Quattro Destini - Favaro Alberto 2 стр.


Seguì una discussione, con il sindaco che cominciò chiaramente ad agitarsi quando il vecchio spiegò quello che gli aveva detto Giuseppe. L'uomo si girò verso l'italiano, “Come le ho detto. Non avevamo bisogno di essere liberati e non abbiamo stanze a meno che non siate pronti a pagare.”

Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.

“Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”

Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.

Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”

Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.

Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.

Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.

Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”

“Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”

“No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”

Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.

“Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”

Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”

L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”

“E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”

Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.

“Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.

Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.

“Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”

“Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”

Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.

Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche prima di staccarsi e di ritornare al porto italiano di Brindisi.

Per Giuseppe, le ultime settimane della guerra non furono per nulla eccitanti e si ritrovò a domandarsi se sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Lero con il suo amico Gramatika.

****

Dopo il termine della guerra italo-turca, Giuseppe si iscrisse all'Università per studiare ingegneria e passò la maggior parte degli anni della prima guerra mondiale a studiare a Pisa, vicino alla base navale di La Spezia. Non era più in Marina ma mantenne i contatti con alcuni dei suoi colleghi della San Marco.

L'università di Pisa era nota per i suoi corsi di lingua. A causa della sua esperienza nel mar Egeo, Giuseppe aveva cominciato a interessarsi alla cultura greca e decise di frequentare anche un corso di greco, oltre ai suoi corsi principali Questo significava studiare il greco antico ma il suo tutor parlava greco e insistette affinché i suoi studenti imparassero a conversare nella versione moderna della lingua.

Il suo alloggio nella parte più povera di Pisa, dava su una strada trafficata, e, mentre studiava, osservava le persone che andavano e venivano dalla fermata dell'autobus. Una ragazza in particolare lo colpì- I suoi capelli biondi e la sua figura slanciata la faceva spiccare rispetto alle comuni ragazze italiane dai capelli scuri. Ogni giorno la vedeva andare alla fermata, aspettare l'autobus e, di sera, cominciò ad aspettare che tornasse. Era alta e magra e camminava con una certa grazia.

Una sera, quando la ragazza scese dall'autobus, Giuseppe vide un gruppo di giovani andare verso di lei. La finestra era aperta e sentì loro dirle “ciao, cara, come sta?” Lei li ignorò e continuò a camminare, ma loro le si misero davanti. Quando cercò di superarli, le bloccarono la strada e uno di loro le prese il braccio, “su ragazza, cosa c'è che non va?”

Lei non rispose, cercando di liberarsi dalla stretta, ma il giovane non la lasciò andare. “Lasciatemi in pace.”

“No, non faccia così. Vogliamo solo parlare, tutto qui” disse il suo tormentatore. Un altro giovane sogghignò.

“Lasciatemi andare” disse lei cercando di sfuggire alla presa.

“Ma se ci siamo appena conosciuti” disse lui spingendola contro un edificio. Gli altri la circondarono mentre lui cercava di baciarla. Lei ora stava lottando, cercando con tutte le sue forze di liberarsi del muro di giovani.

Giuseppe non poteva permettere che questo succedesse. Uscì di corsa dal suo appartamento, scese le scale e arrivò in strada. “Ehi, lasciatela stare!” urlò.

“Non rompere il cazzo” disse uno di loro. “Questa è la nostra ragazza, non è vero, cara?”

La ragazza stava ancora lottando per liberarsi quando Giuseppe camminò verso di loro “lasciatela andare” disse.

“Altrimenti, sgorbietto? Non rompere il cazzo.”

Erano tutti girati dalla sua parte e la ragazza riuscì a liberarsi e a fuggire. Corse via, senza guardarsi indietro.

“Guarda cosa hai fatto, piccola merda” disse uno di quelli che la stavano tenendo. “Non potevi pensare agli affari tuoi, eh? Perché vuoi difendere una puttana tedesca?” Spinse Giuseppe e lo colpì con forza sul petto. “Stavo solo scaldandola” disse. Giuseppe cercò di indietreggiare quando gli altri cominciarono a spingerlo. Uno dopo l'altro cominciarono a colpirlo, sempre più forte, obbligandolo contro il muro.

“Smettetela” disse disperatamente.

“O altrimenti? Cosa farai?”

Colpì con forza Giuseppe sul mento e la sua testa andò a sbattere contro la parete alle sue spalle, lasciandolo sotto shock. Cercò di parare i colpi che seguirono, tendo alti i gomiti sui lati e i pugni davanti al suo volto per difendersi. Poteva vedere le persone venire verso di loro e, vedendo quello che stava succedendo, andare dall'altra parte della strada per evitare di essere coinvolti. Fu colpito con forza allo stomaco e si piegò, cadendo sulle ginocchia. Continuarono senza sosta a picchiarlo e calciarlo mentre era a terra. Finalmente uno di loro disse “andiamo, lasciamo perdere il piccolo bastardo” e, con un ultimo calcio, se ne andarono, ridendo, a cercare un'altra vittima.

Giuseppe rimase lì. Il sangue gli scendeva dal naso ed era piegato per il dolore. Quando cercò di muoversi, tutto il suo corpo protestò. Riuscì a mettersi sulle ginocchia. Le persone girarono al largo, pensando fosse ubriaco o peggio.

Tuttavia, una persona non andò dall'altra parte. “Sta bene?” disse una voce femminile. Si accucciò vicino a lui. “Riesce ad alzarsi? Ecco, lasci che la aiuti. Vive qui vicino?”

Lui indicò la porta aperta del suo condominio. “OK, andiamoci. Su, la aiuterò.”

Riuscì a farcela mentre lei lo aiutava a superare incespicando i gradini verso il suo appartamento, dove lei lo condusse attraverso la porta ancora aperta e lo aiutò a sedersi sul divano. Lui si distese e si lasciò andare. Il tocco di un panno freddo sulla sua fronte lo svegliò e si lamentò quando ritornò tutto il dolore. “Ssh” disse una voce. “Cerchi di stare fermo.”

Non era in grado di aprire completamente gli occhi, la pelle attorno era gonfia dove i mascalzoni lo avevano colpito. Anche quando si sforzò di aprirli, trovò difficile vedere e le lacrime cominciarono a scorrere lungo le sue guance. Alla fine, vide un volto davanti a lui e dei capelli chiari sopra di esso. La sua bocca era ammaccata e le sue labbra tagliate perciò riuscì a malapena a biascicare “Cosa? Come?”

“Mi dispiace, spero non la disturbi, l'ho aiutata a salire – ha lasciato la porta aperta. Ricorda?”

Stava ritornando in sé e si rese conto che il volto apparteneva alla ragazza bionda. “É tornata?” riuscì a dire.

“Mi sono nascosta dietro l'angolo fino a quando quei farabutti non se ne sono andati. Lo sa, è stato molto stupido affrontare quei tizi ma grazie comunque. Non so veramente come sarei stata in grado di fuggire da loro senza il suo aiuto. Spero non le dispiaccia che io sia entrata in questo modo.”

Riconobbe il suo accento come straniero – poi si ricordò che il giovinastro aveva parlato di una “puttana tedesca”. “É tedesca?”

Lei sembrò quasi vergognarsi. “Sì, è un problema?”

“No, certo che no.”

“Ma noi siamo ancora il nemico, no – gli Unni?” disse alzandosi e preparandosi ad andarsene.

“No, per favore – no. Lei non è mia nemica. La guerra è comunque finita, per favore non se ne vada.”

Lei si girò, raccogliendo il telo macchiato di sangue con cui gli aveva pulito il volto. Andò verso il piccolo lavello in cucina e lo risciacquò con l'acqua fredda. Lui cercò di alzarsi e si lamentò per l''improvviso ritorno del dolore allo stomaco e alla testa. Provò a toccarsi con attenzione il volto e le sue dita tornarono appiccicose per il sangue. “Stia fermo, ha un brutto taglio sopra l'occhio,” disse lei.

Sussultò quando lei gli risciacquò con attenzione il volto e levò il sangue. “Credo che dovrà riposare per uno o due giorni. Dovrebbe andare da un medico e fare un controllo.”

“Non posso, non posso permettermelo.”

“Beh, allora credo che dovrò prendermi cura io di lei” disse. “Dopo tutto mi ha salvato la vita.”

Lui rise, pieno di dolore. “Non credo sia necessario. Starò bene.”

“Fra qualche giorno forse, ma nel frattempo, temo che dovrà avermi come infermiera.”

“Grazie.” Riaffondò sul divano. “Bene, io sono Giuseppe Malpaiso, sono uno studente – povero, chiaramente. É tutto – non molto interessante. Lei chi è? Mi parli di lei.”

“Sono tedesca – come ha già scoperto. Anche io sono qui per studiare. Sono una infermiera tirocinante.”

“Che fortuna – essere picchiato per essere salvato da una infermiera. Parla un italiano molto buono – come mai?”

“Vivo in Baviera. Abbiamo molti contatti con gli italiani – siamo piuttosto vicini al confine austriaco e spesso scio sulle Alpi in Italia. Mio padre era un insegnante di lettere classiche e ci ha portati a Roma e in altri luoghi quando eravamo piccoli. Amava anche l'opera e il suo compositore preferito era Verdi.”

“Non Wagner?”

“No, lo riteneva prolisso e ampolloso, ma Verdi, Rossini, Donizetti – sono così pieni di vita e divertimento. In ogni caso, per questo motivo sono riuscita ad apprendere un po' di italiano e lui mi ha incoraggiata a venire qui a studiare. Era solito dire che lui era più un Romano che un Unno! Aspetti un attimo, cantò: ‘Studente son – e povero’. Gualtier Maldé – giusto?”

Giuseppe rise – e questo gli fece di nuovo dolere il volto. “Non si preoccupi, non sono un Conte, se è questo che sta pensando – suo padre, invece, è un gobbo?”

“No, lui non è Rigoletto e io non sono Gilda. Conosce le opere?”

Maria – quello era il suo nome – lo aiutò a levarsi la giacca e la camicia – entrambe lacere e insanguinate – e poi cercò di aiutarlo a togliersi la canottiera ma lui si ritrasse. “Oh, per favore, sono un'infermiera, ho già visto di tutto. Devo vedere quando gravemente è ferito.”

Con riluttanza e sentendosi sorprendentemente timido, lasciò che lei gli sollevasse la canottiera sopra la testa. Lei emise un rumore di disgusto quando vide le ammaccature che gli avevano procurato i suoi aggressori. Con gentilezza gli controllò le costole e lui trasalì quando lo toccò. “Mi dispiace. Credo che lei possa avere una costola incrinata. Non c'è molto che io possa fare al riguardo – deve solo essere paziente fino a quando guarirà.”

Lo convinse a togliersi i pantaloni e guardò i tagli e le ammaccature sulle gambe provocategli dai calci che aveva ricevuto. Gli toccò un livido e lui si ritrasse. “Mi dispiace. Le fa male?”

“No, è solo che non sono mai stato toccato lì prima – è strano.”

Dopo che lo ebbe esaminato completamente disse “Non credo che ci sia nulla di rotto, a parte le costole. Ora la metto a letto e andrò a prendere del linimento per quei tagli.”

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