Arena Uno: Mercanti Di Schiavi - Морган Райс 6 стр.


Un giorno, circa dieci anni fa, arrivò il momento critico fatale quando un leader politico minacciò l’altro usando una parola fatidica: “secessione”. Se i Democratici avessero provato ad alzare le tasse anche di un solo centesimo, il suo partito si sarebbe distaccato e ogni villaggio, ogni città, ogni stato sarebbe stato diviso in due. Non in base alla terra, ma all’ideologia.

Il tempismo non poteva essere peggiore: a quel punto, la nazione era in depressione economica, e c’erano in giro abbastanza persone scontente, stufe di perdere lavoro, per fargli guadagnare popolarità. Ai media erano piaciuti molto gli indici di ascolto che aveva ottenuto, e gli misero a disposizione sempre più spazio. Presto la sua popolarità crebbe. Alla fine, senza nessuno a fermarlo, con i Democratici contrari a compromessi, e con lo slancio del momento a favorirlo, la sua idea si era rafforzata. Il suo partito propose la propria bandiera nazionale e perfino la propria valuta.

Fu il primo punto di svolta. Se qualcuno avesse fatto la voce grossa e l’avesse bloccato allora, tutto quanto poteva essere fermato. Ma nessuno lo fece. E così andò ancora oltre.

Incoraggiato, questo politico propose che la nuova unione avesse anche la propria polizia, i propri tribunali, la propria cavalleria di stato—e le proprie forze armate. Era il secondo punto di svolta.

Se il Presidente Democratico di allora fosse stato un buon leader, avrebbe fermato le cose. Ma peggiorò la situazione facendo una scelta sbagliata dopo l’altra. Anziché provare a calmare la situazione, ad affrontare le ragioni profonde che avevano portato a tale malcontento, decise che l’unico modo per sopprimere quella che chiamava “la Rivolta” era tenere una linea dura: accusò l’intera direzione repubblicana di sedizione. Dichiarò la legge marziale, e nel mezzo della notte, li arrestò tutti.

Ciò fece precipitare la situazione, e rianimò tutto il loro partito. Rianimò anche metà delle forze armate. Le persone erano divise, dentro ogni casa, ogni città, ogni caserma; lentamente, la tensione montava nelle strade, e vicino odiava vicino. Anche le famiglie erano divise.

Una notte, i capi militari fedeli ai Repubblicani seguirono ordini segreti e misero in atto un golpe, facendoli evadere di prigione. La situazione era in stallo. E sui gradini del Campidoglio, venne sparato il primo colpo fatidico. Un giovane soldato pensò di avere visto un ufficiale in procinto di estrarre una pistola e sparò per primo. Una volta caduto il primo soldato, non ci fu punto di ritorno. La linea finale era stata oltrepassata. Un americano aveva ucciso un americano. Venne fuori uno scontro a fuoco, con dozzine di ufficiali morti. I leader repubblicani furono immediatamente portati in una località segreta. E da quel momento in poi, le forze armate si spaccarono in due. Il governo si spaccò in due. Città, villaggi, contee, stati: tutti spaccati in due. Questa venne conosciuta come la Prima Ondata.

Durante i primi giorni, gli specialisti delle crisi e le fazioni del governo tentarono disperatamente di fare pace. Ma era troppo poco, troppo tardi. Niente poteva fermare la tempesta che stava arrivando. Una fazione di generali interventisti prese la situazione in mano, cercando gloria, cercando di essere i primi a fare guerra, cercando il vantaggio della velocità e della sorpresa. Decisero che schiacciare subito l’opposizione era la maniera migliore per mettere fine a tutto questo.

E la guerra ebbe inizio. Seguirono battaglie sul territorio americano. Pittsburgh divenne la nuova Gettysburg, con duecentomila morti in una settimana. Carri armati si mobilitavano contro carri armati. Aerei contro aerei. Ogni giorno, ogni settimana, cresceva la violenza. Le barricate erano state innalzate, le forze armate e la polizia erano divisi, e le battaglie si erano diffuse a ogni stato nella nazione. In qualsiasi posto, ci si combatteva a vicenda, amico contro amico, fratello contro fratello. Si era raggiunto un punto in cui nessuno sapeva più per che cosa si stava lottando. L’intera nazione era cosparsa di sangue, e nessuno sembrava in grado di fermare tutto questo. Questa divenne conosciuta come la Seconda Ondata.

Fino a quel momento, per quanto sanguinosa, si trattava ancora di guerra convenzionale. Ma poi arrivò la Terza Ondata, la peggiore di tutte. Il Presidente, in preda alla disperazione, al lavoro in un bunker segreto, decise che c’era un solo modo per reprimere quella che insisteva a chiamare “la Rivolta”. Convocati i suoi migliori ufficiali militari, questi gli consigliarono di usare ciò che di più potente aveva per reprimere la rivolta una volta per tutte: missili nucleari locali e mirati. Acconsentì.

Il giorno successivo cariche nucleari vennero sganciate sulle roccaforti repubblicane in tutta l’America. Centinaia di migliaia di persone morirono quel giorno, in luoghi come Nevada, Texas, Mississippi. Milioni ne morirono quello dopo.

I Repubblicani risposero. Presero controllo dei propri armamenti, colsero di sorpresa il Norad, e lanciarono le loro cariche nucleari sulle roccaforti democratiche. Stati come il Maine e il New Hampshire vennero sventrati. Nei dieci giorni seguenti, quasi tutta l’America venne distrutta, una città dopo l’altra. Ondate di pura devastazione, e quelli che non vennero uccisi dall’attacco diretto morirono subito dopo per via dell’aria e dell’acqua tossiche. Questione di un mese, e non era rimasto nemmeno nessuno a combattere. Le strade e gli edifici si svuotarono di colpo, visto che le persone erano state messe a combattere contro quelli che prima erano i loro vicini.

Ma papà non ha nemmeno aspettato la leva – è per questo che lo odio. Se n’è andato troppo presto. Era stato ufficiale nel corpo dei marine per vent’anni prima che tutto scoppiasse, e aveva previsto tutto prima di quasi tutti. Ogni volta che guardava le notizie, ogni volta che vedeva due politici urlarsi addosso nelle maniere più irrispettose, alzando la posta di continuo, papà scuoteva la testa e diceva, “Questo porterà alla guerra. Credi a me”.

E aveva ragione. Paradossalmente, papà aveva già prestato i suoi anni di servizio ed era andato in pensione dal Corpo anni prima che questo accadesse; ma quando venne sparato quel primo colpo, in quello stesso giorno, si riarruolò. Prima si parlava tanto di guerra totale. È stato probabilmente il primo in assoluto ad arruolarsi volontario, per una guerra che ancora non era nemmeno iniziata.

Ed è per questo che ce l’ho ancora con lui. Perché ha dovuto farlo? Perché non ha potuto semplicemente lasciare che tutti gli altri si uccidessero fra loro? Perché non ha potuto rimanere a casa, a proteggerci? Perché gli importava più del suo paese che della sua famiglia?

Ricordo ancora, nitido, il giorno che ci ha lasciate. Quel giorno stavo tornando da scuola, e ancora prima di aprire la porta, sentii urla venire da dentro. Mi tenni pronta. Odiavo quando mamma e papà litigavano, il che succedeva praticamente sempre, e pensai che era un’altra di quelle liti.

Aprii la porta e capii subito che stavolta era diverso. C’era qualcosa di molto, molto sbagliato. Papà era lì in piedi in completa uniforme. Non aveva alcun senso. Non indossava la sua uniforme da anni. Perché ce l’ha addosso adesso?

“Tu non sei un uomo!” Gli gridava mamma. “Tu sei un vigliacco! Lasciare la tua famiglia. Per cosa? Per andare a uccidere persone innocenti?”

La faccia di papà divenne rossa, come sempre quando si arrabbiava.

“Non sai di che cosa parli!” gli urlò per risposta. “Faccio il mio dovere per il mio paese. È la cosa giusta da fare”.

“La cosa giusta per chi?” gli ribatté lei. “Non sai neanche per cosa combatti. Per un pugno di stupidi politici?”

“So esattamente per cosa combatto: per tenere la nostra nazione unita”.

“Oh, allora scusami, Mister America!” gli gridò ancora lei. “Puoi giustificarti così nella tua testa, ma la verità è che te ne vai perché non mi sopporti. Perché non ci hai mai saputo fare con la vita domestica. Perché sei troppo stupido per fare qualcosa della tua vita senza il Corpo dei Marine. Così alla prima occasione scatti in piedi e scappi via —”.

Papà la interruppe con un pesante schiaffo in faccia. Mi sembra di sentire ancora il rumore.

Ero sconvolta; non gli avevo mai visto alzarle una mano prima. Sentii il vento abbattersi su di me, come se fossi stata schiaffeggiata io. Lo fissai, e quasi non lo riconoscevo. Quello era davvero mio padre? Rimasi così sbalordita che feci cadere il mio libro e questo toccò terra con un tonfo.

Si girarono tutti e due e mi guardarono. Mi girai mortificata e corsi per il corridoio fino in camera mia sbattendo la porta dietro di me. Non sapevo come reagire a tutto quello e dovevo allontanarmi da loro.

Pochi istanti dopo, sento bussare piano alla mia porta.

“Brooke, sono io”, disse papà con voce delicata e piena di rimorso. “Mi dispiace che hai dovuto vedere questo. Per favore, lasciami entrare”.

“Vai via!” gli urlai.

Seguì un lungo silenzio. Ma non se n’era ancora andato.

“Brooke, devo andarmene adesso. Mi piacerebbe vederti un’ultima volta prima che vada. Ti prego. Vieni fuori a salutarmi”.

Mi misi a piangere.

“Vai via!” Gli risposi bruscamente. Ero così sopraffatta, così in collera con lui per avere colpito mamma, e anche di più per starci abbandonando. E nel profondo, avevo paura che non sarebbe mai tornato.

“Sto andando, Brooke” disse. “Non devi per forza aprire la porta. Ma voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. E che sarò sempre con te. Ricordati, Brooke, tu sei quella forte. Prenditi cura di questa famiglia. Conto su di te. Prenditi cura di loro”.

Poi sentii i passi di mio padre che si allontanavano. Si facevano sempre più tenui. Pochi istanti dopo sentii la porta d’ingresso aprirsi, e poi chiudersi.

Quindi, il nulla.

Dopo pochi minuti – che sembrarono giorni – aprii lentamente la mia porta. L’avevo già percepito. Se n’era andato. E già me n’ero pentita; avrei voluto salutarlo. Perché me lo sentivo, nel profondo, che non sarebbe mai ritornato.

Mamma stava seduta al tavolo della cucina, con la testa fra le mani, e piangeva sommessamente. Sapevo che le cose erano cambiate definitivamente quel giorno, che niente  sarebbe mai stato lo stesso – che lei non sarebbe mai stata la stessa. E neanch’io.

E avevo ragione. Mentre sto qui seduta a fissare le braci del fuoco morente, gli occhi pesanti, mi rendo conto che, da quel giorno, niente sarebbe mai stato lo stesso, di nuovo.

*

Sono in piedi nel nostro vecchio appartamento, a Manhattan. Non so cosa ci faccio qui, o come ci sono arrivata. Niente sembra avere senso, perché l’appartamento non è affatto come lo ricordo. È del tutto privo di mobili, come se non c’avessimo mai vissuto. Ci sono solo io.

Improvvisamente bussano alla porta, ed entra papà, in completa uniforme, e in mano una ventiquattrore. I suoi occhi sembrano svuotati, come se fosse andato e tornato dall’inferno.

“Papi!” Provo a gridare. Ma le parole non escono. Guardo in basso e mi accorgo che sono incollata al pavimento, nascosta dietro a un muro, e che non può vedermi. Per quanto mi sforzi di liberarmi, correre da lui, urlare il suo nome, non ci riesco. Sono costretta a guardare impotente, mentre entra nell’appartamento vuoto e si osservando attorno.

“Brooke?” urla. “Sei qui? C’è nessuno in casa?”

Provo nuovamente a rispondergli, ma la voce non vuole uscire. Cerca stanza per stanza.

“L’ho detto che sarei tornato” disse. “Perché non mi ha aspettato nessuno?”

Poi, scoppia in lacrime.

Mi spezza il cuore, e provo con tutte le forze a richiamarlo. Ma non importa quanto forte mi sforzi: non esce niente.

Alla fine si gira e lascia l’appartamento, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé. Lo scatto della maniglia riecheggia nel vuoto.

“PAPI!” Urlo, trovando finalmente la voce.

Ma è troppo tardi. So che se n’è andato per sempre, e in qualche modo è tutta colpa mia.

Sbatto le palpebre e sono di nuovo in montagna, nella casa di papà, seduta sulla sua sedia preferita accanto al fuoco. Papà è seduto sul divano, sporto in avanti, il capo chino, a giocare col suo coltello del Corpo dei Marine. Rimango atterrita nel notare che metà della sua faccia è completamente sciolta, fino alle ossa; riesco praticamente a vedere metà del suo teschio.

Guarda verso di me, ho paura.

“Non puoi nasconderti qui per sempre, Brooke”, dice, con tono pacato. “Pensi di essere al sicuro qui.” Ma verranno a cercarti. Prendi Bree e nasconditi”

Si mette in piedi, viene verso di me, mi afferra dalle spalle e mi scuote, mentre i suoi occhi bruciano intensamente. “MI HAI SENTITO, SOLDATO!?” grida.

Scompare, e appena lo fa, tutte le porte e le finestre esplodono in un sol colpo, in una cacofonia di vetri in frantumi.

In casa irrompono una dozzina di mercanti di schiavi, con le pistole in mano. Indossano la loro caratteristica uniforme, nera dalla testa ai piedi, con maschere nere, e corrono a tutti gli angoli della casa. Uno di loro tira Bree giù dal divano e la porta via fra le urla, mentre un altro corre verso di me, affonda le dita sul mio braccio e mi punta la pistola dritto in faccia.

Spara.

Mi sveglio gridando, confusa.

Sento le dita che affondano sul mio braccio, e disorientata tra lo stato di sogno e la realtà, sono pronta a reagire. Mi osservo in giro e vedo che è Bree che mi scuote il braccio.

Sono ancora seduta sulla sedia di papà, e la stanza adesso è inondata dalla luce del sole. Bree piange a dirotto.

Sbatto gli occhi diverse volte mentre mi siedo, provando a connettermi col mondo. Era stato tutto un sogno? Sembrava così reale.

“Ho fatto un brutto sogno!” Piange Bree, sempre attaccata al mio braccio.

Mi osservo in giro e vedo che il fuoco è finito tempo fa. Vedo l’intensa luce del sole e realizzo che che dev’essere mattina tardi. Non riesco a credere che mi sono addormentata sulla sedia – non l’avevo mai fatto prima.

Scuoto la testa, provando a ripulirla dalle ragnatele. Quel sogno sembrava così reale, è difficile credere che non sia accaduto. Avevo sognato papà prima di adesso, parecchie volte, ma mai niente di tanto realistico. Mi viene difficile concepire che adesso non è più nella stanza con me; controllo di nuovo la stanza, giusto per essere sicura.

Bree mi tira il braccio, inconsolabile. Non l’ho davvero mai vista stare così.

Mi metto in ginocchio e le do un abbraccio. Lei si avvinghia a me.

“Ho sognato che questi uomini cattivi venivano e mi portavano via! E non c’eri tu a salvarmi!” piange Bree sulla mia spalla. “Non andare!” implora sconvolta. “Ti prego, non andare. Non lasciarmi!”.

“Non vado da nessuna parte”, le dico, abbracciandola stretta. “Sshh… È tutto OK… Non c’è niente di cui preoccuparsi. È tutto a posto”.

Ma nel profondo, non posso fare a meno di sentire che non c’è niente a posto. È proprio il contrario. Il sogno che ho fatto mi sta proprio disturbando, e il fatto che anche Bree ha avuto un brutto sogno – e sulla stessa cosa – non mi conforta. Non sono credo particolarmente nei presagi, ma non posso fare a meno di chiedermi se non sia tutto un segno. Non sento però nessun tipo di rumore né altro, e se ci fosse qualcuno nel raggio di un chilometro, lo saprei sicuramente.

Sollevo il mento a Bree e le asciugo le lacrime. “Fa’ un respiro profondo”, le dico.

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