Cadde in ginocchio e iniziò a piangere, ma poi qualcuno le strinse con forza un gomito. Alzò lo sguardo, con il bagliore del sole che le impediva la visuale, e si ritrovò a guardare in un magnifico paio di occhi scuri, orlati da lunghe e folte ciglia.
“Keira, non piangere,” disse l’uomo con un accento italiano dolce e musicale.
“Chi sei?” chiese lei, lasciandosi rimettere in piedi.
“Non mi riconosci?” domandò l’uomo a sua volta, sorridendo.
Il suo volto era perfetto, capì Keira guardandolo. Era tanto bello che si sentì tremare le ginocchia.
All’improvviso lui la prese tra le braccia. La strinse al petto, sollevandola con facilità, come se non pesasse niente. L’acqua del mare prese a lambirgli i polpacci, e si trovarono in mezzo all’oceano.
“Ancora non mi hai detto il tuo nome,” chiese di nuovo Keira.
L’uomo rise, un suono di puro piacere per le sue orecchie.
“Non serve che te lo dica, lo sai già,” rispose.
Keira si arrovellò e poi le venne in mente un nome, inaspettatamente e con totale chiarezza.
“Sei Romeo?” chiese incredula.
L’uomo sorrise, il suo volto illuminato dalla bellezza. “Sì, sono Romeo. Il tuo Romeo.”
Si chinò verso di lei, lentamente, le loro labbra a pochi millimetri di distanza.
Uno scossone improvviso costrinse Keira a spalancare gli occhi. Si guardò intorno, disorientata, sorpresa di ritrovarsi su un aereo. Stavano discendendo tra le nuvole e il segnale della cintura di sicurezza era acceso. Doveva essere iniziata la fase di atterraggio. Aveva dormito per tutto il viaggio.
Il sogno l’aveva lasciata senza fiato. Si toccò il petto, sentendosi il cuore che batteva forte sotto la maglietta. Le girava ancora la testa per gli effetti del liquore che non era riuscita a smaltire dormendo.
“Credo che tu abbia avuto un incubo,” commentò Garrett.
Keira si strofinò le tempie, ricordando lo strano sogno che aveva fatto. “Sì, penso anche io. All’inizio per lo meno. Ero perseguitata dal mio ex ragazzo che stava sposando mia sorella. E tutte le mie migliori amiche. E mia madre.”
L’uomo sembrò stupefatto. Keira si chiese che cosa pensasse di lei. A giudicare dalla sua espressione, probabilmente la riteneva una matta. Una fuori di testa.
L’aereo atterrò con un sussulto, e poi iniziò a rullare sulla pista. Quando si fermò, l’uomo accanto a lei saltò fuori dalla poltroncina non appena la luce della cintura di sicurezza si spense.
“Voglio evitare le code,” spiegò un po’ imbarazzato.
“Ma certo,” rispose Keira con un sorrisetto ambiguo.
Le porte della cabina si aprirono e Garrett le raggiunse con uno scatto. Keira rise tra sé e sé. Si era goduta la pantomima. Forse Bryn non si era sbagliata!
Raccolse le sue cose e si aprì la cintura, poi recuperò la borsetta dallo scompartimento in alto. Attraversando la corsia, si preparò a mettere in atto lo stesso gioco che aveva fatto con Garrett. Per le seguenti tre settimane avrebbe dovuto fingere di essere qualcuno che non era, qualcuno che credeva ancora nell’amore. Per qualche motivo, aveva il sospetto che sarebbe stato molto più difficile di quanto lo fosse stato fingersi un’esperta di vini.
Scese dall’aereo e lasciò che la calda luce del sole le accarezzasse la pelle. Era molto più piacevole del tempo freddo che si era lasciata alle spalle, a New York. Nel sole c’era qualcosa che la metteva di buonumore. Rendeva tutto più bello, e anche se in quel momento non riusciva a vedere molto dell’Italia al di là dell’aeroporto, le colline che lo circondavano sembravano magnifiche nella luce brillante.
Seguì il percorso fino all’atrio, consapevole che presto avrebbe incontrato la sua guida turistica. Per la prima volta da quando aveva lasciato New York, si permise di pensare che il suo Romeo la stesse aspettando…
CAPITOLO SEI
Dopo aver recuperato la valigia e aver trovato la sala d’aspetto, Keira aveva iniziato a sognare ad occhi aperti. Aveva sovrapposto il Romeo dei suoi sogni con la guida turistica che stava per incontrare, trasformandolo in un personaggio concreto e reale che l’avrebbe conquistata con la sua personalità focosa e appassionata. Non vedeva l’ora di incontrarlo!
Si fermò e appoggiò la valigia per terra, guardandosi attorno nell’affollato aeroporto di Napoli. Tutto intorno c’erano persone con dei cartelli e quando Keira vide il proprio, il cuore le fece un balzo nel petto. L’uomo che lo teneva era un gran fusto.
Si sentì attraversare da una scarica di elettricità mentre correva verso di lui.
“Ciao, sono Keira,” disse, indicando il cartello con il suo nome.
L’uomo la guardò, confuso, e poi fissò il cartello. “Oh? Questo?” Scoppiò a ridere. “Lo sto solo tenendo per un tizio che è andato in bagno.”
Proprio allora, Keira notò qualcuno che usciva dalla toilette e si dirigeva verso di loro. Era basso, rotondetto, sciatto, vestito male, con una maglietta grigia tutta macchiata e jeans della taglia sbagliata, e i pochi capelli che gli rimanevano in testa sembravano un nido di uccelli. Desiderò con tutte le sue forze che la oltrepassasse, ma capì, con sua grande delusione, che era proprio diretto lì.
Il bell’uomo con il cartello lo vide. Non appena li ebbe raggiunti, gli restituì il cartello e si affrettò verso una ragazza bellissima che era appena arrivata nella sala d’aspetto. I due partirono subito con le effusioni in luogo pubblico.
“Giovani innamorati, eh?” commentò la guida, grattandosi la striscia di pelle che la maglietta non riusciva a coprire del tutto. “Sei Karla?”
“Keira?”
L’uomo rilesse il cartello e scrollò le spalle. “I nomi americani mi sembrano tutti uguali.”
Mentre parlava, dalla sua bocca emerse una zaffata di cipolla e caffè, che nauseò la giornalista.
“Andiamo,” le ordinò. “L’auto è da questa parte.”
Si voltò e si avviò in gran fretta, sparendo tra la folla di gente e lasciando Keira ad annaspare nel bel mezzo dell’aeroporto. Afferrò la valigia e cercò freneticamente l’indicazione per l’uscita.
La trovò, insieme alla nuca della sua guida che attraversava rapidamente la porta. Non si era nemmeno girato per controllare che fosse ancora insieme a lui!
Con una smorfia, Keira seguì quell’uomo sciatto, tirandosi dietro la pesante valigia.
Mentre la folla la spintonava, la sua eccitazione alla prospettiva che una storia d’amore in Italia le curasse il cuore ferito svanì completamente. Invece di essere conquistata da un uomo affascinante, avrebbe dovuto sopportare l’alito alla cipolla e la scortesia della sua guida turistica.
Altro che Romeo, pensò con un peso sul cuore.
CAPITOLO SETTE
“Lo sai che sei in ritardo?” disse Antonio, la guida turistica, mentre le faceva strada attraverso il parcheggio. Le rughe sulla sua fronte erano tanto profonde che sembrava le stesse tenendo il muso.
“Ci hanno messo un po’ a restituirmi la valigia,” rispose Keira, ancora turbata dall’annichilamento delle sue speranze di incontrare un Romeo.
Antonio la metteva estremamente a disagio con la sua presenza, e non solo per via del ventre rotondo e peloso che sporgeva dalla vita dei pantaloni. Aveva un atteggiamento severo, come quello di un maestro di scuola che sapeva già di non poter accontentare.
L’aria era calda, quasi in maniera oppressiva, ma non sembrava rallentarlo. Camminavano in fretta, Antonio sempre un paio di passi davanti a lei, che faticava a trascinare la valigia. Era già tutta sudata.
“Ho la schiena malandata,” disse lui, come per spiegare perché non la stesse aiutando.
Durante il percorso, Antonio chiacchierò, un’unica ondata impetuosa e rapida di parole, con una voce come il ringhio di un cane feroce. Keira ripensò al Romeo del sogno. Antonio non avrebbe potuto essere più diverso di così!
“Ventun giorni, eh?” stava dicendo, avanzando a grandi passi, costringendo Keira a correre per tenergli dietro.
Un periodo che già la riempiva di panico.
Nel frattempo l’aveva condotta fino a un’auto. Keira si era aspettata una bella vettura, ma invece si trovò davanti a un veicolo vecchio, minuscolo e tutto arrugginito.
“È questa?” domandò.
“Non c’è spazio per la valigia nei sedili di dietro. Mettile nel bagagliaio,” ordinò Antonio.
Keira lo aprì e così facendo scoprì che l’auto era piena di borse della spesa. Quando infilò la valigia vicino alla spesa di Antonio, fu assalita da un effluvio di formaggio puzzolente. Una delle buste si era aperta e ne rotolò fuori una forma di pecorino. Keira la rimise al suo posto, rendendosi conto con un mix di sorpresa, curiosità e disgusto che tutte le borse erano piene dello stesso formaggio. Antonio mangiava solo quello? si domandò. Poi capì anche che quell’odore avrebbe invaso la sua valigia e avrebbe permeato tutti i suoi vestiti. Avrebbe puzzato di formaggio per le successive tre settimane!
Arricciò il naso e chiuse il bagagliaio. Nel frattempo Antonio avviò il motore dell’auto, sputacchiandole una nube di fumo di scarico sulle gambe.
Irritata, Keira si sedette davanti insieme a lui, scoprendo che erano tanto vicini che le loro ginocchia si toccavano. Fissò le mani sudaticce e pelose di Antonio strette sul volante. L’odore all’interno dell’auto era una combinazione di formaggio, sudore e aria umida.
Prima ancora che avesse il tempo di mettersi la cintura, Antonio partì a tutta velocità. L’auto sobbalzò in avanti e mentre l’uomo si immetteva in strada lei strinse i lati del sedile tra le mani, con tanta forza da sbiancarsi le nocche. Antonio guidava come un pazzo.
“Quindi racconta, New York,” disse lui. “Un postaccio, eh? Molti crimini?”
Keira lo fissò, sbalordita. “No. Voglio dire, non esattamente. Ha i suoi problemi, come ogni città, ma è bellissima.”
“Ma fa freddo, no?” insistette Antonio. A Keira sembrò che stesse cercando di trovare il peggio nella sua città natale. “Tipo adesso è freddo. Mentre noi ci godiamo ancora un bel sole.” Emise una risata ansimante, mettendo in mostra denti gialli e storti.
“Ci sei mai stato?” chiese lei, un po’ offesa dal commento.
“No no no,” rispose Antonio, scuotendo la testa come se la sola idea fosse ridicola. “Non andrò mai in una città senza dio come quella. Qui siamo buoni cattolici.”
Se Antonio aveva avuto l’intenzione di irritare Keira, c’era sicuramente riuscito.
Ma se la guida turistica era stata uno shock per lei, neanche Napoli era quello che Keira si era aspettata. La strade erano molto strette, circondate da alti palazzi a cinque piani su entrambi i lati, con balconi in metallo arrugginito e fili appesi tra di loro coperti di vestiti colorati stesi ad asciugare che ondeggiavano al vento. Praticamente non c’erano marciapiedi, che significava che la gente camminava in strada, spesso senza guardare, apparendo da dietro auto parcheggiate. Keira notò che persino i segnali stradali e i lampioni erano attaccati alle mura delle case, dato che non c’era lo spazio per i pali.
Tuttavia nessuno di quegli ostacoli convinceva Antonio a guidare più lentamente. Si limitava a imprecare in italiano ad alta voce ogni volta che qualcuno gli si parava davanti, evitandoli e a volte strombazzandogli con il clacson.