli bastava guardare il modo in cui guidava i suoi uomini e come loro lo guardavano. Era un cavaliere al cui fianco Kendrick era orgoglioso di trovarsi.
Koldo indicò l’orizzonte e Kendrick guardò oltre vedendo ciò che stava segnando: in effetti lo udì prima di vederlo. Era un fischio acuto, come una tempesta di vento, e Kendrick ricordò il tempo trascorso nella Desolazione, quando lo avevano trascinato quasi privo di conoscenza. Ricordò la sabbia furiosa che ruotava come un tornado interminabile formando un solido muro che si ergeva fino al cielo. Era sembrato impenetrabile, come una parete vera e propria che aiutava a celare il Crinale agli occhi dell’Impero.
Mentre il fischio si faceva più forte, Kendrick ebbe paura all’idea di entrarci di nuovo.
“SCIARPE!” ordinò una voce.
Kendrick vide Ludvig, il più grande dei due gemelli, che tirava fuori un lungo panno bianco e se lo avvolgeva attorno al volto. Uno alla volta gli altri soldati seguirono il suo esempio e fecero lo stesso.
Vicino a Kendrick sopraggiunse il soldato che si era presentato come Naten, un uomo per il quale Kendrick ricordò di aver provato immediata ripugnanza. Era scontento che gli fosse stato assegnato il comando e non gli mostrava rispetto.
Naten ridacchiò guardando Kendrick e i suoi uomini mentre si avvicinava a loro.
“Pensi di guidare questa missione,” disse, “solo perché il re ti ha dato questo compito. Ma non sai neppure tenere i tuoi uomini al riparo dal muro di sabbia.”
Kendrick lo guardò torvo, vedendo nei suoi occhi un odio non provocato da lui. All’inizio aveva pensato che fosse indotto a comportarsi così solo perché si sentiva forse minacciato da lui, da uno sconosciuto. Ora però vedeva che era proprio un uomo cui piaceva odiare.
“Dagli le sciarpe!” gridò Koldo a Naten, impaziente.
Dopo un po’di tempo, mentre il muro si faceva sempre più vicino e la sabbia sempre più vorticosa, Naten diede finalmente il sacco con le sciarpe a Kendrick, lanciandoglielo e colpendolo con forza al petto mentre continuavano a galoppare.
“Distribuiscile ai tuoi uomini,” gli disse, “o finirete tagliati dal muro. A voi la scelta, a me veramente non interessa.”
Naten si allontanò tornando verso i suoi uomini e Kendrick distribuì rapidamente le sciarpe ai suoi passando accanto a ciascuno di essi e passandogliele una alla volta. Poi si avvolse la propria attorno alla testa e alla faccia come facevano quelli del Crinale, compiendo più giri e assicurandosi anche di riuscire a respirare. Vedeva a malapena, il mondo era velato e confuso alla luce.