Lo accompagnò con attenzione verso il letto, prese il suo pigiama da sotto il cuscino e, dopo avergli levato il resto dei suoi vestiti, lo aiutò a indossarlo e poi lo fece distendere. “Ha una chiave per poter entrare da sola?”
“Si sta già trasferendo qui?”
Lei arrossì. “No, certo che no, non intendevo… solo che non voglio che lei si alzi per farmi entrare, tutto qui.” Arrossì di nuovo e si affrettò a rimettersi il cappotto e a prendere la borsa che aveva lasciato sul tavolo. Prese la chiave dalla tasca rovinata dei pantaloni di Giuseppe e se ne andò.
Lui si riaddormentò di nuovo ma si svegliò quando sentì aprirsi la porta. Era piuttosto buio ma lei entrò nell'appartamento in punta di piedi senza accendere la luce. Aveva portato una borsa della spesa che mise sul tavolo e cominciò a rovistarci dentro. Lui fece rumore. “Mi dispiace di averla svegliata, ho portato alcune cose per lei.”
“Va tutto bene, non ero veramente addormentato.” Cercò di alzarsi e la staffilata di dolore proveniente dalla sua costola incrinata gli ricordò prontamente le sue ferite. Si lamentò e lasciò che lei mettesse il suo braccio attorno alle sue spalle e lo rimettesse in una posizione comoda.
Lei divenne molto professionale, aprendogli il pigiama, pulendo e applicando un linimento giallo sulle sue ferite e le sue ammaccature. Poi si assicurò che stesse bene dandogli un'aspirina per calmare il dolore. “Ho della pasta, ce la fa ad alzarsi?”
Sembrò essersi presa automaticamente la responsabilità di lui. Cucinò la pasta e gliela servì a letto, poi, dopo essersi assicurata che Giuseppe stesse bene si alzò per andarsene.
“Se ne sta già andando?” chiese.
“Sì, certo” disse lei.
“Non può restare? Potrei aver bisogno di lei di notte. Posso dormire sul divano se vuole.”
“Non so. Non è proprio corretto. Ci conosciamo a malapena.”
“Io so che lei sale in autobus ogni mattina e scende ogni sera. L'ho osservata per settimane.”
Lei sembrò leggermente scioccata. “Cosa? Mi ha osservata? Perché?”
“Oh, non lo so. Lei è diversa, ecco tutto. Si nota.”
“Straniera, intende” si stava trattenendo e cominciò ad alzarsi per andarsene.
“No, per favore, non se ne vada. Sinceramente l'ho notata perché pensavo fosse bella. Differente. E lei lo è, no? Non intendo straniera – intendo solo, lo sa, attraente.” Ora era lui che stava arrossendo.
Lei però lo stava guardando con affetto. “Lei è un po' strano, vero? Quello che ha detto è stato molto dolce. Ne sono commossa. E fare quello che ha fatto per me è stato veramente eroico.” Si abbassò e gli diede un bacio gentile sulle labbra. Lui cercò di evitare di saltare quando il suo labbro ferito gli fece male al contatto. “Mi dispiace, mi dispiace. Non avrei dovuto farlo. Non stavo pensando. Ora vado ma passerò domani mattina a controllare che lei stia bene.”
Nel corso dei giorni successivi lei venne ogni giorno nel suo piccolo appartamento prima di andare a lezione e ritornò ogni sera per preparare la cena. Si occupò delle sue ferite mentre guarivano e, mentre preparava la cena, tenne l'appartamento pulito.
Quando la sua salute migliorò, Giuseppe fu in grado di fare più cose da solo. Durante il giorno zoppicava, andava nei negozi lì vicino a comprare il cibo e ritornava a casa a prepararlo in modo che quando lei arrivava di sera poteva sedersi e mangiare il pasto che aveva preparato per lei.
“Sembra che tu non abbia più bisogno di me,” gli disse una sera.
“Cosa? Certo che ho bisogno di te” disse lui. “Come posso farcela senza di te?”
“Ce la facevi prima, no? Stai molto meglio e credo sia tempo che tu torni ai tuoi corsi.”
“Sì, sto meglio ed è così. credo. Ma possiamo incontrarci più tardi?”
“Perché no? So dove abiti e tu sai dove prendo l'autobus.”
Quella sera andarono in un bar insieme e poi tornarono nel suo appartamento per mangiare insieme la cena che lei insistette di cucinare. “Domani tocca a me” disse lui.
Nel corso delle settimane che seguirono si incontrarono quasi ogni giorno. Lui andava alla fermata dell'autobus per salutarla quando arrivava o, se le sue lezioni finivano tardi, lei lo aspettava in un bar vicino al suo appartamento. Lui le presentò alcuni dei suoi amici del suo corso ma continuarono a mantenere le loro vite separate.
Quando il suo corso stava per arrivare al termine, con l'avvicinarsi degli esami finali, gli ultimi ripassi e la preparazione impedì loro di incontrarsi così spesso. Tuttavia, colsero tutte le opportunità possibili per incontrarsi. Condividevano una passione per l’opera e comprarono i biglietti in piedi più economici a teatro per vedere una delle vecchie opere da loro preferite di Verdi, Bellini o Rossini, o una delle opere più moderne del maestro Puccini.
Il giorno del suo esame finale la portò fuori, mangiarono insieme per festeggiare bevendo champagne.
“C'è qualcosa che volevo chiederti” disse. Lei lo guardò in attesa. “Siamo buoni amici?”
“Certo che lo siamo! Che cosa te lo fa chiedere?”
“Beh, è che, sai, vorrei molto essere più di un semplice amico” arrossì violentemente. “Vedi, sono molto legato a te – sai? E spero che tu possa essere, sai, anche tu molto legata a me?”
“Sì, Giuseppe, ti sono molto affezionata. Mi hai salvato la vita, ricordi?”
“No, non in quel senso” fece una pausa, “voglio dire, credo che…”
“Cosa?” Lei lo guardò intensamente. “Cosa stai dicendo?”
Uscì tutto di getto: “Ora ho finito il mio corso di studi e può essere che debba andare lontano per trovare un lavoro – o chissà per quali altri motivi. Non riesco a sopportare il pensiero di non vederti più.” La guardò tristemente, in attesa di una risposta, ma lei restituì lo sguardo pensierosa.
“Cioè?” chiese. “Cosa vuoi che ti dica?”
“Solo, beh, ecco, credi che se io dovessi andare da qualche altra parte, saresti in grado, magari, sai – di venire con me?”
Lei sorrise gentilmente. “Perché lo vorresti? Non hai più bisogno di un'infermiera, giusto?”
“No, certo che no. Lo stai rendendo molto difficile. Quello che sto dicendo è” fece una pausa, “quello che sto chiedendo è; credi, sai, credi che potresti. Oh, maledizione, sto facendo un sacco di confusione. Quello che intendo è, io credo – no, io so – di amarti e voglio che tu stia con me, in futuro. Se capisci cosa voglio dire.”
“Beh, credo di sì. Non so come possa essere accaduto, ma neppure io riesco realmente a immaginare di stare senza di te. Perciò sì, voglio stare con te. Ma la mia famiglia…”
“La tua famiglia, cosa vuoi dire?”
“Sono piuttosto severi. I miei genitori sono morti. Sono stata allevata da mio zio. É molto rigido. Suo figlio, mio cugino Kurt, è appena tornato dalla guerra. Lo zio dice che devo tornare per prendermene cura.”
“Oh, è ferito, vero?”
“No, non credo. É molto depresso. Crede che lui e i suoi compagni siano stati traditi – che avrebbero potuto vincere.”
“Vuoi andare?”
“No, certo che no. Dovrebbe accettare quello che è successo e dimenticare la guerra. Abbiamo perso ed è tutto. Francamente è stato fortunato a tornare indietro vivo e senza ferite. Dovrebbe accettarlo e proseguire con la sua vita – è uno dei fortunati. Ma mio zio…”
“Bene, dipende da te. Tutto quello che posso dire è che sarò infelice se tu te ne andrai – e credo che anche tu lo sarai. Ti sto chiedendo” fece una pausa, “sì. in realtà ti sto chiedendo,” fece un'altra pausa “se tu saresti d'accordo nello sposarmi?”
Per Maria fu abbastanza. Si sporse sopra il tavolo e lo baciò. “Certo che lo sarei. Dovrò solo dire allo zio che dopo tutto non potrò venire.”
Poche settimane dopo, nel settembre del 1919, si sposarono con una cerimonia civile a cui parteciparono pochi vecchi amici della marina di Giuseppe oltre a sua madre e suo padre. Il suo testimone fu il tenente Gramatika. Non venne nessuno della famiglia di Maria, suo zio disse che erano troppo occupati. Le scrisse una lettera piuttosto dura augurandole il meglio ma criticandola per aver deluso la famiglia. Kurt, invece, fu più gentile. Nella sua lettera si congratulò con lei e le augurò il meglio. “Non preoccuparti di mio padre. Io starò bene. Devo solo abituarmi. Spero che riusciremo a restare in contatto e ti auguro ogni bene.”
Gramatika era stato di recente nominato governatore di Lero dopo l'acquisizione italiana. Alla festa dopo il matrimonio, parlò del suo nuovo lavoro, dicendo a Giuseppe degli interessanti sviluppi previsti per l'isola. “Lì stiamo costruendo una nuova base aeronautica e navale – non riusciresti a credere quanto sono cambiate le cose da quando siamo arrivati nel 1912. Vieni a trovarci – c'è un mucchio di lavoro da fare.”
“Ma non abbiamo raggiunto l'accordo di riconsegnare le isole ai Turchi – o ai Greci o a qualcuno?”
“Sono ai ferri corti. Sembra che i Greci vogliano cercare di ‘riprendere’ la Turchia ai turchi. I Turchi ci dicono che hanno vinto la loro parte di guerra – cacciando gli Alleati fuori dai Dardanelli. Sono addolorati perché la Germania ha perso,” qui fece una pausa e guardò Maria come per scusarsi, “e hanno un nuovo tizio, Mustafa Kemal – stanno cominciando a chiamarlo ‘Ataturk’ – che sta veramente cominciando a sembrare pericoloso. Se i Greci invaderanno rischieranno una sconfitta o anche di peggio. Insomma, questo significa che per ora resteremo nelle isole – forse anche per sempre. Dobbiamo ricavare qualcosa dal nostro investimento.”
Guardò Giuseppe. “Perché non vieni a lavorare per me? Ci servono bravi ingegneri. Ricordo come facevi andare quelle turbine sulla San Marco – potevano anche essere moderne, ma di sicuro si rompevano spesso!”
Maria intervenne, “e ora parla greco, lo sapeva?”
“No. Veramente? Sarebbe realmente utile. Stiamo usando i locali per i lavori di costruzione. Sono diligenti ma non abbiamo molti interpreti greci.”
“Beh, è un'esagerazione dire che parlo greco – sono molto arrugginito e la maggior parte delle cose che ho imparato erano di greco classico e non moderno. Alcune parole sono le stesse, ma la pronuncia e la grammatica sono cambiate e mi servirebbero molto esercizi e altre lezioni…”
A Gramatika era piaciuta subito Maria. Aveva sentito come si erano incontrati ed era rimasto impressionato da come si fosse presa cura del suo amico. Aveva già parlato con lei del fatto che fosse originaria della Germania sconfitta – i tedeschi non erano popolari nelle nazioni Alleate. “Una cosa posso garantire è che nel mio piccolo regno non c'è spazio o tempo per nessuno di questi pregiudizi. Stiamo costruendo una nazione nuova e non ho pazienza per guardarmi indietro. Sarete i benvenuti a Lero, ve lo assicuro.”
Giuseppe e Maria arrivarono a Lero nel 1920. Furono salutati con affetto dal vecchio amico di Giuseppe quando scesero dall'idrovolante atterrato a Porto Lago. Furono poi portati verso un nuovo complesso sviluppato dalla parte opposta alla nuova città costruita sulla baia. Tre enormi gru dipinte di bianco e rosso erano state erette per sollevare gli idrovolanti e portarli sulla riva e il molo era stato allargato per farli accomodare negli enormi hangar nuovi costruiti poco più in là.
Maria era già incinta e il loro figlio, Marco, nacque più tardi quell'anno nel piccolo ospedale che gli italiani avevano costruito sull'isola.
Capitolo 2
Jutland, Inghilterra e Francia 1916-1920
"Che modo veramente stupido di gestire una linea ferroviaria", disse Arnold.
La maggior parte delle corazzate e degli incrociatori da battaglia della flotta britannica erano state all'ancora a Scapa Flow per gran parte della guerra. Le navi della flotta si erano raramente avventurate in mare tranne quando la flotta tedesca aveva attaccato Scarborough, Hartlepool e Whitby nel 1914. Quella volta avevano acceso i motori e si erano dirette a sud troppo tardi per intercettare gli attaccanti tedeschi.
La sua nave, l'incrociatore da battaglia HMS Indefatigable, a quel tempo era ritornata dal Mediterraneo, dopo le operazioni nei Dardanelli e una riparazione a Malta. Ora stavano viaggiando velocemente per affrontare la minaccia della flotta tedesca che proveniva da sud. Avevano visto alcune delle navi nemiche, ma il loro comandante, l'ammiraglio Beatty, all'inizio non le aveva attaccate e neppure aveva fatto ridisporre la sua flotta in uno schieramento più aggressivo quando i tedeschi avevano aperto il fuoco
"In realtà non siamo su una linea ferroviaria", replicò piuttosto pedantemente Ernest, il suo luogotenente, "come sto continuando a dirti!"
"Già, ma perché non attacchiamo quei bastardi invece di girare intorno come anatre al tiro a segno? Mostriamo loro che non devono sfidare la marina britannica e schiacciamoli una volta per tutte!"
Questa era la lamentela costante di Arnold e anche se in gran parte erano d'accordo con lui, i suoi compagni non potevano spingersi ad ammetterlo. Giù nella loro zona degli ufficiali non si erano neppure resi conto che la battaglia era già iniziata.
Ernest si era unito alla nave solo recentemente, su distaccamento da un lavoro di ufficio nell'Ammiragliato, e non compariva ancora nell'organigramma dell'equipaggio. Era un esperto di tedesco, parlava fluentemente la lingua ed aveva avuto dei contatti con i marinai della loro flotta durante la visita dell'imperatore Guglielmo a Cowes nel 1913. Quando era scoppiata la guerra, era stato assegnato a un lavoro di intelligence, aiutare a decifrare i messaggi navali tedeschi, e gli era stato chiesto di unirsi a una delle navi da guerra della flotta per vedere come le informazioni di decodifica fossero usate nella pratica.
Suonò l'allarme. "Un'altra maledetta esercitazione" disse, mentre aspettavano che un segnalatore venisse a dare loro gli ordini. Si mise la giacca e si alzò quando un giovane marinaio entrò di corsa. "Ordini del capitano: sul ponte e alla svelta – questa non è un'esercitazione!"
"Cosa? Torna qui Higgins! Cosa vuoi dire? Che sta succedendo lassù?"
"Siamo sotto attacco. Navi da guerra tedesche, un sacco, che stanno venendo contro di noi" urlò, mentre si affrettava verso l'alloggio ufficiali successivo.
Arnold e i suoi compagni si affrettarono verso il ponte, indossando le giacche, sistemandosi le cravatte e mettendosi il cappello mentre correvano. Il ponte, sei piani sopra di loro, era pieno di ufficiali eccitati quando il comandante, all'apparenza calmo come sempre, diede un'occhiata dalla finestra.
Davanti a loro riuscivano solo a vedere il mare. Si vedevano degli occasionali sbuffi di fumo, ma il mare era calmo e immobile fino a quando udirono un ruggito sopra le loro teste. "Il tuo treno?" sussurrò Ernest. "Non è in orario, vero?" La granata atterrò con un grosso schizzo dall'altro lato seguita dal rumore dell'arma che l'aveva lanciata.
"Calmi, ragazzi, per cortesia" disse il capitano. "Signor Talbot, alla sua postazione, Signor Jenkins, per cortesia riferisca al Sottoufficiale capo per quanto riguarda le incombenze per lo spegnimento degli incendi. Signori, fatelo il più velocemente possibile."
Fu l'ultima volta che Ernest vide il suo amico. Quando lasciarono il ponte andarono in direzioni diverse, Arnold verso poppa, Ernest a prua.
Ernest scese i gradini di corsa e andò lungo coperta verso la prua. Dietro e davanti a lui poteva sentire le enormi torrette mitragliatrici della Indefatigable girarsi pesantemente verso le navi nemiche, a malapena visibili all'orizzonte, al sopra delle quali sbuffi di fumo bianco indicavano che le armi stavano sparando. Vide il sottoufficiale capo sul ponte davanti a lui. “Signor Jenkins, indossi il giubbotto di salvataggio per cortesia. Non serve a nulla tenerlo sul braccio, no?”
Infilò le braccia nello scomodo aggeggio, tirando le cinghie attorno a lui mentre raggiungeva il ponte dove c'era il sottufficiale capo. “Bene, signore. Ora, se non le dispiace.” Il sottufficiale smise improvvisamente di parlare, guardando con orrore alle spalle di Ernest.