Le accarezzo la testa, le do un bacio, e mi rimetto in piedi. A questo punto mi chiedo se sono stata premurosa a dargliene un po’ o crudele a dargliene così poco.
La casa è scura, e incespico, come sempre quando è notte. Difficilmente faccio un fuoco. Per quanto abbiamo bisogno del calore, non voglio rischiare di attrarre l’attenzione. Ma stasera è diverso: Bree deve guarire, sia fisicamente che mentalmente, e so che un fuoco è proprio quello che ci vuole. Mi sento più tranquilla nell’abbandonare ogni tipo di cautela, visto che domani ci sposteremo da qui.
Attraverso la stanza e raggiungo la credenza, estraggo un accendino e una candela. Una delle migliori cose di questo posto era la sua enorme riserva di candele, uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di avere un papà marine, malato di tecniche di sopravvivenza. Quando venivamo da bambine, l’elettricità se ne andava a ogni tempesta, e di conseguenza aveva fatto riserve di candele, per averla vinta sulle intemperie. Mi ricordo che lo prendevo in giro per questo, che gli diedi dell’accumulatore quando scoprii il suo armadio pieno zeppo di candele. Ora che sono arrivata alle ultime, vorrei che ne avesse accumulate di più.
Ho tenuto in vita il nostro unico accendino usandolo con moderazione, e travasando un pochino di benzina dalla motocicletta ogni due, tre settimane. Ringrazio Dio ogni giorno per la moto di papà e sono anche grata per avergli fatto il pieno l’ultima volta: è l’unica cosa che abbiamo a farmi pensare di avere ancora un vantaggio, di avere qualcosa davvero di valore, una maniera di sopravvivere se le cose dovessero mettersi male. Papà ha sempre tenuto la moto nel piccolo garage attaccato a casa, ma all’inizio quando siamo arrivati, dopo la guerra, la prima cosa che ho fatto è stata prenderla e portarla su per la salita, nel bosco, e nasconderla sotto cespugli, rami e spine così fitti che nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ho pensato che se la nostra casa fosse mai stata scoperta, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata controllare il garage.
Sono anche grata a mio papà per avermi insegnato a guidare quando ero giovane, nonostante le lamentele di mamma. È stata più difficile da imparare rispetto a molte moto, per via del sidecar attaccato. Ripenso a quando dodicenne, spaventata, imparavo a guidare mentre papà stava seduto nel sidecar, urlandomi comandi ogni volta che m’inceppavo. Ho imparato su queste ripide, implacabili strade di montagna e ricordo che sembrava di stare per morire. Ricordo che guardavo il bordo, vedevo il precipizio, e in lacrime, insistevo che guidasse lui. Ma si rifiutava. Rimaneva ostinatamente seduto lì per più di un’ora, fino a quando finalmente non smettevo di piangere e ci riprovavo. E in qualche modo, ho imparato a guidarla. In pratica è così che sono stata educata.
Non tocco la moto dal giorno in cui l’ho nascosta, e non voglio neanche arrischiarmi di salire a vederla se non quando devo travasare la benzina – e anche quello lo faccio solo di notte. Immagino che se mai un giorno fossimo nei guai e avessimo bisogno di andarcene via di qua velocemente, metterò Bree e Sasha nel sidecar e condurrò tutti verso la salvezza. Ma in realtà, non ho idea di dove potremmo andare. Da quello che ho visto e sentito, il resto del mondo è una zona devastata, piena di criminali violenti, bande, e qualche sopravvissuto. I pochi, violenti, che sono riusciti a sopravvivere, si sono radunati nelle città, rapendo e schiavizzando chiunque trovassero, per fini propri, o per rifornire i combattimenti mortali nelle arene. Scommetto che Bree e io siamo tra i pochissimi sopravvissuti che vivono ancora liberi, per contro proprio, fuori dalle città. E fra i pochissimi che non sono ancora morti di fame.
Accendo la candela e Sasha mi segue mentre attraverso lentamente la casa buia. Presumo che Bree stia dormendo e questo mi preoccupa: normalmente non dorme così tanto. Mi fermo davanti alla sua porta, e penso se è o no il caso di svegliarla. Mentre sto lì, alzo lo sguardo e vengo spaventata dalla mia stessa immagine riflessa nel piccolo specchio. Sembro molto più grande d’età, come accade ogni volta che mi guardo. La mia faccia, magra e asciutta, è arrossata dal freddo, i capelli castano chiaro mi cadono sulle spalle, incorniciandomi la faccia, e i miei occhi grigio ferro mi fissano come se appartenessero a qualcuno che non riconosco. Sono occhi intensi e severi. Papà diceva sempre che erano gli occhi di un lupo. Mamma diceva sempre che erano belli. Non sapevo a chi credere.
Distolgo subito lo sguardo, non mi va di stare a guardarmi. Stendo la mano e rigiro lo specchio, così non succederà più.
Lentamente apro la porta di Bree. Nell’istante in cui lo faccio, Sasha si lancia e corre dal lato di Bree, si sdraia e poggia il mento sul petto di Bree per leccarle la faccia. Non smetterò mai di stupirmi per quanto siano vicine loro due – a volte mi sembra che siano ancora più vicine di quanto lo siamo noi due.
Bree apre lentamente gli occhi nel buio.
“Brooke?” domanda.
“Sono io” rispondo dolcemente. “Sono a casa”.
Si mette seduta e sorride mentre i suoi occhi si accendono nel vedermi. È stesa su un materasso da quattro soldi messo per terra e si sbarazza della sua coperta leggera per alzarsi dal letto, ancora in pigiama. Si muove più lentamente del solito.
Mi chino e l’abbraccio.
“Ho una sorpresa per te” le dico, riuscendo a stento a contenere l’eccitazione.
Solleva lo sguardo e spalanca gli occhi, poi li chiude e apre le mani, in attesa. È sempre così fiduciosa e ottimista che mi sorprende ogni volta. Decido cosa darle prima, poi opto per il cioccolato. Metto la mano in tasca, tiro fuori la barretta e lentamente gliela sistemo sul palmo. Apre gli occhi e si guarda la mano, socchiudendo gli occhi alla luce, indecisa. Le porgo la candela.
“Cos’è?” domanda.
“Cioccolato” rispondo.
Mi guarda come se le stessi facendo uno scherzo.
“Sul serio”, le dico.
“Ma dove l’hai preso?” mi chiede, non capendo. Abbassa lo sguardo come se un asteroide le fosse appena atterrato sulla mano. Non la biasimo: non ci sono più negozi, non si cono persone, e neanche posti nel raggio di cento chilometri dove aspettarsi di trovare qualcosa del genere.
Le sorrido. “Me l’ha dato Babbo Natale, per te. È un regalo di Natale anticipato”.
Corruga le sopracciglia. “No, davvero”, insiste.
Faccio un respiro profondo, e decido che è il momento di dirle della nostra nuova casa, e che domani ce ne andremo da qui . Cerco la maniera migliore di formulare la frase. Spero che sarà contenta tanto quanto me – ma con i bambini, non si sa mai. Una parte di me teme che potrebbe essersi affezionata a questo posto e che non voglia partire.
“Bree, ho grandi notizie”, le dico, chinandomi e tenendole le spalle. “Oggi ho scoperto il posto più meraviglioso del mondo, in alto alto. È un piccolo cottage di pietra ed è perfetto per noi. È comodo, caldo, sicuro, e ha il caminetto più bello che esiste, e possiamo accenderlo ogni notte. E, cosa migliore di tutte, c’è ogni sorta di cibo. Come questo cioccolato”.
Bree ripensa al cioccolato, se lo studia, e i suoi occhi si spalancano non appena realizza che è vero. Toglie delicatamente l’incarto e l’odora. Chiude gli occhi e sorride, abbassa la testa per fare un morso – ma all’improvviso si ferma. Mi guarda preoccupata.
“E tu?” mi chiede. “C’è solo una barretta?”
Bree è questa, sempre premurosa, anche se sta morendo di fame. “Vai prima tu”, le dico. “Okay”.
Toglie l’incarto, e dà un gran morso. La sua faccia, scavata dalla fame, sprofonda nell’estasi.
“Mastica lentamente”, la avverto. “Non vorrai farti venire il mal di pancia”.
Mastica più piano, assaporando ogni morso. Ne stacca un grande pezzo e me lo mette sul palmo. “Tocca a te”, dice.
Lo metto in bocca lentamente, facendo un piccolo morso, tenendolo sulla punta della lingua. Lo succhio, poi lo mastico a poco a poco, gustandomi ogni istante. Il gusto e l’odore del cioccolato riempiono i miei sensi. È con ogni probabilità la cosa migliore che abbia mai mangiato.
Sasha si lamenta, e avvicina il naso alla cioccolata; Bree stacca un pezzo e glielo offre. Sasha glielo strappa via dalle dita e lo ingoia in un sol boccone. Bree ride divertita, come sempre. Poi, mostrando grande autocontrollo, Bree avvolge la metà rimanente della barretta, stende le braccia verso l’alto e lo ripone saggiamente in alto sul comò, fuori dalla portata di Sasha. Bree sembra ancora debole, ma vedo che inizia a tornarle un po’ di morale .
“Che cos’è?” domanda indicando la mia cintura.
Per un attimo non capisco di cosa stia parlando, poi abbasso lo sguardo e vedo l’orsetto di peluche. Nell’euforia, me ne ero quasi dimenticata. Allungo la mano e glielo porgo.
“L’ho trovato nella casa nuova”, le dico. “È per te”.
Bree spalanca gli occhi euforica e afferra l’orsetto, se lo porta al petto e lo culla.
“Lo adoro!” esclama Bree, con gli occhi che brillano. “Quando ci trasferiamo? Non vedo l’ora”!
Sono sollevata. Prima di riuscire a rispondere, Sasha abbassa la testa e mette il naso sul nuovo orsetto di Bree, mettendosi ad annusarlo; Bree glilo sfrega sul muso per gioco, Sasha lo agguanta e si mette a correre per la stanza.
“Ehi!” urla Bree, che scoppia a ridere sguaiatamente e parte all’inseguimento.
Corrono entrambe per il soggiorno, ormai prese dalla loro caccia all’orsetto. Non so chi si stia divertendo di più.
Le seguo dentro la stanza, stando attenta a reggere la candela per non farla spegnere, e la porto verso il mucchietto di legna. Metto qualcuno dei legnetti più piccoli nel caminetto, poi prendo una manciata di foglie secche dal cestino che c’è accanto. Sono contenta di averle raccolte, lo scorso autunno, con l’idea di usarle per accendere il fuoco. Funzionano alla perfezione. Piazzo le foglie secche sotto i ramoscelli, le accendo e la fiamma raggiunge subito il legno accendendolo. Continuo a mettere foglie nel caminetto, fino a quando i ramoscelli non prendono completamente. Spengo la candela, risparmiandola per la prossima volta che mi servirà.
“Stiamo facendo un fuoco?” grida Bree elettrizzata.
“Sì” le dico. “Stasera festeggiamo. È la nostra ultima sera qui”.
“Yay!” grida Bree, saltando su e giù, mentre Sasha le abbaia accanto, partecipando anche lei all’euforia. Bree si mette a correre, afferra qualche legnetto e mi aiuta a collocarli sul fuoco. Lo alimentiamo con cura, lasciando spazio per l’aria; Bree ci soffia un po’ sopra, dando ossigeno alla fiamma. Come i ramoscelli prendono, piazzo in cima un ceppo più spesso. Continuo ad accatastare legni grossi, fino a quando non viene fuori un fuoco bello vivace.
In pochi istanti, la stanza è tutta illuminata, e si sente già il calore. Stiamo in piedi accanto al fuoco; stendo un po’ le mani, le sfrego, e lascio che il calore mi penetri nelle dita. A poco a poco, va tornando la sensibilità. Lentamente mi scrollo di dosso il freddo dei lunghi giorni passati all’aperto, e inizio nuovamente a sentirmi me stessa.
“Cos’è quello?” domanda Bree, indicando il pavimento. “Sembra un pesce!”.
Va verso il pesce, lo raccoglie, e come cerca di afferrarlo le scivola dalle mani. Si mette a ridere, e Sasha, senza perdere un secondo, ci salta di sopra con tutte le zampe, facendolo scivolare per il pavimento. “Dove l’hai preso?” urla Bree.
Lo raccolgo prima che Sasha faccia altri danni. Apro la porta e lo lancio fuori, sulla neve, dove si conserverà meglio e rimarrà al sicuro; quindi mi chiudo la porta dietro.
“Questa era l’altra sorpresa”, dico. “Stasera si cena!”.
Bree mi viene di sopra e mi abbraccia forte. Sasha abbaia, come se capisse. L’abbraccio anch’io.
“Ho altre due sorprese per te”, le annuncio con un sorriso. “Sono per dessert. Vuoi aspettare fino a dopo cena? O le vuoi ora”?
“Ora!” urla elettrizzata.
Sorrido, euforica anch’io. Almeno la terrà tranquilla fino alla cena.
Infilo la mano in tasca ed estraggo il barattolo di marmellata. Bree lo guarda divertita, si vede che non sa bene cosa pensare. Svito il coperchio e glielo piazzo sotto il naso. “Chiudi gli occhi”, le dico.
Li chiude. “Ora, inspira”.
Respira profondamente, e un sorriso le attraversa la faccia. Apre gli occhi.
“Odora di lamponi!” esclama.
“È marmellata. Vai. Provala”.
Bree infila due dita, prende un bella palettata e se la mangia. I suoi occhi si illuminano.
“Wow”, esclama, e infila le dita nel barattolo per prenderne un altro bel po’ e avvicinarlo a Sasha, la quale scatta e senza esitare se lo sbafa in un boccone. Mentre Bree ride euforica, stringo il coperchio e ripongo il barattolo sulla cappa, lontano da Sasha.
“Anche quello viene da casa nuova?” domanda.
Annuisco, e mi sento sollevata nel sentire che la considera già la nostra nuova casa.
“E c’è un’ultima sorpresa”, dico. “Ma questa la dovrò conservare per la cena”.
Estraggo il termos dalla cintura e lo metto sulla cappa, fuori dalla sua vista, così che non riesca a vedere cos’è. La vedo che allunga il collo, ma lo nascondo bene.
“Fidati di me”, dico. “È qualcosa di buono”.
*
Non voglio che la casa puzzi di pesce, quindi decido di affrontare il freddo e pulire il salmone all’aperto. Prendo il coltello e mi metto al lavoro sul pesce: lo appoggio su un ceppo e mi metto in ginocchio sulla neve, col salmone accanto. Non so davvero quello che sto facendo, ma ne so abbastanza per capire che non si mangiano testa e coda. Quindi inizio tagliandole via.
Poi intuisco che non si mangiano neanche le pinne, e taglio via anche quelle —né le squame, e cerco di rimuoverle meglio che posso. Dopodiché mi rendo conto che dev’essere aperto per essere mangiato, quindi taglio quanto rimasto esattamente a metà. Si rivela essere bello pieno, rosa dentro, con un sacco di spine. Non so cos’altro fare, e decido che è pronto per essere cucinato.
Prima di rientrare, sento il bisogno di lavarmi le mani. Mi chino, prendo una manciata di neve e mi ci sciacquo le mani; meno male che c’è la neve – di solito devo camminare fino al ruscello più vicino, considerato che non abbiamo acqua corrente. Mi rimetto in piedi, e prima di entrare mi fermo un momento per assicurarmi che qua fuori sia tutto a posto. All’inizio ascolto, come sempre, in cerca di un qualsiasi segno di rumore, o pericolo. Dopo qualche secondo, mi rendo conto che il mondo non può essere più calmo. Finalmente, lentamente, mi rilasso e respiro profondamente: sento i fiocchi di neve sulle guance, mi godo il silenzio perfetto e realizzo quanto sia meraviglioso l’ambiente che mi circonda. I giganteschi pini sono coperti di bianco, la neve cade senza sosta da un cielo violaceo, e il mondo sembra perfetto, come in una favola. Il caminetto risplende dalla finestra e da qui, la nostra casa sembra il posto più accogliente nel mondo.
Torno dentro casa con il pesce e chiudo la porta dietro di me: è una bella sensazione entrare in un posto così ben riscaldato, tutto avvolto dalla morbida luce del fuoco. Bree ha badato bene al fuoco, come sempre, aggiungendo ceppi con sapienza, e adesso è ancora più alto. Sta apparecchiando sul pavimento, accanto al caminetto, con coltelli e forchette prese dalla cucina. Sasha si siede premurosamente accanto a lei, osservando ogni sua mossa.
Porto il pesce sul fuoco. Non so davvero come cucinarlo, quindi decido di tenerlo sul fuoco per un po’, lasciarlo arrostire, girandolo un paio di volte, e sperare che funzioni. Bree mi legge nel pensiero: si dirige immediatamente in cucina e ritorna con un coltello affilato e due lunghi spiedi. Infilza ogni pezzo di pesce, poi prende la sua porzione e la mette sulla fiamma. Seguo il suo esempio. Il senso domestico di Bree è sempre stato superiore al mio e le sono grata per l’aiuto. Siamo sempre state una buona squadra.