Erec aveva guidato i suoi uomini fuori tiro giusto in tempo: le frecce atterrarono tutte sulla nave abbandonata cadendo qualche metro prima della flotta di Erec. Non fecero che incendiare il relitto creando un ulteriore ostacolo tra loro e l’Impero: ora il fiume era diventato impossibile da attraversare.
“Avanti a piene vele!” gridò Erec.
La sua flotta continuò a navigare a tutta velocità, prendendo il vento e allontanandosi dalla loro barricata. Proseguivano verso nord, ora salvi e fuori dalla portata delle frecce dell’Impero. Sopraggiunse un’altra raffica di frecce che questa volta atterrarono in acqua sibilando tutt’attorno alla nave mentre si immergevano.
Mentre continuavano a navigare Erec stava a prua e guardava con soddisfazione la flotta dell’Impero che si fermava davanti alla nave in fiamme. Una delle navi nemiche tentò temerariamente di andarvi a sbattere contro, ma i suoi sforzi non valsero che a ritrovarsi incendiata a sua volta. Centinaia di soldati dell’Impero gridarono, avvolti dalle fiamme, e saltarono fuori bordo mentre la loro nave infuocata creava una barriera ancora più insormontabile. Guardando la situazione Erec si figurò che l’Impero non sarebbe stato capace di passare oltre per diversi giorni.
Sentì una mano forte che gli stringeva la spalla e voltandosi vide Strom al suo fianco, sorridente.
“Una della tue strategie più ispirate,” disse.
Erec gli sorrise.
“Ben fatto,” rispose.
Erec si voltò e guardò il fiume davanti a sé, le acque che serpeggiavano in ogni direzione. Questo non gli diede conforto: avevano vinto quella battaglia, ma chissà quali altri ostacoli si trovavano innanzi?
CAPITOLO CINQUE
Volusia, con indosso i suoi paramenti dorati, si trovava in cima alla pedana e guardava i cento gradini d’oro che aveva fatto erigere come inno a se stessa. Allungò le braccia in fuori e si godette quel momento. A perdita d’occhio poteva vedere le strade della città gremite di gente, cittadini dell’Impero, i suoi soldati, tutti i suoi nuovi fedeli inchinati davanti a lei, con le teste che toccavano terra alla luce del primo sole. Cantavano tutti insieme, un suono leggero e continuo, partecipando al servizio mattutino che lei aveva creato come i suoi ministri e comandanti avevano loro insegnato: adorarla o affrontare la morte. Sapeva che ora la veneravano perché dovevano, ma molto presto lo avrebbero fatto perché ci avrebbero creduto.
“Volusia, Volusia, Volusia,” cantavano. “Dea del sole e dea delle stelle. Madre degli oceani e messaggera del sole.”
Volusia ammirava la sua nuova città. Erette ovunque si trovavano le statue d’oro che la rappresentavano come lei aveva ordinato di fare. In ogni angolo della capitale c’era una sua statua di oro splendente; ovunque si guardasse non si poteva che vederla e venerarla.
Finalmente era soddisfatta. Finalmente era la dea che sapeva sarebbe diventata.
Il canto riempiva l’aria come anche l’incenso che veniva bruciato su ogni altare. Uomini, donne e bambini riempivano le strade, spalla a spalla, inchinandosi, e lei sentiva di meritarselo. Era stato una marcia lunga e dura arrivare fino a lì, ma aveva fatto tutta la strada fino alla capitale, era riuscita a conquistarla, a distruggere gli eserciti dell’Impero che le si erano opposti. Ora finalmente la capitale era sua.
L’Impero era suo.
Ovviamente i suoi consiglieri la pensavano diversamente, ma a Volusia non interessava poi tanto cosa pensassero. Sapeva di essere invincibile, in qualche posto tra cielo e terra, e nessun potere di questo mondo poteva distruggerla. Non solo non si ritirava per la paura, ma piuttosto sapeva che questo era solo l’inizio. Voleva ancora più potere. Aveva in programma di visitare ogni Corno e Punta dell’Impero e distruggere tutti coloro che si fossero opposti a lei e che non avessero accettato il suo potere unilaterale. Avrebbe messo insieme un esercito sempre più grande fino a che ogni angolo dell’Impero fosse stato sottomesso a lei.
Pronta ad iniziare la giornata, Volusia scese lentamente dalla pedana, facendo un gradino dorato alla volta. Allungò le mani e mentre tutti le correvano incontro li toccò con i palmi. Erano una moltitudine di fedeli che la abbracciavano e lei era una dea tra loro. Alcuni, piangendo, si buttarono a terra mentre lei avanzava formando un ponte umano, felici che lei gli camminasse sopra.
Alla fine aveva ottenuto il suo gregge. Ora era il momento di andare in guerra.
*
Volusia si trovava in cima ai bastioni che circondavano la capitale dell’Impero e scrutava il cielo sul deserto con un crescente senso di fatalità. Non si vedevano altro che cadaveri decapitati, tutti gli uomini che aveva ucciso, e un nugolo di avvoltoi che volavano e scendevano a piluccare le loro carni. Fuori dalle mura c’era una leggera brezza e lei poteva sentire già il puzzo di carne rancida portato dal vento. Sorrise di fronte a quella carneficina. Quegli uomini avevano osato opporsi a lei e ne avevano pagato il prezzo.
“Non dovremmo bruciare i morti, mia dea?” chiese una voce.
Volusia si voltò e vide il comandante delle sue forze armate, Rory, un umano alto e robusto, con bei lineamenti e un aspetto decisamente gradevole. Lo aveva scelto, lo aveva elevato al di sopra degli altri generali, perché era un piacere per gli occhi, ma anche perché era un comandante brillante e gli piaceva vincere a ogni costo, proprio come lei.
“No,” rispose senza guardarlo. “Voglio che marciscano sotto al sole e che gli animali si rimpinzino delle loro carni. Voglio che tutti sappiano ciò che succede a quelli che si oppongono alla dea Volusia.”
Lui guardò davanti a sé indietreggiando.
“Come desideri, mia dea,” le rispose.
Volusia scrutò l’orizzonte e in quel momento il suo stregone, Koolian, con indosso la sua tunica nera con il cappuccio, gli occhi luccicanti e verdi e il volto segnato dalle rughe – la creatura che l’aveva aiutata a perpetrare l’assassinio di sua madre e uno dei pochi membri della sua cerchia di cui ancora si fidava – si fece avanti avvicinandosi e osservando la scena insieme a lei.
“Sai che sono là fuori,” le ricordò. “Che stanno venendo da te. Li sento anche adesso.”
Lei lo ignorò guardando dritto davanti a sé.
“Come anche io,” disse alla fine.”
“I Cavalieri del Sette sono molto potenti, mia dea,” le disse Koolian. “Viaggiano con un esercito di stregoni, un esercito che neanche tu puoi sconfiggere.”
“E non dimenticare gli uomini di Romolo,” aggiunse Rory. “I rapporti dicono che sono vicini alle nostre coste già adesso nel loro viaggio di ritorno dall’Anello.”
Volusia continuò a guardare avanti e un lungo silenzio rimase sospeso nell’aria, spezzato da nient’altro che l’ululare del vento.
Infine Rory disse: “Sai che non possiamo tenere questo posto. Restare qui significherebbe la morte per tutti noi. Cosa ordini di fare, mia dea? Fuggiamo dalla capitale? Ci arrendiamo?”
Alla fine Volusia si voltò verso di lui e sorrise.
“Festeggeremo,” disse.
“Festeggeremo?” chiese lui scioccato.
“Sì, festeggeremo,” disse. “Fino alla fine. Rinforzate i cancelli della nostra città e aprite la grande arena. Dichiaro cento giorni di feste e giochi. Può anche darsi che moriremo,” concluse con un sorriso, “ma lo faremo sorridendo.”
CAPITOLO SEI
Godfrey correva attraverso le strade di Volusia per raggiungere velocemente i cancelli della città prima che fosse troppo tardi. Era abbastanza felice del suo successo nel sabotare l’arena riuscendo ad avvelenare l’elefante e trovare Dray liberandolo nell’arena proprio quando Dario ne aveva più bisogno. Grazie al suo aiuto e con l’aiuto della donna finiana, Silis, Dario aveva vinto. Aveva salvato la vita del suo amico, il che lo sollevava un poco dalla colpa dell’imboscata a Volusia. Ovviamente il ruolo di Godfrey era nell’ombra, dove gli riusciva meglio, e Dario non avrebbe comunque mai potuto vincere senza il proprio coraggio e la bravura nel combattere. Eppure Godfrey aveva giocato un ruolo abbastanza decisivo, seppur piccolo.
Ma ora tutto stava andando storto: si era aspettato, dopo il combattimento, di poter incontrare Dario ai cancelli dell’arena mentre lo portavano fuori, per poterlo così liberare. Non aveva previsto che l’avrebbero portato fuori dalla porta sul retro accompagnandolo attraverso la città. Dopo la sua vittoria tutta la folla dell’Impero aveva cantato il suo nome e i supervisori dell’Impero si erano sentiti minacciati dalla sua inaspettata popolarità. Avevano creato un eroe e avevano deciso di portarlo fuori dalla città verso l’arena della capitale il prima possibile, prima di ritrovarsi una rivoluzione tra le mani.
Ora Godfrey correva insieme agli altri, disperato per raggiungerlo, per raggiungere Dario prima che lasciasse la città e fosse quindi troppo tardi. La strada verso la capitale era lunga, desolata, attraversava la Desolazione ed era ben sorvegliata. Una volta lasciata la città non ci sarebbe stato modo di aiutarlo. Doveva salvarlo altrimenti i suoi sforzi non sarebbero valsi a nulla.
Godfrey sfrecciava tra le strade, respirando affannosamente, con Merek ed Ario che aiutavano Akorth e Fulton che annaspavano sotto il peso delle loro grosse pance.
“Non fermarti!” Merek incoraggiava Fulton tirandolo per un braccio. Ario dava delle gomitate ad Akorth facendolo gemere e spingendolo ogni volta che rallentava.
Godfrey sentiva il sudore che gli colava lungo il collo e si maledisse ancora una volta per aver sempre bevuto troppa birra. Ma pensò a Dario e si sforzò di continuare a far muovere le gambe doloranti, svoltando in una strada dopo l’altra fino a che emersero da un lungo arco di pietra e si trovarono nella piazza cittadina. A quel punto videro in lontananza, a forse cento metri di distanza, i cancelli della città, imponenti e alti almeno quindici metri. Mentre Godfrey guardava il cuore gli balzò in gola vedendo che le sbarre venivano spalancate.
“NO!” gridò involontariamente.
Godfrey ebbe un moto di panico vedendo il carro di Dario, trainato da cavalli e sorvegliato da soldati dell’Impero, fatto di sbarre di ferro come una sorta di gabbia su ruote, che si dirigeva verso i cancelli aperti.
Godfrey corse più velocemente, più veloce di quanto pensasse di essere capace, arrancando.
“Non ce la faremo,” disse Merek, la voce della ragione, mettendogli una mano sul braccio.
Ma Godfrey lo scosse via e corse. Sapeva che era una causa senza speranza: il carro era troppo lontano, troppo sorvegliato, troppo fortificato, ma lui continuò comunque a correre fino a non poterne più.
Rimase fermo nel mezzo del cortile con la salda mano di Merek che lo tratteneva, e si chinò con conati di vomito mettendo le mani sulle ginocchia.
“Non possiamo lasciarlo andare!” gridò.
Ario scosse la testa avvicinandoglisi.
“È già andato,” gli disse. “Salvati. Combatteremo un altro giorno.”
“Lo salveremo in qualche altro modo,” aggiunse Merek.
“Come?!” implorò Godfrey disperato.
Nessuno di loro aveva una risposta mentre stavano tutti in piedi e guardavano i cancelli di ferro che sbattevano alle spalle di Dario, come porte che si serravano sulla sua anima.
Poté vedere la carrozza che al di là delle sbarre, già distante nel deserto, sempre più lontana da Volusia. La nuvola di polvere si sollevò sempre più alta presto oscurando la visuale e Godfrey si sentì spezzare il cuore sentendo di aver abbandonato l’ultima persona che conosceva e la sua unica speranza di redenzione.
Il silenzio venne scosso dai guaiti frenetici di un cane selvatico e Godfrey abbassò lo sguardo vedendo Dray che sopraggiungeva dalle vie cittadine abbaiando e ringhiando come impazzito, attraversando il cortile diretto verso il suo padrone. Anche lui era disperato per il desiderio di salvare Dario e quando raggiunse i grandi cancelli di ferro saltò gettandovisi contro e mordendoli inutilmente con i denti.
Godfrey guardò con orrore mentre i soldati dell’Impero che stavano di guardia posavano i loro sguardi sul cane e lo indicavano. Uno di essi sguainò la spada e si avvicinò a Dray con la chiara intenzione di ucciderlo.
Godfrey non capì cosa gli stesse accadendo, ma qualcosa si mosse in lui. Era troppo, troppa ingiustizia da sopportare. Se non poteva salvare Dario, almeno doveva salvare il suo adorato cane.
Godfrey sentì se stesso gridare, sentì che si metteva a correre come fuori di sé. Con una sensazione surreale sentì che sguainava la sua spada corta e correva in avanti verso la guardia ignara. Mentre questa si voltava la pugnalò al cuore.
Il grande e grosso soldato dell’Impero guardò Godfrey incredulo, gli occhi sgranati, immobile. Poi cadde a terra morto.
Godfrey udì un grido e vide le altre due guardie dell’Impero piombargli addosso. Sollevarono minacciosamente le loro armi e lui capì che non aveva possibilità di affrontarle. Sarebbe morto lì, davanti a quei cancelli, ma almeno sarebbe morto in un gesto di nobiltà.
Un ringhio squarciò l’aria e Godfrey vide con la coda dell’occhio che Dray si voltava e balzava in avanti saltando addosso alla guardia che incombeva su Godfrey. Gli affondò le zanne nella gola e lo bloccò a terra strattonandolo fino a che l’uomo smise di muoversi.
Nello stesso istante Merek ed Ario accorsero e usarono le loro spade corte per pugnalare l’altra guardia che si trovava dietro a Godfrey, uccidendola prima che potesse fargli del male.
Rimasero tutti lì in silenzio. Godfrey guardò quella carneficina, scioccato per ciò che aveva appena fatto, scioccato di possedere quel genere di coraggio. Dray gli corse vicino e gli leccò il dorso della mano.
“Non pensavo potessi fare tanto,” disse Merek con ammirazione.
Godfrey rimase impassibile, sconvolto.
“Non sono neanche sicuro di cosa ho effettivamente fatto,” disse sopraffatto dalla confusione degli eventi. Non aveva inteso agire, l’aveva fatto e basta. Questo lo rendeva comunque coraggioso?
Akorth e Fulton guardarono da ogni parte, terrorizzati, cercando segni di soldati dell’Impero.
“Dobbiamo andarcene da qui!” gridò Akorth. “Ora!”
Godfrey sentì delle mani su di lui e si sentì trascinare via. Si voltò e corse insieme agli altri, Dray al loro fianco. Si allontanarono tutti dai cancelli correndo di nuovo verso Volusia, verso Dio solo sapeva cosa ci fosse in serbo per loro.
CAPITOLO SETTE
Dario sedeva appoggiato alle sbarre di ferro, i polsi legati alle caviglie con una lunga catena tra essi e il corpo ricoperto di ferite ed abrasioni. Si sentiva pesare tonnellate. Mentre procedevano con la carrozza che rimbalzava sulla strada impervia, guardava verso l’esterno vedendo il cielo del deserto tra le sbarre e sentendosi perduto. La sua carrozza passò attraverso un paesaggio infinito e brullo, nient’altro che desolazione a perdita d’occhio. Era come se il mondo fosse finito.
La sua carrozza era ombreggiata ma dei fasci di luce passavano tra le sbarre e lui sentiva l’opprimente calore del deserto avvolgerlo a ondate, facendolo sudare anche all’ombra e peggiorando così la sua situazione di sconforto.
Ma a Dario non importava. Tutto il corpo gli bruciava e gli doleva dalla testa ai piedi, ricoperto di ematomi, gli arti che facevano fatica a muoversi, consumati dagli infiniti giorni di combattimenti nell’arena. Incapace di dormire, chiuse gli occhi e cercò di scacciare i ricordi, ma ogni volta che ci provava vedeva i suoi amici morirgli accanto – Desmond, Raj, Luzi e Kraz – tutti in modo terribile. Tutti loro morti perché lui potesse sopravvivere.
Era il vincitore, aveva ottenuto l’impossibile, eppure questo significava pochissimo adesso per lui. Sapeva che la morte stava per arrivare: la sua ricompensa, dopotutto, era di venire spedito nella capitale dell’Impero per diventare uno spettacolo in un’arena più grande, contro avversari ben peggiori. La ricompensa per tutto ciò, per i suoi atti di valore, sarebbe stata la morte.