“Non puoi permettertelo,” disse Kevin. Sua madre lavorava sodo presso un’agenzia di marketing, ma avevano una casa piccola e Kevin sapeva che non c’erano molti soldi per gli extra. Cercava di non chiedere troppo, perché lo faceva solo sentire più triste quando lei non era in grado di dargli ciò che desiderava. Odiava vedere sua madre così, il che rendeva solo più difficile la cosa.
“Pensi che me ne freghi qualcosa?” chiese sua madre. Kevin ora poteva vedere le lacrime che le scendevano dagli occhi. “Sei mio figlio, e stai morendo, e… non posso… non posso salvarti.”
“Non serve che mi salvi,” disse Kevin, anche se avrebbe voluto che qualcuno lo facesse in quel preciso istante. Avrebbe voluto che qualcuno arrivasse lì subito e facesse finire tutto.
Stava iniziando a penetrare in lui il significato di tutto questo. Ciò che avrebbe significato, nel giro di un tempo più breve dell’anno scolastico stesso. Lui sarebbe morto. Sparito. Tutto quello che aveva desiderato sarebbe stato interrotto, ogni sua speranza per il futuro sarebbe stata bruciata dal fatto che non ci sarebbe stato futuro.
Kevin non era sicuro di come si sentisse al riguardo. Triste, sì, perché era un genere di notizia per cui era scontato doversi sentire tristi, e perché non voleva morire. Arrabbiato, perché sembrava che i suoi desideri non avessero importanza in questo. Confuso, perché non era sicuro del motivo per cui fosse capitato a lui, quando c’erano miliardi di altre persone al mondo.
Confronto a sua madre, però, era calmo. Lei tremava mentre guidava, e Kevin era così preoccupato che potessero andare a sbattere che sospirò di sollievo quando entrarono nella via in cui si trovava la loro casa. Era una delle abitazioni più piccole del complesso, vecchia e riparata in più punti.
“Andrà tutto bene,” disse sua madre. Non dava l’impressione di crederci. Prese Kevin sottobraccio mentre entravano in casa, ma dava più l’impressione che fosse Kevin a sostenerla.
“Sì, certo,” rispose Kevin, perché sospettava che sua madre avesse bisogno di sentirselo dire ancora più di lui. Sarebbe stato di aiuto se fosse stato vero.
Entrarono e fare qualsiasi cosa pareva sbagliato, come se eseguire cose normali fosse una sorta di tradimento dopo la notizia che il dottor Markham aveva dato loro. Kevin mise una pizza congelata nel forno, mentre di sottofondo poteva sentire sua madre che singhiozzava sul divano. Fece per andare a confortarla, ma due cose lo fermarono. La prima fu il pensiero che magari sua madre non ne avesse voglia. Era sempre stata una persona forte, quella che si prendeva cura di lui dopo che suo padre li aveva lasciati quando lui era solo un neonato.
La seconda fu la visione.
Vide un paesaggio sotto a un cielo che sembrava più viola che blu, gli alberi dalle forme strane, con fronde che gli ricordavano le palme di certe spiagge, ma i tronchi contorti come nessuna palma che lui avesse mai visto. Il cielo dava l’impressione che si trattasse del tramonto, ma il sole sembrava in qualche modo sbagliato. Kevin non riusciva a capire in che senso, perché non si era mai messo ad osservare il sole, ma era certo che non fosse il solito.
In un angolo della sua mente dei numeri pulsavano ripetutamente.
Ora stava camminando in un posto ricoperto di sabbia rossastra e poteva sentire le dita dei piedi che vi affondavano dentro. C’erano delle creature, piccole e simili a delle lucertole, che strisciarono via rapidamente quando lui arrivò troppo vicino. Si guardò attorno…
… e il mondo si dissolse nelle fiamme.
Kevin si svegliò sdraiato sul pavimento della cucina, il timer del forno che suonava per avvisarlo che la pizza era pronta, l’odore di bruciato che lo indusse ad alzarsi dal pavimento per raggiungere il forno prima che dovesse farlo sua madre. Non voleva che lo vedesse in quello stato, non voleva darle altri motivi per preoccuparsi.
Tirò fuori la pizza, la tagliò a fette e la portò in salotto. Sua madre era sul divano, e anche se aveva smesso di piangere, aveva gli occhi rossi. Kevin posò la pizza sul tavolino e si sedette accanto a lei accendendo la TV in modo che potessero almeno fingere che tutto andasse bene.
“Non dovresti sentirti obbligato a farlo,” disse sua madre, e Kevin non sapeva se intendesse la pizza o qualcos’altro. In quel momento non gli importava.
C’erano ancora dei numeri che gli ronzavano in testa: 23h 06m 29.283s, −05° 02′ 28.59.
CAPITOLO DUE
Kevin non era sicuro di essersi mai sentito tanto stanco come quando lui e sua madre entrarono nel parcheggio della scuola. Il piano era di tentare di andare avanti come se fosse tutto normale, ma a lui sembrava di potersi addormentare di colpo da un momento all’altro. Questo era ben lungi dall’essere normale.
Probabilmente era dovuto alle cure. C’erano stati un sacco di trattamenti negli ultimi giorni. Sua madre aveva trovato altri medici, e ciascuno di loro aveva un piano diverso per tentare di rallentare almeno le cose. Questo era ciò che dicevano, ogni volta, e le parole rendevano ben chiaro che anche quello sarebbe stato un risultato speciale, e che bloccare effettivamente il dispiegarsi della realtà era una cosa da non potersi sperare.
“Passa una buona giornata a scuola, tesoro,” disse sua madre. C’era qualcosa di falso nella brillantezza del messaggio, uno spigolo friabile che diceva quanto le fosse difficile tentare di fare un sorriso. Kevin sapeva che stava facendo uno sforzo per lui, e fece anche lui del suo meglio.
“Ci proverò, mamma,” le assicurò, e sentì che neanche la sua voce suonava tanto naturale. Era come se tutti e due stessero ricoprendo dei ruoli perché avevano paura della verità nascosta sotto. Kevin faceva la sua parte perché non voleva che sua madre piangesse di nuovo.
Quante volte aveva pianto ormai? Quanti giorni erano passati da quando erano stati la prima volta dal dottor Markham. Kevin aveva perso il conto. C’erano stati un paio di giorni di assenza da scuola, perché era piuttosto ovvio che nessuno dei due ne avesse alcuna voglia. Poi c’era stato questo: scuola alternata a esami e tentativi di terapie. C’erano state iniezioni ed esami del sangue, integratori perché sua mamma aveva letto online che potevano essere di aiuto, e cibo salutare che era ben diverso dalla pizza.
“Voglio solo che le cose siano il più normali possibile,” disse sua madre. Nessuno dei due disse che in un giorno qualsiasi Kevin avrebbe preso l’autobus per andare a scuola e che non avrebbero dovuto preoccuparsi di cosa fosse normale e cose no.
O che in un giorno normale lui non sarebbe stato impegnato a nascondere ciò che non andava, o che si sarebbe sentito grato che la sua migliore amica fosse in una scuola diversa dopo che lui e sua mamma si erano trasferiti, e che non dovesse quindi vedere nulla di tutto questo. Erano giorni ormai che non chiamava Luna e i messaggi si stavano accumulando sul suo cellulare. Kevin li ignorava, perché non aveva idea di come rispondere.
Kevin si sentì subito gli occhi addosso dal momento in cui entrò nella scuola. Le voci avevano già ben girato ormai, anche se nessuno sapeva per certo cosa non andasse. Vide un insegnante più avanti, il signor Williams, e in un giorno normale Kevin sarebbe stato capace di camminare oltre senza attirare la minima attenzione. Non era uno di quei ragazzi che gli insegnanti tenevano costantemente d’occhio perché ne combinavano una dopo l’altra. Ora invece l’insegnante lo fermò e lo squadrò dalla testa ai piedi come se si aspettasse dei segni di morte imminente.
“Come stai Kevin?” gli chiese. “Tutto bene?”
“Sto bene, signor Williams,” lo rassicurò Kevin. Era più facile stare bene che tentare di spiegare la verità: quanto fosse preoccupato per sua madre, quanto lo stancassero i tentativi di terapia, quanto avesse paura pensando a ciò che sarebbe successo poi.
Come ancora i numeri gli gironzolassero per la testa.
23h 06m 29.283s, −05° 02′ 28.59. Erano lì nella sua mente, acquattati come un rospo che non intende muoversi, impossibili da dimenticare, impossibili da ignorare, per quanto Kevin tentasse di seguire le istruzioni di sua madre che diceva di dimenticarsene.
“Beh, facci sapere se ti serve qualcosa,” disse l’insegnante.
Kevin ancora non era sicuro di come rispondere. Era quel genere di cose che la gente diceva e che allo stesso tempo non avevano la minima utilità. L’unica cosa che gli serviva era quella che non potevano dargli: eliminare tutto questo, far tornare nuovamente normali le cose. Gli insegnanti sapevano un sacco di cose, ma non questo.
Eppure lui fece del suo meglio per fingere di essere normale per tutta la sua lezione di matematica, e anche per buona parte di quella di storia. La signorina Kapinski stava spiegando loro un qualche evento della storia dell’antica Europa, che Kevin non era certo comparisse in alcun programma ma in cui lei si era apparentemente specializzata laureandosi, e quindi pareva essere messo in rilievo più di quanto avrebbe dovuto
“Sapevate che la maggior parte delle rovine romane trovate nell’Europa settentrionale non sono realmente romane?” disse. A Kevin generalmente piacevano le lezioni della signorina Kapinski, perché non aveva paura di andare oltre i confini e raccontare loro qualsiasi frammento della storia le passasse per la testa. Era sempre un promemoria di quanto ci fosse stato al mondo prima di loro.
“Quindi sono dei falsi?” chiese Francis de Longe. In genere sarebbe stato Kevin a porre una domande del genere, ma si stava godendo la possibilità di stare in silenzio, diventando quasi invisibile.
“Non esattamente,” rispose la signorina Kapinski. “Quando dico che non sono romane, intendo dire che sono resti lasciati da gente che non era mai stata neanche vicino all’attuale Italia. Erano popolazioni locali, ma al passo con l’avanzata dei Romani, e delle loro conquiste, la gente del posto si rendeva conto che la cosa migliore da fare era adeguarsi ai modi dei Romani. Il modo in cui si vestivano, gli edifici in cui vivevano, la lingua che parlavano: cambiarono tutto perché fosse chiaro da che parte stavano e perché questo dava loro una maggiore possibilità di buone posizioni nel nuovo ordinamento.” Sorrise. “Poi, quando c’erano delle ribellioni contro Roma, una delle cose più importanti per prenderne parte era di non usare questi simboli.”
Kevin tentò di immaginarselo: la stessa gente in un luogo che andava a cambiare la propria identità con il mutamento dell’onda politica, l’intera esistenza stravolta a seconda di chi stava al governo. Pensava che potesse essere un po’ come trovarsi in una delle schiere popolari a scuola, cercando di indossare gli abiti giusti e di dire le cose corrette. Lo stesso era difficile da immaginare, e non solo perché immagini di paesaggi impossibili continuavano a filtrargli attraverso la mente.
Quella era probabilmente l’unica cosa buona nel suo disturbo: i sintomi erano invisibili. In un certo senso era anche la cosa che faceva paura. C’era questa cosa che lo stava uccidendo, e se la gente già non lo sapeva, non l’avrebbero mai scoperto. Poteva solo starsene seduto lì, e nessuno avrebbe mai…
Kevin sentì la visione che arrivava, nascendo dentro di lui come una sorta di pressione che prendeva forma nel suo corpo. C’era l’ondata di stordimento, la sensazione che il mondo si allontanasse mentre lui si collegava a qualcosa… di diverso. Fece per alzarsi per chiedere scusa, ma era ormai troppo tardi. Sentì le gambe che cedevano e crollò.
Stava guardando gli stessi paesaggi che ricordava dalle volte precedenti, il cielo con la tonalità sbagliata, gli alberi troppo contorti. Stava guardando il fuoco che bruciava, accecante e chiaro, come se venisse da ogni punto contemporaneamente. Aveva già visto tutto questo. Adesso però c’era un elemento nuovo: una debole pulsazione che sembrava ripetersi a intervalli regolari, precisa come il ticchettio di un orologio.
Una parte di Kevin sapeva che doveva essere un orologio, come sapeva anche, per istinto, che stava segnando il conto alla rovescia di qualcosa, e non semplicemente marcando il tempo. Le pulsazioni davano la sensazione di diventare man mano leggermente sempre più intense, come in una sorta di remoto crescendo. C’era anche una parola in una lingua che lui non poteva capire, ma che capiva.
“Aspetta.”
Kevin avrebbe voluto chiedere cosa dovesse aspettare, o per quanto, o per quale motivo. Ma non lo fece, in parte perché non era sicuro di chi dovesse sentire la sua richiesta, e in parte perché nello stesso momento in cui era arrivata, la visione era già finita, lasciandolo risalire dal buio per trovarsi disteso sul pavimento della classe con la signorina Kapinski in piedi su di lui.
“Resta lì sdraiato solo un momento, Kevin,” gli disse. “Ho mandato a chiamare il medico della scuola. Hal arriverà tra un minuto.”
Kevin si mise a sedere nonostante le sue istruzioni, perché ormai aveva imparato a riconoscere quelle sensazioni.
“Sto bene,” la rassicurò.
“Penso che dovremmo lasciare che sia Hal a giudicare.”
Hal era un ex paramedico, alto e grosso, che prestava servizio presso la scuola di St. Bredan, accertandosi che ogni emergenza venisse affrontata nel modo dovuto. A volte Kevin sospettava che lo facessero perché l’idea che ci fosse un medico a prestare soccorso poteva forse far ignorare le peggiori ferite.
“Ho visto delle cose,” riuscì a dire Kevin. “C’era un pianeta, e un sole ardente, e una specie di messaggio… come un conto alla rovescia.”
In un film qualcuno avrebbe insistito per contattare qualcuno di importante. Avrebbero riconosciuto l’importanza del messaggio. Ci sarebbero state delle riunioni e delle indagini. Qualcuno avrebbe fatto qualcosa. Fuori dai film, Kevin era solo un ragazzo di tredici anni e la signorina Kapinski lo guardò con un miscuglio di pena e tenue stupore.
“Beh, sono sicura che non è niente,” disse. “Probabilmente è normale vedere ogni genere di cosa se ti capitano questa sorta di… episodi.”
Attorno a loro Kevin poteva sentire i bisbigli degli altri ragazzi in classe. Niente di tutto questo lo fece sentire minimamente meglio.
“… caduto e ha iniziato a fremere…”
“… avevo sentito che stava male, spero solo che non si prenda…”
“… Kevin pensa di vedere i pianeti…”
L’ultima osservazione fu quella che gli fece più male. Faceva apparire Kevin come se fosse pazzo. Kevin non stava diventando pazzo. O almeno non pensava.
Nonostante i migliori tentativi nell’insistere che stava bene, dovette comunque andare con Hal quando il medico arrivò. Dovette sedersi nell’infermeria della scuola mentre l’uomo gli guardava gli occhi con una luce e gli faceva domande su una patologia così rara che ovviamente neanche lui aveva più idea di Kevin di cosa stesse accadendo.
“Il preside voleva vederci non appena mi fossi accertato che stavi bene,” disse. “Te la senti di camminare fino al suo ufficio, o gli chiediamo di venire qui?”
“Posso camminare,” disse Kevin. “Sto bene.”
“Se lo dici tu,” disse Hal.
Si diressero verso l’ufficio del preside, e Kevin non fu quasi per nulla sorpreso di trovare lì sua madre. Era ovvio che l’avessero chiamata per un’emergenza medica, era ovvio che fosse lì se lui era svenuto, ma non era una buona cosa, dato che doveva essere al lavoro.