Liz continuò a fissare. Adesso non c’erano che incendi su tutta la collina. Tutt’intorno a lei, la squadra rimaneva ammutolita, delle statue in nero e oro della Dennis. Dietro a loro, nel terminal, la gente ancora urlava, e adesso correva.
Molti erano crollati al suolo.
“Era davvero l’aereo?” disse Liz a nessuno in particolare.
CAPITOLO DUE
4:35 ora della costa orientale
Residenza della Casa Bianca
Washington DC
Suonava il telefono.
Faceva un rumore strano, non tanto uno squillo quanto un ronzio. Però era forte. In più, ogni squillo accendeva l’oscurità del mattino di azzurro, come le luci delle macchine della polizia. Luke Stone quel telefono lo odiava.
Se ne stava tra la veglia e il sonno. Gli passavano delle immagini per la testa. Gli ultimi anni: un’esplosione alla vecchia Casa Bianca, l’imponente colonnato che andava in pezzi, con dei frammenti che volavano in aria; una battaglia a suon di pistole e razzi nell’ampio stadio aperto della Corea del Nord; gli occhi feroci di Ed Newsam e una nave portacontainer inghiottita dalle fiamme alle sue spalle; Mark Swann, scheletrico e barbuto con una tuta arancione, gli occhi vacui, incatenato a un gruppo di altri prigionieri dell’ISIS; gli occhi sofferenti e rabbiosi di Becca, il suo volto magro, la pelle come carta… i grandi occhi preoccupati di Gunner, che lo fissavano perché Luke facesse…
Luke aprì gli occhi. Accanto a lui, sul comodino, nel buio della camera da letto presidenziale, il telefono infernale continuava a suonare. Un orologio digitale si trovava accanto al telefono. Guardò i numeri rossi.
4:35. Come sbatté le palpebre, cambiarono. 4:36.
“Gesù,” sussurrò. Aveva dormito tre ore.
Una voce femminile impastata dal sonno: “Non rispondere.”
Una ciocca dei capelli biondi di lei faceva capolino dalle coperte. Le pesanti tende erano chiuse, e se non fosse stato per il telefono sarebbe stato completamente buio nella stanza, proprio come piaceva a Luke. Ma il telefono continuava a gettare quell’assurda luce azzurra per la camera.
“Pare di stare in discoteca.”
Raccolse il telefono. Misericordiosamente, la cruda luce azzurra morì.
“È per te,” disse porgendole il ricevitore.
Serpeggiò fuori una mano sottile, che prese il ricevitore e se lo portò sotto alle coperte. Se lo tenne a lato della faccia mezza coperta, gli occhi ancora sigillati.
“Susan Hopkins,” disse con voce seria, come se fosse sveglia da un’ora, avesse già fatto colazione e fosse stata interrotta mentre esaminava dei documenti importanti – la presidente degli Stati Uniti non dormiva mai.
Gli venne in mente un pensiero: Quante volte?
Quante volte lui o lei erano stati svegliati a notte fonda perché era accaduta una cosa orribile, o stava accadendo in quel momento, o stava per accadere? Quanti momenti di intimità, di normalità, di vita semplice – cosa che molti davano per scontata – erano stati bloccati o persino distrutti da telefonate come quella?
Mezzo addormentato, si concesse di immaginare un altro mondo, un mondo in cui loro due non facevano quei lavori. Il telefono non suonava a notte fonda con notizie terribili. Lei andava in tv, in una qualche misura. Lui faceva il professore al college. Una vita impegnativa, ma le cose potevano essere organizzate, si potevano fare progetti, e non dovevano nascondere la loro relazione.
Quella parte lo preoccupava ancora, forse più che mai. Il mondo pareva aver dato loro un lasciapassare per le ultime settimane. Forse era stata l’influenza delle vacanze – la gente aveva la propria vita e la propria famiglia a cui pensare. Le figlie di Susan erano venute dalla West Coast. Lui e Gunner avevano trascorso molto tempo lì alla residenza per qualche giorno. All’inizio era stato imbarazzante – Gunner era di poco più piccolo di Michaela e Lauren, e non era abituato ad avere a che fare con quelle mosche bianche dei figli di alcune delle persone più ricche della Terra. Comunque si erano tutti acclimatati un pochino, e avevano festeggiato uno strambo Natale da famiglia allargata. La vigilia era anche nevicato.
E in qualche modo era rimasto tutto fuori dalla portata dei media. Quando Luke aveva riportato Gunner alla casa dei nonni, non c’erano furgoni dei notiziari parcheggiati fuori. Nessun giornalista lo aveva chiamato nel suo ufficio chiedendogli con insistenza del suo ruolo di consulente stretto della presidente. Sul fronte media tutto tranquillo – troppo tranquillo. Ogni volta che chiedeva a Susan come faceva a non essere ancora giunta la notizia ai media, lei sorrideva misteriosamente e diceva:
“Non ti preoccupare. Abbiamo i nostri metodi.”
Ma lui si preoccupava. La situazione lo attanagliava. Più che altro lo preoccupava Gunner. Il ragazzo stava crescendo, e Luke voleva che avesse una vita pressoché normale. Dio sapeva se se la meritava dopo tutto quello che aveva passato. Stava ancora con i genitori di Becca, e andava bene così – almeno ultimamente si erano fatti più cordiali del solito. Non erano che degli arrivisti, e il loro ex genero adesso frequentava di nascosto la presidente.
A dire il vero, Luke avrebbe voluto solo che Gunner tornasse a vivere con lui. Però era ancora una spia, e adesso gestiva un’agenzia tutta sua. Vile da ammettere, ma adesso il tempo di crescere un figlio non ce l’aveva. Se fosse venuto a stare da lui, Gunner avrebbe trascorso un sacco di tempo da solo. Per adesso, Luke faceva di tutto per essere presente nella sua vita.
Scosse la testa, scacciandone i pensieri vaganti. Sotto le coperte, Susan ascoltava con attenzione. Per un attimo, Luke non abbandonò la speranza che magari la telefonata non fosse così male. Cavolo, potevano anche essere buone notizie – così buone da non poter aspettare la mattina. Cosa poteva essere?
“Oddio,” disse Susan, e il tono infranse qualsiasi speranza di lui. Susan fece un respiro profondo. “Ok. Senti. Fino a un minuto fa dormivo. Dammi mezz’oretta per farmi una doccia e mangiare un boccone. Nel frattempo, comincia a riunire i soliti sospetti.”
Susan fece una pausa mentre la persona all’altro capo parlava.
“Ok. Grazie.” La mano serpeggiò di nuovo fuori e passò il ricevitore a Stone. Luke lo rimise sulla base.
“Male?” disse.
“Sì.”
Non aveva ancora compiuto nessun tentativo di riemergere da sotto le coperte. Gli occhi di Luke si erano già adattati al buio e lei sembrava una bambina piccola là sotto – una bambina che non aveva voglia di alzarsi per andare a scuola.
“Schianto aereo nella penisola del Sinai,” gli disse. “Un vero disastro. A bordo c’era Jack Butterfield. E Sir Marshall Dennis e un’altra sessantina di persone di vari gradi di importanza. Non abbiamo ancora la lista passeggeri completa.”
Scostò le coperte. Aveva la testa appoggiata a un gomito, gli occhi ora aperti che lo fissavano. Erano occhi azzurri, incorniciati da folte ciglia. Le stavano crescendo i capelli. Era ormai scomparso il conservatore (e celebre) Caschetto alla Hopkins, o Elmo alla Hopkins, a seconda che si nutrissero simpatie o antipatie per la presidente.
Forse si stava facendo un po’ audace per la Washington ufficiale, forse abbracciava il suo lato femminile più di quanto avrebbe dovuto.
“Sopravvissuti?” disse Luke.
Scosse la testa. “No.”
Poi sospirò.
“Conosco Jack Butterfield l’Ascia da quindici anni. Era un cretino e un ubriacone e un bravo vecchio – non la mia combinazione preferita. Però era un uomo per bene, molto sveglio e molto vicino alle agenzie di intelligence e al Pentagono.”
“Lo so chi era.”
Scosse lentamente la testa. “Conosco Marshall Dennis da quando ero una ragazzina. Anche lui era un cretino e un ubriacone, e trascorreva troppo tempo a paleggiare le ragazzine, però…” Fece una pausa.
“Eh, lascia stare. Marsh Dennis non mancherà a nessuno. Le sue ex mogli probabilmente adesso sono al telefono con gli avvocati per chiedere di indagare sul testamento.” Fece un cenno al telefono. “Era Kurt Kimball.”
Luke annuì. “Ovviamente.”
D’un tratto, Susan scivolò fuori dal letto. Nella luce fioca, la osservò attraversare nuda con passo felpato la stanza. Un’ultima fuggevole immagine di una vita diversa gli passò per la testa – una vita in cui non era ancora ora di alzarsi.
“Mi servi, a questa riunione,” gli disse. “Per quanto odi dirlo, a questo dovrebbe lavorare lo Special Response Team.”
“Per via di Jack Butterfield?”
Sì, Butterfield era vicino alla comunità di intelligence nel senso che gli piaceva far visita agli uffici, ascoltare quello che avevano da raccontare e trastullarsi con i loro giocattoli. In cambio di essere trattato come uno dei grandi, lui faceva avanzare le richieste di budget al Congresso. L’ascia di Jack l’Ascia veniva dalla sua passione per il taglio delle attività extrascolastiche e dei programmi sociali per i poveri.
Luke si aspettava una chiamata, e poi una visita, di Jack l’Ascia uno di questi giorni. Non moriva dalla voglia di farsi piedino con Jack Butterfield, però era una cosa che doveva essere fatta. L’SRT era l’agenzia preferita della presidente, ma era il Congresso a prendere le decisioni in merito al budget.
Be’, supponeva che quella visita in particolare ora non ci sarebbe stata. Dentro di sé sorrise. Non avrebbe mai augurato del male al deputato Butterfield, e soprattutto non agli altri passeggeri, però…
Si alzò, andò al bovindo e tirò un angolino delle pesanti tende. Il meteo aveva previsto neve, e aveva avuto ragione. Scendeva pesante, soffiata da raffiche di vento. Pareva che a terra ce ne fossero già diversi centimetri.
“Nevica,” disse Luke. E ora sorrise davvero. “Giusto per dire una cosa originale, il traffico del mattino sarà un casino.”
“L’aereo è stato abbattuto, Luke. Kurt pensa che sia stato un assassinio con un obiettivo preciso. Peggio, pensa che potrebbe essere l’inizio di qualcosa di più grosso.”
CAPITOLO TRE
5:17 ora della costa orientale
Sala operativa
Casa Bianca, Washington DC
“Ho già visto le foto,” disse uno stagista.
“Raccapriccianti. Cadaveri e parti del corpo disseminate sui pendii delle colline. E pensare che Marshall Dennis è tra di essi. Dio. Lo abbiamo studiato a un corso di imprenditorialità quando ero alla Wharton. Era fantastico – una vera e propria forza della natura. Uno così pare non dover morire mai. Tipo che non lo permetterebbe, o una cosa del genere.”
Luke saliva su un ascensore gremito di membri dello staff e gente dell’intelligence della Casa Bianca. Guardò quello che aveva parlato. Era molto giovane, alto e in forma, con una giacca elegante blu e una camicia dal colletto aperto sulla gola e un ciondolare di capelli biondi quasi a nascondergli il viso. A Luke ricordava le rock band new wave degli anni Ottanta.
Il ragazzo non aveva parlato a nessuno in particolare, solo a tutti i presenti nell’ascensore. Aveva fatto un bell’annuncio: aveva già visto le foto. Brevemente – molto brevemente – Luke si chiese di quale ricco donatore per la campagna fosse figlio o nipote.
L’ascensore si aprì sulla sala operativa a forma di uovo. Chi ci arrivava per la prima volta spesso rimaneva sorpreso di quanto fosse piccola. Quando giungeva una crisi, come adesso per esempio, e la stanza cominciava ad affollarsi, poteva dare un senso di claustrofobia. Era modernissima e organizzata per il massimo uso dello spazio, con ampi schermi incassati nelle pareti a pochi metri di distanza l’uno dall’altro e un gigantesco schermo di proiezione sulla parete di fondo alla fine del tavolo. Dal tavolo da conferenze posto al centro sorgevano tablet e sottili microfoni – potevano essere rimessi all’interno della tavola se il partecipante voleva usare un dispositivo proprio.
Ogni lussuosa poltrona in pelle alla tavola era già occupata. I posti lungo le pareti si stavano riempiendo di giovani assistenti, i quali per la maggior parte chiacchieravano tra loro, digitavano messaggi nei tablet o parlavano al telefono.
I giovani erano elettrizzati. Il loro futuro era pieno di speranza, e avevano occhi luccicanti di ambizione. Il fatto che fossero stati svegliati e convocati a una riunione di emergenza così presto per loro sottolineava solo quanto fossero importanti.
Giù verso il centro della stanza, dove si sarebbero prese le decisioni vere, i volti erano di decenni più vecchi e gli occhi meno luccicanti. Susan Hopkins sedeva al margine più vicino della tavola oblunga, su una sedia dallo schienale alto con sopra il sigillo del presidente. All’altro capo se ne stava in piedi il grosso Kurt Kimball con la sua zucca cromata, il consigliere per la sicurezza nazionale di Susan. Una distesa di uomini e donne dall’aria stanca occupava i posti tra di loro.
Susan e Luke scaglionavano sempre il loro arrivo a riunioni di emergenza come quella. Era una tattica volta a nascondere il fatto che si fossero appena svegliati, nel letto, insieme. Un’occhiata di Kurt disse a Luke tutto ciò che doveva sapere: non fregavano nessuno – o almeno nessuno di importante. Luke prese posto nella fila in fondo lungo la parete.
Guardò Susan, leggermente sotto di lui alla sua sinistra. In una mano teneva una grande tazza bianca per il caffè. Aveva un bell’aspetto – era snella e in forma in un tailleur con pantaloni blu e i capelli appena scompigliati. Susan riusciva a rendere sexy l’outfit più moderato. Parlava seria col suo capo di gabinetto, Kat Lopez.
Stone squadrò Kat da capo a piedi. Lunghi capelli neri, un viso carino, occhi scuri a mandorla e un corpo alto e tutto curve celato dentro a un tailleur azzurro – aveva un aspetto bello quasi quanto quello di Susan. Aveva gli occhi stanchi però, e le stavano comparendo le zampe di gallina. Kat non dimostrava la sua età, e le esigenze del lavoro la stavano logorando un po’.
D’un tratto Kurt batté le grosse mani di pietra. Al college aveva giocato a basket. Aveva mani enormi. Kurt stesso era grosso, ma le mani sembravano messe sul corpo sbagliato.
“Ordine! Tutti all’ordine, per piacere.”
La stanza si placò. Un paio di assistenti continuò a parlare lungo la parete. Era mattino presto, la gente beveva caffè, svegliandosi, cominciando la giornata. Quello era un posto per chiacchieroni. I giovani silenziosi e introversi di solito non finivano a lavorare alla Casa Bianca.
Kurt batté di nuovo le mani.
CLAP. CLAP.
CLAP.
L’ultimo colpo suonò come un dizionario integrale che andava a schiantarsi contro a un pavimento di marmo.
Nella stanza scese un silenzio di morte.
“Buongiorno a tutti,” disse Kurt. “Grazie di essere arrivati così presto. Ci conosciamo tutti, quindi saltiamo le presentazioni.” Fece una pausa e guardò Susan. “Signora presidente?”
“Signor consigliere per la sicurezza nazionale?” disse lei.
“Siamo pronti?”
Susan scosse la testa. “No. Ma la cosa non ci ha mai fermati.”
Kurt lanciò un’occhiata alla giovane che sedeva alla sua sinistra. Luke la riconobbe come l’assistente di lunga data di Kurt. Aveva ancora i capelli nel Caschetto alla Hopkins che Susan aveva abbandonato di recente. “Amy, cominciamo con Sharm el-Sheikh.”
Sull’ampio schermo dietro a Kurt, e sui più piccoli attorno alla stanza, comparve la foto di un terminal. Il tetto del terminal era bombato e ondulato, quasi come un tendone. In primo piano c’era una torre di controllo alta dieci piani. Sullo sfondo e in lontananza c’erano delle montagne frastagliate rosse e marroni.