Stiamo entrambe in piedi a fissare le fiamme, paralizzate, tenendo il pesce sul fuoco fino a quando non ci fanno male le braccia. L’odore di pesce riempe la stanza, e dopo circa dieci minuti sento una fitta allo stomaco e inizio a sentirmi impaziente per la fame. Decido che il mio è pronto; dopotutto, ci sono persone che a volte mangiano il pesce crudo, quindi quanto può essere cattivo? Bree sembra d’accordo. Così mettiamo le nostre porzioni sui piatti e ci sediamo sul pavimento, una accanto all’altra, con le schiene sul divano e i piedi verso il fuoco.
“Attenta”, l’avverto. “Ci sono ancora un sacco di spine dentro”.
Tolgo le spine e lo stesso fa Bree. Dopo averlo pulito a sufficienza, prendo un pezzetto di carne rosa, calda al tatto, e lo mangio, pronta la peggio.
Devo dire che è buono. Si potrebbe usare del sale o qualche tipo di condimento, ma almeno sembra cotto, e fresco per quello che è possibile. Sento le tanto attese proteine entrarmi in corpo. Anche Bree divora la sua parte, e vedo la sua faccia sollevata. Sasha si siede accanto a lei, la fissa leccandosi le labbra. Bree sceglie un grosso pezzo, toglie con attenzione le spine e lo dà a Sasha, la quale lo mastica intero e l’ingoia, poi si lecca il muso e si rimette a fissare, sperando di averne ancora.
“Sasha, qui”, le dico.
Viene correndo, prendo un pezzetto del mio pesce, tolgo le spine, e glielo do; lo ingoia tutto in pochi secondi. Prima che me ne accorga, il mio pesce è finito – così come quello di Bree – e mi sorprende sentire ancora brontolare il mio stomaco. Vorrei averne preso di più. Tuttavia, questa è stata la più grande cena che abbiamo da settimane e mi sforzo di essere contenta con ciò che abbiamo.
Poi m ricordo della linfa. Scatto in piedi, tolgo il termos dal suo nascondiglio e lo porgo a Bree.
“Vai” sorrido, “il primo sorso è tuo”.
“Che cos’è?” mi chiede, svitandolo e portandoselo al naso. “Non ha l’odore di nient’altro”.
“È linfa di acero”, le dico. “È come acqua zuccherata. Ma meglio”.
Prova a sorseggiarla, poi mi guarda, gli occhi spalancati per la gioia. “È delizioso!” esclama. Fa grandi sorsi, poi si ferma e me lo porge. Non posso fare a meno di dare anch’io grandi sorsate. Sento la botta dello zucchero. Mi piego e ne verso con cura un po’ nella ciotola di Sasha; se lo beve tutto e sembra piacere anche a lei.
Ma sto ancora morendo di fame. In un momento di debolezza, penso al vasetto di marmellata e decido, perché no? Dopotutto, presumo ce ne sia molta altra in quel cottage sulla vetta della montagna – e se abbiamo motivo di festeggiare stasera, allora quando?
Tiro giù il barattolo, lo svito, ci infilo due dita e ne prendo un bel po’. La metto sulla lingua e me la lascio in bocca più che posso prima di inghiottire. È divina. Allungo il resto del vasetto, ancora mezzo pieno, a Bree. “Vai”, le dico, “finiscilo. Ce n’è ancora nella casa nuova”.
Gli occhi di Bree si spalancano mentre allunga la mano. “Sei sicura?” mi chiede. “Non dovremmo conservarla?”
Scuoto la testa. “È ora di trattarsi bene”.
Bree non ha molto bisogno di essere convinta. In pochi secondi, se la mangia tutta, lasciando soltanto un ultimo boccone per Sasha.
Ci stendiamo, appoggiate al divano con i piedi verso il fuoco, e sento il mio corpo che inizia a rilassarsi. Tra il pesce, la linfa e la marmellata, finalmente, lentamente, sento le forze che ritornano. Do un’occhiata a Bree, che si è già appisolata, con la testa di Sasha sul grembo, e nonostante sembri ancora malata, per la prima volta da un pezzo scorgo della speranza nei suoi occhi.
“Ti voglio bene, Brooke”, dice dolcemente.
“Anch’io ti voglio bene”, le rispondo.
Ma il tempo di guardarla, e dorme già profondamente.
*
Bree è stesa sul divano di fronte al fuoco, e io mi seggo adesso sulla sedia accanto a lei; è un’abitudine che ci siamo prese col passare dei mesi. Ogni notte, prima di andare a letto, si rannicchia sul divano, troppo spaventata per addormentarsi da sola nella stanza. Le faccio compagnia, aspettando che si appisola; poi la porterò a letto. La maggior parte delle notti non abbiamo il fuoco, ma ci sediamo lì lo stesso.
Bree ha sempre incubi. Non era ne aveva prima: ricordo il tempo, prima della guerra, in cui si addormentava facilmente. La prendevo in giro, la chiamavo “Bree ora di nanna” visto che si addormentava in macchina, sul divano, leggendo un libro sulla sedia – ovunque. Ma ora non è per niente come prima; adesso rimane sveglia per ore, e quando dorme, è irrequieta. Molte notti sento i suoi piagnucoli o le sue urla attraverso i muri sottili. Come biasimarla? Con l’orrore che abbiamo visto, è stupefacente che non si sia persa del tutto. Troppe notti riesco a malapena a dormire io.
L’aiuta quando leggo per lei. Fortunatamente, quando siamo fuggiti, Bree ha avuto la prontezza di afferrare il suo libro preferito. L’Albero. Glielo leggo ogni notte. Lo conosco perfettamente ormai, e quando sono stanca, a volte chiudo gli occhi e lo recito a memoria. Fortunatamente, è breve.
Mi appoggio alla sedia – sento che mi sto addormentando – giro la copertina logora e comincio a leggere. Sasha è stesa sul divano accanto a Bree, con le orecchie in su, e a volte mi chiedo se anche lei sta ad ascoltare.
“C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni, raccoglieva le sue foglie e le usava per intrecciare corone con cui giocare al re della foresta”.
Vedo che Bree, sul divano, sta già dormendo profondamente. “Sono sollevata”. Forse è stato il fuoco, forse il pasto. Dormire è ciò di cui ha più bisogno adesso, recuperare forze. Mi tolgo la sciarpa nuova, perfettamente avvolta attorno al collo, e gliel’appoggio delicatamente sul petto. Finalmente, il suo corpicino smette di tremare.
Metto un ultimo ceppo nel fuoco, mi rimetto sulla sedia, mi giro e fisso le fiamme. Le vedo morire lentamente e vorrei avere portato più ceppi. Meglio così. È più sicuro.
Un ceppo crepita e scoppietta mentre lo risistemo: non mi sentivo così rilassata da anni. A volte, dopo che Bree si addormenta, prendo su il mio libro e mi metto a leggere per conto mio. Rimango stesa sul pavimento: Il signore delle Mosche. È l’unico libro che mi è rimasto ed è consumatissimo, sembra avere cent’anni. È una strana esperienza, essere rimasta con un libro solo. Mi rende consapevole di quanto davo per scontato, mi fa rimpiangere i tempi in cui c’erano le biblioteche.
Stasera sono troppo elettrizzata per leggere. La mia mente viaggia, piena di pensieri su domani, sulla nostra nuova vita, in alto sulla montagna. In testa continuo a ripensare a tutte le cose che dovrò portare da qua a là, e a come farlo. Ci sono tutte le nostre cose di base – gli utensili, i fiammiferi, quello che è rimasto delle candele, le coperte, i materassi. Oltre a questo, nessuna di noi ha molti vestiti, e libri a parte, non possediamo sostanzialmente nulla. Questa casa era praticamente spoglia quando siamo arrivate, quindi non ci sono cimeli. Mi piacerebbe portare questo divano e la sedia, anche se avrò bisogno dell’aiuto di Bree per farlo, e dovrò aspettare che lei stia abbastanza bene. Dovremo farlo a fasi, portando prima l’essenziale, e lasciando i mobili alla fine. Ma va bene; fintanto che siamo lassù, protette e sicure. Questa è la cosa più importante.
Inizio a pensare a tutti i modi per rendere quel piccolo cottage ancora più sicuro di com’è. Dovrò certamente trovare un modo di creare delle persiane per le finestre aperte, così da poterle chiudere quando ne avrò bisogno. Mi guardo attorno, mappando la casa in cerca di qualsiasi cosa possa essermi utile. Mi servirebbero dei cardini per fare funzionare le persiane e noto i cardini sulla porta del soggiorno. Forse posso rimuoverli. E una volta che ci sono, forse potrei anche usare la porta di legno, e segarla in pezzi.
Più mi guardo attorno, più inizio a realizzare quante cose posso recuperare. Ricordo che papà ha lasciato una cassetta degli attrezzi, con sega, martello, cacciavite, e perfino una scatola di chiodi. È una delle cose più preziose che abbiamo, e prendo nota in mente di portarla su per prima.
Ovviamente, dopo la motocicletta. È il pensiero dominante: quando trasportarla, e come. Non sopporto l’idea di lasciarmela dietro, neanche per un minuto. La porterò su al nostro primo viaggio. Non posso rischiare di accenderla e attrarre tanta attenzione – e poi, il versante della montagna è troppo ripido perché io possa guidarci. Dovrò portarla a piedi, su per la montagna. Posso già immaginare quanto sarà estenuante, soprattutto nella neve. Ma non vedo altri modi. Se Bree non fosse malata, mi potrebbe aiutare, ma nel suo stato attuale non potrà portare niente – temo anzi che potrei dovere portare lei. Mi rendo conto che non abbiamo altra scelta che attendere fino a domani notte, per la copertura del buio, prima di muoverci. Forse sono solo paranoica – le probabilità che qualcuno ci veda sono remote, ma tuttavia, è meglio essere prudenti. Soprattutto perché so che ci sono altri sopravvissuti quassù. Ne sono sicura.
Ricordo il primo giorno che siamo arrivate. Eravamo entrambe terrificate, sole, ed esauste. Quella prima notte siamo entrambe andate a letto affamate, e mi domandavo come avremmo fatto a sopravvivere. Era stato un errore lasciare Manhattan, abbandonare nostra madre, lasciarci dietro tutto ciò che conoscevamo?
E poi la nostra prima mattina, mi sono svegliata, ho aperto la porta, e sono rimasta scioccata nel vederla, buttata lì: la carcassa di un cervo morto. All’inizio, ero atterrita. L’avevo presa per una minaccia, un avvertimento, presumendo che qualcuno ci stava dicendo di andarcene, che non eravamo graditi lì. Ma dopo aver superato lo shock iniziale, ho capito non era per niente quello il caso: si trattava di un vero e proprio regalo. Qualcuno, qualche altro superstite, doveva averci visto. Doveva avere visto quanto eravamo disperate, e in un atto di suprema generosità, aveva deciso di darci la sua preda, il nostro primo pasto, carne sufficiente per settimane. Non posso immaginare il valore che deve avere avuto per lui.
Ricordo che mi mise a camminare fuori, perlustrando tutto, su e giù per la montagna, osservando ogni albero, convinta che sarebbe saltato fuori qualcuno a fare ciao con la mano. Ma nessuno l’ha mai fatto. Tutto quello che vedevo erano alberi, e anche se aspettavo diversi minuti, tutto quello che sentivo era silenzio. Ma sapevo, ero sicura, che ero stata osservata. E così mi resi conto che c’erano altre persone quassù, che cercavano di sopravvivere proprio come noi.
Da allora, ho sempre provato un certo orgoglio, ho sentito che eravamo parte di una comunità silenziosa di superstiti isolati che vivono in queste montagne, che badano a sé stessi, senza mai comunicare tra loro per paura di essere visti, per paura di diventare visibili a un mercante di schiavi. Immagino che è così che gli altri sopravvivono fin tanto che ci riescono: senza lasciare niente al caso. All’inizio, non l’avevo capito. Ma ora, l’apprezzo. E da allora in poi, per quanto non veda mai nessuno, non mi sono mai sentita sola.
Ma allo stesso tempo sono anche più vigile; questi altri superstiti, se sono ancora vivi, a questo punto staranno sicuramente morendo di fame e saranno disperati quanto noi. Soprattutto nei mesi invernali. Chi può dire se l’inedia, se il bisogno di difendere le loro famiglie, non abbia spinto alcuni di loro oltre la linea della disperazione, se il loro atteggiamento caritatevole non sia stato sostituito dal puro istinto di sopravvivenza. So che il pensiero di Bree, Sasha e me in preda alla fame a volte mi ha portato a fare pensieri abbastanza disperati. Quindi non lascerò niente al caso. Partiremo di notte.
Che ci sta a pennello, comunque. Mi devo prendere la mattina per risalire lassù, da sola, per perlustrare come prima cosa, per assicurarmi un’ultima volta che nessuno è entrato o uscito. Devo anche andare in quel punto dove ho trovato il cervo e aspettarlo. So che non è facile, ma se riesco a ritrovarlo e ad ucciderlo, ci sfamerà per settimane. Ho sprecato il primo cervo che c’era stato dato, anni fa, perché non sapevo come scuoiarlo, né tagliarlo o conservarlo. L’ho ridotto un macello, e ho provato a farci uscire almeno un pasto prima che l’intera carcassa marcisse. È stato un terribile spreco di cibo, e sono determinata a non rifarlo. Stavolta, specialmente con la neve, troverò un modo per conservarlo.
Infilo la mano in tasca e tiro fuori il coltellino che mi ha dato papà prima di partire; strofino il manico consumato – con le sue iniziali scolpite e decorato con il logo del Corpo dei Marine – come faccio ogni notte da quando siamo arrivate qua. Mi ripeto che è ancora vivo. Perfino dopo tutti questi anni, anche se so che le possibilità di rivederlo sono vicinissime allo zero, non riesco ad abbandonare quest’idea.
Ogni notte desidero che papà non se ne sia mai andato, che non sia proprio mai partito volontario per la guerra. È stato stupido iniziare questa guerra. Non ho mai veramente capito fino in fondo come tutto abbia avuto inizio, e ancora adesso non lo so. Papà me l’ha spiegato, diverse volte, e non l’ho capito lo stesso. Forse era solo per via della mia età. Forse non ero abbastanza grande per capire quanto insensate fossero le cose che gli adulti possono farsi l’un l’altro.
Da come la spiegava mio papà, si trattava di una seconda guerra civile americana – questa volta non tra Nord e Sud, ma tra partiti politici. Tra Democratici e Repubblicani. Diceva che era una guerra che sarebbe durata a lungo. Negli ultimi cent’anni, diceva, la deriva ha portato l’America a diventare una terra divisa in due nazioni: quelli all’estrema destra, e quelli all’estrema sinistra. Col tempo, con le posizioni che si andavano profondamente irrigidendo, è diventata una nazione di opposte ideologie.
Papà diceva che la gente a sinistra, i Democratici, volevano una nazione guidata da un governo sempre più esteso, che alzasse le tasse al 70%, e che fosse coinvolto in ogni aspetto della vita delle persone. Diceva che quelli a destra, i Repubblicani, continuavano a volere un governo sempre più piccolo, che abolisse del tutto le tasse, non mettesse il naso negli affari delle persone, e le lasciasse difendersi per conto proprio. Diceva che col tempo, queste due diverse ideologie, anziché trovare dei compromessi, hanno continuato ad allontanarsi sempre più, estremizzandosi – fino a raggiungere un punto in cui non erano d’accordo su niente.
A peggiorare la situazione, diceva, c’era il fatto che l’America era ormai così affollata, che per qualsiasi politico era diventato più difficile catturare l’attenzione nazionale, e che i politici di entrambi i partiti avevano iniziato a rendersi conto che prendere posizioni estreme era l’unico modo per conquistare spazio mediatico nazionale – ciò che gli serviva per le loro ambizioni personali.
Come risultato, i personaggi di primo piano di entrambi i partiti erano quelli più estremisti, tutti impegnati a scavalcarsi l’un l’altro, a prendere posizioni alle quali in realtà non credevano neanche loro ma che erano costretti a prendere. Naturalmente, quando i due partiti discutevano, potevano soltanto scontrarsi tra loro – e così facevano, con parole sempre più pesanti. All’inizio, erano solo insulti e attacchi personali. Ma col tempo, la guerra verbale si è intensificata. E poi un giorno, ha attraversato il punto di non ritorno.