Messaggi dallo Spazio - Морган Райс 3 стр.


“Kevin, stai bene?” chiese sua madre quando le arrivò vicino, girandosi verso di lui e stringendolo in un abbraccio. “Cos’è successo?”

“Sto bene, mamma,” disse Kevin.

“Signora McKenzie, sono certo che non l’avremmo chiamata se non si trattasse di qualcosa di serio,” disse il preside. “Kevin è svenuto.”

“Ora sto bene,” insistette Kevin.

Non sembrò che facesse differenza però, per quante volte lo dicesse.

“E poi,” disse il preside, “pare che fosse piuttosto confuso quando è rinvenuto. Stava parlando di… beh, altri pianeti.”

“Pianeti,” ripeté la madre di Kevin. Aveva la voce piatta quando lo disse.

“La signorina Kapinski dice che la cosa ha disturbato un po’ la quiete della sua lezione,” disse il preside. Sospirò. “Mi sto chiedendo se magari Kevin non potesse stare meglio a casa per un po’.”

Lo disse senza guardare Kevin. Si stava prendendo una decisione lì, e anche se Kevin ne era al centro, appariva evidente che effettivamente non aveva voce in merito.

“Non voglio stare a casa da scuola,” disse, guardando verso sua madre. Di certo sarebbe stata d’accordo con lui.

“Penso che quello che dobbiamo chiederci,” disse il preside, “sia se, a questo punto, la scuola sia la cosa migliore da fare per Kevin per il tempo che gli resta.”

Probabilmente l’intenzione era di mettere la cosa in modo gentile, ma l’effetto fu di ricordare a Kevin ciò che aveva detto il medico. Sei mesi di vita. Non pareva essere tempo sufficiente per nulla, figurarsi viversi una vita. Sei mesi fatti di secondi che gocciolavano via uno alla volta a ritmo regolare, in piena sintonia con il conto alla rovescia che aveva nella sua testa.

“Sta dicendo che non ha senso che mio figlio venga a scuola perché tanto sarà presto morto?” chiese con tono secco sua madre. “Sta dicendo questo?”

“No, certo che no,” disse il preside di fretta, sollevando le mani per tranquillizzarla.

“A me pare che questo fosse il senso delle sue parole,” ribatté la madre di Kevin. “Sembra che abbiate una paura folle della malattia di mio figlio, proprio come il resto dei ragazzi qui.”

“Sto dicendo che diventerà sempre più difficile insegnare a Kevin man mano che le cose peggiorano,” disse il preside. “Ci proveremo, ma… non volete usare al meglio il tempo rimasto?”

Lo disse con un tono delicato che comunque riuscì a trafiggere in pieno il cuore di Kevin. Stava dicendo proprio quello che sua madre aveva pensato, solo che con parole più gentili. La cosa peggiore era che aveva ragione. Kevin non sarebbe vissuto abbastanza per andare all’università, o per avere un lavoro, o per fare qualsiasi cosa per cui la scuola dovesse prepararlo, quindi perché preoccuparsi di stare lì?

“Va bene, mamma,” le disse, stringendole un braccio.

Sembrò essere sufficiente a convincere sua madre, e solo questo bastò a dire a Kevin quanto tutta la situazione fosse estremamente seria. In altre occasioni, si sarebbe aspettato che lei si opponesse. Ora pareva che la combattività si fosse esaurita in lei.

Andarono in silenzio alla macchina. Kevin si girò per guardare la scuola. Lo colpì il pensiero che forse non ci sarebbe mai più tornato. Non aveva neanche avuto la possibilità di salutare.

“Mi spiace che ti abbiano chiamata al lavoro,” disse Kevin mentre si sedevano in macchina. Poteva percepire la tensione. Sua madre non accese il motore, ma rimase ferma seduta.

“Non è questo,” disse. “È solo che… non si stava rivelando facile fingere che tutto andasse bene.” Aveva una voce così triste, così profondamente ferita. Kevin si era abituato a quell’espressione, che significava che lei stava tentando di trattenersi dal piangere. Ma non ci stava riuscendo.

“Stai davvero bene, Kevin?” gli chiese, anche se ora era lui che si stava tenendo stretto a lei, più forte che poteva.

“Io… vorrei non dover mollare la scuola,” disse Kevin. Non aveva mai pensato che avrebbe detto una cosa del genere. Non aveva mai pensato che chiunque avrebbe potuto dirlo.

“Potremmo tornare dentro,” disse sua madre. “Potrei dire al preside che ti riporto qui domani, e tutti gli altri giorni a seguire, fino a che…”

Si interruppe.

“Finché tutto non sarà peggiorato troppo,” disse Kevin. Chiuse gli occhi con forza. “Penso che la situazione sia già peggiorata abbastanza, mamma.”

La sentì colpire il cruscotto e il tonfo sordo riecheggiò all’interno dell’abitacolo.

“Lo so,” disse. “Lo so e la cosa mi fa impazzire. Odio questa malattia che mi sta portando via il mio bambino.”

Pianse ancora un poco. Nonostante i suoi tentativi di restare forte, Kevin fece lo stesso. Parve passare parecchio tempo prima che sua madre riprendesse la calma e potesse parlare di nuovo.

“Hanno detto che hai visto… dei pianeti, Kevin?” gli chiese.

“L’ho visto,” le rispose. Come poteva spiegarle com’era? Quanto fosse vero?

Sua madre guardò fisso davanti a sé, e Kevin ebbe l’impressione che stesse lottando per trovare le parole giuste da dire. Lottando per essere allo stesso tempo di conforto, ferma e calma. “Ti rendi conto che non è reale, vero tesoro? È solo… è solo la malattia.”

Kevin sapeva che avrebbe dovuto capire, ma…

“Non sembra così,” rispose.

“Lo so,” disse sua madre. “E odio che sia così, perché è solo un promemoria che il mio bambino sta scivolando via. Tutto questo, vorrei solo spazzarlo via.”

Kevin non sapeva cosa rispondere. Anche lui avrebbe voluto che tutto sparisse.

“Sembra reale, lo sento reale,” aggiunse comunque.

Sua madre rimase a lungo in silenzio. Quando finalmente parlò, la sua voce aveva quella tonalità inconsistente, di qualcosa tenuto insieme a malapena che aveva assunto solo dopo la diagnosi, ma che gli era già diventata così familiare.

“Forse… forse è ora che ti porti a conoscere quella psicologa.”

CAPITOLO TRE

Lo studio della dottoressa Linda Yalestrom non aveva nessuna delle caratteristiche mediche di tutti gli altri posti che Kevin aveva visitato recentemente. Prima di tutto era casa sua, a Berkeley, con l’università tanto vicina che pareva dare credito alle sue credenziali professionali tanto quanto i certificati e diplomi ben incorniciati e appesi alle pareti.

Il resto aveva l’aspetto del genere di ufficio casalingo che Kevin aveva avuto modo di vedere in TV, con mobili leggeri ovviamente relegati lì dopo qualche spostamento precedente, una scrivania dove il disordine si era propagato come nel resto della casa, e alcune piante in vaso che sembravano pazientare nell’attesa di essere sostituite.

Kevin si sorprese a scoprire che la dottoressa Yalestrom gli piaceva. Era una donna sulla cinquantina, bassa e con i capelli scuri, con abiti chiari ben diversi dai camici ospedalieri. Kevin sospettava che fosse proprio quello il punto, se passava un sacco di tempo lavorando con gente che aveva già ricevuto le peggiori notizie da parte di medici e specialisti.

“Vieni, siediti qui, Kevin,” disse con un sorriso, indicando un grande divano rosso ben consumato dagli anni e dalla gente che vi era passata sopra. “Signora McKenzie, ci concede un po’ di tempo? Voglio che Kevin si possa sentire libero di dire tutto quello che vuole. La mia assistente le porterà del caffè.”

Sua madre annuì. “Starò qua fuori.”

Kevin andò a sedersi sul divano, che si dimostrò comodo come sembrava. Si guardò attorno nella stanza, osservando le foto di giornate di pesca e vacanze. Gli ci volle un po’ per rendersi conto di una cosa importante.

“Lei non appare in nessuna di queste foto,” disse.

La dottoressa Yalestrom sorrise. “La maggior parte dei miei clienti non lo notano neanche. La verità è che molti di questi sono luoghi dove ho sempre voluto andare, o posti che ho sentito descrivere come interessanti. Li ho messi qui perché i giovani come te passano un sacco di tempo a guardarsi in giro, facendo qualsiasi cosa piuttosto che parlare con me, e mi sono immaginata che magari ci dovesse essere qualcosa che valesse almeno la pena di guardare.”

Per Kevin era un po’ come barare.

“Se lei lavora tanto con la gente che muore,” disse. “Perché tiene foto di posti dove ha sempre voluto andare? Perché mostrarli, quando avete visto che…”

“Quando ho ben visto quanto rapidamente tutto possa finire?” chiese con gentilezza la dottoressa Yalestrom.

Kevin annuì.

“Forse per la meravigliosa abilità umana di saperlo e poterlo comunque procrastinare. O magari sono stata effettivamente in alcuni di questi posti, e il motivo per cui non sono nelle foto è che penso sia sufficiente la mia presenza qui in carne e ossa a fissare le gente.”

Kevin non era certo che fossero dei buoni motivi. In un certo senso non gli sembrava.

“Dove andresti, Kevin?” chiese la dottoressa Yalestrom. “Dove andresti se potessi andare da qualsiasi parte?”

“Non lo so,” rispose lui.

“Beh, pensaci. Non occorre che me lo dici subito.”

Kevin scosse la testa. Era strano parlare a un adulto in questo modo. Di solito, a tredici anni, le conversazioni giravano attorno a domande e istruzioni. Con la possibile eccezione di sua madre, che era comunque al lavoro per la maggior parte del tempo, gli adulti non erano realmente interessati a quello che avesse da dire uno della sua età.

“Non lo so,” ripeté. “Intendo dire, non ho mai davvero pensato di andare da qualche parte.” Cercò di pensare a posti dove gli sarebbe piacito andare, ma era difficile pensare a un luogo, soprattutto ora che aveva solo pochi mesi per farlo. “Mi sento come se, qualsiasi posto pensi, non abbia importanza. Molto presto sarò morto.”

“E cosa pensi abbia importanza?” chiese la dottoressa Yalestrom.

Kevin fece del suo meglio per pensare a un motivo. “Magari che… che molto presto non è la stessa cosa di adesso?”

La psicologa annuì. “Penso che sia un buon modo per vedere le cose. Quindi, c’è qualcosa che ti piacerebbe fare entro questo molto presto, Kevin?”

Kevin ci pensò. “Immagino… immagino che dovrei dire a Luna quello che sta succedendo.”

“E chi è Luna?”

“È una mia amica,” disse Kevin. “Non andiamo più nella stessa scuola, quindi non mi ha visto svenire o cose del genere, e sono un po’ di giorni che non la chiamo, ma…”

“Ma dovresti dirglielo,” disse la dottoressa Yalestrom. “Non fa bene alla salute spingere via i propri amici quando le cose vanno male, Kevin. Neanche per proteggerli.”

Kevin ricacciò indietro l’impulso di smentire, ma più o meno era quello che stava facendo. Non voleva dare a Luna questo peso, non voleva ferirla con la novità di ciò che sarebbe successo. Era in parte il motivo per cui da così tanto non la chiamava.

“Cos’altro?” chiese la dottoressa Yalestrom. “Proviamo ancora con i luoghi. Se potessi andare da qualche parte, dove andresti?”

Kevin cercò di scegliere tra tutti i luoghi che c’erano nella stanza, ma la verità era che c’era solo un paesaggio che continuava a saltellargli nella testa, con colori che nessuna normale macchina fotografica avrebbe mai potuto immortalare.

“Sembrerei stupido,” disse.

“Non c’è niente di sbagliato nel sembrare stupidi,” lo rassicurò la dottoressa Yalestrom. “Ti dirò un segreto. La gente pensa spesso che tutti, tranne loro stessi, siano speciali. Pensano che le altre persone debbano essere più intelligenti, o più coraggiose, o migliori, perché riescono a vedere solo quelle parti di loro stessi che non sono così. Sono preoccupati che tutti gli altri dicano la cosa giusta, e che loro sembrino invece degli stupidi. Ma non è per niente vero.”

Lo stesso Kevin se ne restò seduto per diversi secondi, esaminando nel dettaglio il rivestimento del divano. “Io… io vedo dei luoghi. Un luogo. Immagino che sia il motivo per cui sono dovuto venire qui.”

La dottoressa Yalestrom sorrise. “Sei qui perché una malattia come la tua può creare un sacco di effetti strani, Kevin. Io sono qui per aiutarti a gestirli ed evitare che dominino la tua vita. Avresti voglia di dirmi di più delle cose che vedi?”

Di nuovo Kevin prese in accurato dettaglio il divano, imparandone la topografia e fissandosi su un piccolo pilucco di garza che sbucava dal resto. La dottoressa Yalestrom rimase in silenzio mentre lo faceva, il genere di silenzio che appariva come se stesse succhiando le parole da lui, dando loro uno spazio in cui riversarsi.

“Vedo un posto dove non c’è niente di simile a qui. I colori sono sbagliati, gli animali e le piante sono diversi,” disse Kevin. “Lo vedo distrutto… almeno penso che sia così. C’è fuoco e calore, un lampo luminoso. C’è una serie di numeri. E c’è qualcosa che mi sembra un conto alla rovescia.”

“Perché ti sembra un conto alla rovescia?” chiese la dottoressa Yalestrom.

Kevin scrollò le spalle. “Non ne sono sicuro. Perché le pulsazioni sono sempre più ravvicinate, immagino.”

La psicologa annuì, poi andò alla scrivania. Tornò con carta e matite.

“Come vai in arte?” gli chiese. “No, non rispondere. Non importa che sia una grande opera d’arte o no. Voglio solo che cerchi di disegnare quello che vedi, in modo che io possa avere un senso di com’è. Non prestarci troppa attenzione, disegnalo e basta. Puoi farlo per me, Kevin?”

Kevin scrollò le spalle. “Ci provo.”

Prese la carta e le matite, cercando di riportare alla mente il paesaggio che aveva visto, cercando di ricordarne ogni dettaglio. Era difficile da fare, perché anche se i numeri restavano nella sua testa, era come se lui dovesse tuffarsi a fondo in se stesso per tirarne fuori le immagini. Quelle erano sotto alla superficie e per arrivarci Kevin doveva concentrarsi, pensare a nient’altro, lasciare che la matita scorresse sulla carta quasi automaticamente…

“Ok, Kevin,” disse, prendendo il blocco di carta prima che Kevin potesse dare un’occhiata a ciò che aveva disegnato. “Vediamo cos’hai…”

Kevin vide l’espressione scioccata che le attraversò il volto, così breve da non esserci quasi stata. Ma lui l’aveva vista, e dovette chiedersi cosa potesse scioccare una persona che aveva sentito ogni giorno storie di gente che moriva.

“Cosa c’è?” chiese Kevin. “Cos’ho disegnato?”

“Non lo sai?” chiese la dottoressa Yalestrom.

“Stavo cercando di non pensarci troppo,” disse Kevin. “Ho fatto qualcosa di male?”

La dottoressa Yalestrom scosse la testa. “No, Kevin, non hai fatto niente di male.”

Gli fece vedere il suo disegno. “Vuoi dare un’occhiata a quello che hai fatto? Magari ti può essere di aiuto per capire delle cose.”

Glielo porse piegato e tenendolo solo con le punte delle dita, come se non volesse toccarlo più del necessario. Questo fece un po’ preoccupare Kevin. Cosa poteva aver disegnato da far reagire un adulto a quel modo? Lo prese e lo aprì.

Era il disegno di una navicella spaziale, solo che “disegno” forse non era la parola giusta. Era più simile a una cianografia, completa in ogni dettaglio e che sembrava impossibile da potersi realizzare in così breve tempo. Non aveva mai visto una cosa del genere, eppure eccola lì, sulla pagina, gigante e piatta, come una città arroccata sopra a un disco. C’erano dei dischi più piccoli attorno ad essa, come api operaie attorno alla loro regina.

Il dettaglio significava che c’era qualcosa di pulito, quasi clinico nel modo in cui era stato disegnato, ma c’era ben di più. C’era qualcosa nella geometria del disegno che era solo… sbagliato in un certo senso, come se ci fossero profondità e angoli che non avrebbe dovuto essere possibile catturare in un bozzetto del genere.

“Ma questo…” Kevin non sapeva cosa dire. Questo non provava forse quello che stava accadendo? C’era ancora qualcuno che pensava che si stesse inventando tutto?

Apparentemente però la dottoressa Yalestrom non era convinta. Riprese il disegno e lo piegò con cura, come se non volesse essere costretta a guardarlo. Kevin sospettò che quella stranezza fosse troppo anche per lei.

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