La Casa Perfetta - Блейк Пирс 3 стр.


In superficie non sembrava poi tanto diversa da prima. Aveva compiuto gli anni mentre si trovava all’FBI e ora aveva ventinove anni, ma non le sembrava di avere un aspetto più vecchio. A dirla tutta, le pareva di essere meglio di quando era partita.

I capelli erano ancora castani, ma in qualche modo sembravano più elastici, meno flosci rispetto a quando era stata a Los Angeles tutte quelle settimane fa. Nonostante i lunghi giorni passati all’FBI, i suoi occhi verdi sprizzavano energia e non avevano più quelle ombre scure sotto, che le erano diventate tanto familiari prima. Era sempre alta quasi un metro e ottanta, ma si sentiva più forte e salda di prima. Le braccia erano più toniche e il busto era sodo per gli innumerevoli addominali e flessioni. Si sentiva… preparata.

Portandosi in salotto, finalmente accese le luci. Le ci vollero un paio di secondi per ricordare che tutti i mobili in quello spazio erano suoi. Ne aveva comprati la maggior parte subito prima di partire per Quantico. Non aveva avuto molta scelta. Aveva venduto tutta la roba della casa di cui era stata proprietaria insieme al suo ex marito Kyle, sociopatico e attualmente incarcerato. Per un poco era rimasta nell’appartamento della vecchia amica del college Lacy Cartwright, ma dopo che qualcuno vi aveva fatto irruzione inviando a Jessie un messaggio per conto di Bolton Crutchfield, Lacy aveva giustamente preferito che lei se ne andasse.

Quindi lei aveva fatto proprio così, abitando in un hotel per un poco, fino a che aveva trovato un posto – questo posto – che fosse adatto per le sue necessità di sicurezza. Ma non era arredato, quindi aveva bruciato una parte del capitale che aveva ottenuto dal divorzio per arredamento ed elettrodomestici. Dato che era dovuta partire per l’Accademia Nazionale subito dopo l’acquisto, non aveva avuto la possibilità di apprezzare per bene il tutto.

Ora sperava di poterlo fare. Si sedette sulla poltroncina e si appoggiò allo schienale mettendosi il più comoda possibile. C’era una scatola di cartone con scritto “roba da controllare” sul pavimento accanto a lei. La raccolse e iniziò a rovistarci dentro. Per lo più erano scartoffie che non aveva voglia di guardare adesso. In fondo alla scatola c’era una foto 8x10 del matrimonio di lei e Kyle.

La fissò quasi senza capire, stupita che la persona che aveva avuto quella vita fosse la stessa donna seduta lì desso. Quasi dieci anni prima, durante il loro ultimo anno alla USC, Jessie aveva iniziato a uscire con Kyle Voss. Erano andati a vivere insieme subito dopo la laurea e si erano sposati tre anni fa.

Per un lungo periodo le cose erano sembrate fantastiche. Vivevano in un bell’appartamento poco distante da lì, nel centro di Los Angeles, o Downtown, come veniva spesso chiamato. Kyle aveva un lavoro nella finanza e Jessie stava prendendo la laurea specialistica. Avevano una vita agiata. Andavano spesso a provare nuovi ristoranti e nei migliori bar. Lei era felice e probabilmente sarebbe potuta rimanere in quella condizione per parecchio tempo.

Ma poi Kyle aveva avuto una promozione ed era stato trasferito nell’ufficio che la sua società aveva nella Contea di Orange, e aveva insistito perché si trasferissero in una mega villa lì. Jessie aveva acconsentito, nonostante la sua apprensione. Solo allora la vera natura di Kyle era venuta in superficie. Era diventato ossessionato dall’idea di diventare membro di un club segreto che si era rivelato essere la facciata di copertura per una cerchia legata alla prostituzione. Aveva intrapreso una relazione con una delle donne del posto, e quando le cose erano andate storte, l’aveva uccisa cercando di far ricadere la colpa su Jessie. Ciliegina sulla torta: quando Jessie aveva scoperto il suo intrigo, aveva tentato di uccidere anche lei.

Ma anche adesso, mentre osservava attentamente la foto del matrimonio, non c’era traccia di ciò che suo marito era capace di fare. Sembrava un uomo bello e amabile, pronto a diventare il padrone dell’universo. Jessie accartocciò la foto e la gettò verso il cestino dell’immondizia in cucina. Cadde dritta al centro, dandole un inaspettato senso di catartica soddisfazione.

Canestro! Deve pur significare qualcosa.

C’era un qualcosa di liberatorio in questo posto. Tutto – l’arredamento nuovo, la mancanza di ricordi personali, addirittura le misure di sicurezza al limite della paranoia – appartenevano a lei. Era davvero un nuovo inizio.

Jessie si stiracchiò, permettendo ai suoi muscoli di rilassarsi dopo il lungo volo sull’aereo pieno zeppo di gente. Questo appartamento era suo, il primo posto dopo cinque o sei anni che poteva definire veramente tale. Poteva mangiare pizza sul divano e lasciare lì l’incarto senza doversi preoccupare che qualcuno se ne lamentasse. Non che fosse il tipo da fare una cosa così. Il punto era che poteva.

Il pensiero della pizza le fece venire improvvisamente fame. Si alzò e andò a dare un’occhiata al frigorifero. Non solo era vuoto, ma non era neppure acceso. Solo allora si ricordò di averlo lasciato così, non vedendo alcun motivo per dover pagare l’elettricità dato sarebbe mancata di casa per due mesi e mezzo.

Lo collegò e, sentendosi inquieta, decise di fare un salto al supermercato. Poi le venne un’altra idea. Dato che non avrebbe iniziato a lavorare fino al giorno dopo, e non era troppo tardi nel pomeriggio, c’era un’altra fermata che poteva fare: un posto – e una persona – che conosceva e che alla fine doveva andare a trovare.

Era riuscita a levarsela dalla testa per la maggior parte del tempo a Quantico, ma c’era ancora la questione di Bolton Crutchfield. Sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere e che lui durante il loro ultimo incontro aveva tentato di adescarla.

Eppure doveva sapere: Crutchfield aveva davvero trovato un modo per incontrare suo padre, Xander Thurman, il Boia dell’Ozarks? Aveva trovato un modo per mettersi in contatto con l’assassino di innumerevoli persone, inclusa sua madre, l’uomo che l’aveva lasciata, quando aveva sei anni, legata vicino al suo cadavere, dove sarebbe di certo morta congelata in un isolato capanno?

Aveva intenzione di scoprirlo.

CAPITOLO TRE

Eliza stava aspettando quando Gray arrivò a casa quella sera. Arrivò in tempo per la cena, con un’espressione in viso che lasciava intendere che si aspettava quello che sarebbe successo. Dato che Millie ed Henry erano seduti lì, intenti a mangiare il loro mac&cheese con fette di hot dog, nessuno di loro due disse nulla sulla situazione.

Fu solo quando i bambini furono andati a dormire che la questione venne alla ribalta. Eliza era in piedi in cucina quando Gary entrò dopo aver messo a letto i bambini. Si era tolto la giacca, ma aveva ancora addosso la cravatta allentata e i pantaloni del completo da ufficio. Eliza sospettò che fosse per apparire più credibile.

Gray non era un uomo imponente. Alto un metro e ottanta scarsi, la superava solo di un paio di centimetri, anche se con i suoi 75 chili, pesava ben di più. Sapevano bene entrambi che il suo aspetto era decisamente meno autoritario con indosso solo una maglietta e i pantaloni della tuta. La tenuta da lavoro era la sua armatura.

“Prima che tu dica qualcosa,” disse, “ti prego di lasciarmi spiegare.”

Eliza, che aveva passato gran parte della giornata a chiedersi come sarebbero andate le cose, fu felice di permettere alla sua ansia di restare momentaneamente in attesa, lasciando che fosse lui a dimenarsi nel tentativo di giustificarsi.

“Accomodati pure,” gli disse.

“Prima di tutto, mi spiace. Indipendentemente da qualsiasi altra cosa possa dire, voglio che tu sappia che ti chiedo scusa. Non avrei mai dovuto permettere che succedesse. È stato un momento di debolezza. Mi conosce da anni e sa quali siano i miei punti deboli. Sapeva cosa avrebbe stuzzicato il mio interesse. Avrei dovuto controllarmi, ma ci sono cascato.”

“Cosa stai dicendo?” chiese Eliza, stupefatta e nel contempo ferita. “Che Penny è stata una seduttrice e che ti ha manipolato costringendoti ad avere una relazione con lei? Sappiamo entrambi che sei un uomo debole, Gray, ma mi stai prendendo in giro?”

“No,” rispose lui, scegliendo di non dare seguito al commento sul ‘debole’. “Mi prendo la completa responsabilità delle mie azioni. Mi ero fatto tre whiskey. Sono stato attratto dalle sue gambe in quel vestito con lo spacco laterale. Ma lei sa cosa mi fa andare nel pallone. Immagino siano state tutte quelle confidenze che vi fate da anni. Ha saputo come solleticarmi il braccio con la punta delle dita, ha saputo come parlare, quasi facendo le fusa sussurrandomi nell’orecchio. Probabilmente sapeva che tu non facevi queste cose da tanto tempo. E sapeva che non saresti entrata in quel bar perché eri a casa, messa al tappeto dalle pillole per il sonno che prendi quasi tutte le sere.”

Quell’affermazione rimase sospesa tra loro per diversi secondi, mentre Eliza cercava di assumere un certo contegno. Quando fu certa che non avrebbe gridato, rispose con voce incredibilmente calma.

“Stai dando a me la colpa di questa cosa? Perché sembra che tu stia dicendo di non essere potuto restare nei tuoi pantaloni perché io ho problemi a dormire la notte.”

“No, non intendevo questo,” piagnucolò lui, ritraendosi davanti alle sue parole avvelenate. “È solo che hai sempre problemi a dormire la notte. E non sembri mai tanto interessata a voler restare sveglia insieme a me.”

“Giusto per essere chiari, Grayson: dici che non mi stai incolpando. Ma poi passi immediatamente a dire che io sono messa KO dal Valium e non ti riservo sufficienti attenzioni, per cui hai dovuto portarti a letto la mia migliore amica.”

“Ma che razza di migliore amica è se ti fa una cosa del genere?” provò a dire Gray, in un tentativo disperato.

“Non cambiare argomento,” disse lei con tono seccato, costringendosi a mantenere la voce stabile, in parte per evitare di svegliare i bambini, ma soprattutto perché era l’unico modo per evitare di perdere il controllo. “È già sulla mia lista. Ora tocca a te. Non potevi forse venire tu da me e dirmi: ‘Ehi, tesoro, mi piacerebbe tantissimo passare una serata romantica con te stasera”, oppure “Amore, sento che siamo distanti ultimamente. Possiamo stare un po’ vicini questa sera?’ Queste non erano forse buone opzioni?”

“Non volevo svegliarti e darti fastidio con domande del genere,” rispose lui, la voce mite, ma le parole taglienti.

“Quindi hai deciso che il sarcasmo è il modo migliore in questa circostanza?” chiese Eliza.

“Guarda,” disse lui, alla disperata ricerca di una via di scampo, “con Penny è finita. Me l’ha detto oggi pomeriggio e io sono d’accordo con lei. Non so come andremo avanti da qui, ma è mia intenzione farlo, se non altro per i bambini.”

“Se non altro per i bambini?” ripeté lei, stupita dal modo eclatante in cui suo marito stava fallendo. “Vattene e basta. Ti concedo cinque minuti per fare i bagagli e salire in macchina. Prenotati una stanza d’albergo fino a prossime istruzioni.”

“Mi stai cacciando da casa mia?” le chiese incredulo. “La casa che ho pagato?”

“Non solo ti sto cacciando,” sibilò lei. “Ma se non esci dal vialetto entro cinque minuti, chiamo la polizia.”

“E cosa gli dici?”

“Mettimi alla prova,” ribatté lei furente.

Gray rimase a fissarla. Per niente turbata, Eliza andò al telefono e lo prese. Fu solo quando sentì il suono del numero che veniva digitato che Gray scattò in azione. Nel giro di tre minuti stava uscendo di casa come un cane con la coda tra le gambe, la borsa di tela piena zeppa di camicie e giacche. Una scarpa cadde mentre scappava via. Lui non la notò ed Eliza non disse nulla.

Fu solo quando sentì la macchina che si allontanava, che Eliza riappoggiò il telefono sul mobiletto. Abbassò lo sguardo sulla propria mano sinistra e vide che il palmo sanguinava dove vi aveva piantato le unghie stringendo il pugno. Solo in quel momento ne sentì il bruciore.

CAPITOLO QUATTRO

Nonostante fosse fuori allenamento, Jessie si divincolava nel traffico del centro di Los Angeles diretta verso Norwalk senza grossi problemi. Strada facendo, decise di fare un colpo di telefono ai suoi genitori, se non altro come modo per distrarsi dall’incombente arrivo alla destinazione che si era prefissata.

I suoi genitori adottivi, Bruce e Janine Hunt, vivevano a Las Cruces, Nuovo Messico. Lui era un agente dell’FBI in pensione e lei una ex insegnante. Jessie aveva trascorso qualche giorno con loro prima di arrivare a Quantico e aveva sperato di poter fare lo stesso al suo ritorno. Ma non c’era stato sufficiente tempo tra la fine del corso e la ripresa del lavoro, quindi aveva dovuto abbandonare l’idea di una seconda visita. Sperava di tornare presto a trovarli, soprattutto dato che sua madre stava lottando contro il cancro.

Non le sembrava giusto. Erano una decina d’anni ormai che Janine viveva questa battaglia, e questo era solo un tassello da aggiungere all’altra tragedia che la coppia aveva affrontato anni prima. Subito prima che prendessero Jessie con loro quando lei aveva sei anni, avevano perso il loro bambino di due anni, anche lui portato via dal cancro. Erano stati felici di riempire il vuoto che questo evento aveva lasciato nei loro cuori, anche se significava adottare la figlia di un serial killer, un uomo che aveva assassinato la madre della bambina, abbandonando quest’ultima a morte certa. Dato che Bruce stava nell’FBI, l’abbinamento era sembrato logico agli US Marshals che avevano inserito Jessie nel programma protezione testimoni. Sulla carta, era tutto molto sensato.

Lei cacciò dalla testa quel pensiero e digitò il numero.

“Ciao pa’,” disse. “Come va?”

“Ok,” rispose lui. “Ma’ sta pisolando. Vuoi richiamare più tardi?”

“No. Possiamo parlare noi. Farò due chiacchiere con lei stasera o un altro giorno. Come vanno le cose lì?”

Quattro mesi prima sarebbe stata riluttante a parlargli senza la madre lì presente. Bruce Hunt era un uomo difficile da avvicinare, e neanche Jessie era particolarmente coccolona. I ricordi della sua infanzia con lui erano un miscuglio di gioia e frustrazione. C’erano state settimane bianche sugli sci, campeggio e camminate in montagna, e vacanze di famiglia in Messico, a neanche un centinaio di chilometri da casa.

Ma c’erano anche stati confronti farciti di grida, soprattutto quando lei era entrata nell’adolescenza. Bruce era un uomo che apprezzava la disciplina. Jessie, con anni di dolore represso per aver perso sua madre, il proprio nome e la propria dimora in un colpo solo, tendeva a volte ad esagerare. Durante gli anni trascorsi alla USC e anche dopo, probabilmente avevano parlato in tutto una ventina di volte. E anche le visite erano state rare.

Ma recentemente il ritorno del cancro di ma’ li aveva costretti a parlare senza intermediari. E il ghiaccio si era in qualche modo spezzato. Lui era addirittura venuto a Los Angeles per aiutarla a riprendersi dopo la ferita all’addome causatale dall’aggressione ad opera di Kyle lo scorso autunno.

“Qui è tutto tranquillo,” le disse, rispondendo alla sua domanda. “Ma’ ha fatto un’altra sessione di chemio ieri, motivo per cui ora sta recuperando. Se si sente meglio, potremmo uscire per cena più tardi.”

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