“Levatelo, tesorino!” disse Steve-O strappando qualche risata agli altri.
Marc aveva servito a Steve-O sei shot e sei birre nelle ultime due ore. Adesso avrebbe detto che Steve-O era visibilmente ubriaco. E stava cominciando a dargli sui nervi. “Adesso basta, Steve-O.”
Steve-O lo guardò. “Cosa?”
“Chiudi la bocca o va’ a casa. È questo che sto dicendo.”
Marc tornò a voltarsi verso lo schermo televisivo. La Hopkins non aveva ancora detto nulla. Sembrava trattenere un’emozione. Era la fine, allora. Stava per fare il discorso della sconfitta. Era sembrata popolare, però alla fine era stata una presidente da una sola legislatura – e nemmeno completa.
“Miei connazionali americani,” disse.
Il bar ammutolì. La stanza da dove parlava era quasi silenziosa – Marc riusciva a sentire il ronzio e gli scatti delle macchine fotografiche.
“Esporrò i miei commenti con brevità. È stata una campagna elettorale combattuta a fatica tra due visioni dell’America molto diverse. Una visione è di ottimismo, comprensione e orgoglio per ciò che abbiamo compiuto come nazione. L’altra è un’oscura visione di pericolo, disperazione, risentimento e paranoia, persino, che vede la nostra nazione come un paesaggio rovinato che può essere salvato attraverso gli sforzi di un solo uomo. E promette violenza – violenza contro il nostro partner commerciale più importante, così come violenza contro le nostre comunità, i nostri vicini, e i nostri amici.
“Sono sicura che sapete quale visione abbraccio io. Non posso accettare una visione del mondo basata su razzismo, pregiudizio e diffidenza. Eppure, nonostante i miei timori, in circostanze normali ora avrei il compito di congratularmi con l’apparente vincitore di questa gara, e di dare il benvenuto al presidente eletto, preparandomi graziosamente per il pacifico trasferimento di potere che costituisce un tratto caratteristico della nostra democrazia.”
Fece una pausa. “Ma queste non sono circostanze normali.”
Marc si tirò dritto. Sentì un fremito lungo la spina dorsale. Guardò gli uomini allineati al bar. Ciascuno di loro adesso era incollato al televisore. Ciascuno di loro improvvisamente era attento, come un animale prima di una tempesta in avvicinamento. Che stava dicendo?
“La mia campagna ha scoperto prove di irregolarità nelle elezioni in almeno cinque stati, inclusa soppressione di voto, ma anche aperta manomissione e potenziale hackeraggio delle macchine elettorali. Abbiamo ragione di credere che le elezioni siano state rubate, non solo alla nostra campagna, ma al popolo americano. Abbiamo già contattato l’FBI e il dipartimento di Giustizia per queste nostre preoccupazioni, e intendiamo assistere a una piena e imparziale indagine. Finché questa non sarà completata – per quanto ci voglia – non posso e non riconoscerò i risultati delle elezioni, e continuerò a svolgere i doveri di presidente degli Stati Uniti, portando a termine il mio giuramento di proteggere e sostenere la Costituzione. Grazie.”
In tv, la presidente Hopkins si spostò verso destra e uscì dallo schermo. Ci fu un balbettio di voci mentre i reporter urlavano, gareggiando gli uni con gli altri per avere la sua attenzione. Scoppiarono i flash. Il televisore passò a una telecamera diversa, questa concentrata sulla presidente che veniva fatta uscire di fretta da una porta laterale dietro a un mare di grossissimi agenti dei servizi segreti. Non aveva risposto a una singola domanda.
“Che significa?” disse Steve-O. “Può farlo?”
Nessuno disse una parola.
Marc continuò ad asciugare i bicchieri di birra. Nemmeno lui conosceva la risposta a quella domanda.
CAPITOLO SEI
17:48 ora della costa orientale
34° piano
Willard Intercontinental Hotel, Washington DC
“Siamo una nazione soggetta alla legge?” urlò l’uomo al telefono.
Sedeva con i piedi sull’ampia scrivania di quercia lucidata, guardando le luci del Campidoglio fuori dalla finestra alta dal pavimento al soffitto. Fuori era buio – il sole tramontava presto in quel periodo dell’anno.
“È questo che voglio sapere. Perché se siamo una nazione soggetta alle leggi, quella donna, l’occupante attuale della Casa Bianca, deve fare le valigie. Ha perso, e ha vinto Jefferson Monroe. Jefferson Monroe è il presidente eletto degli Stati Uniti. E, arrivato il giorno dell’insediamento, se l’occupante attuale non è fuori, dovremo sfrattarla, come lo sceriffo che sfratta un inquilino lavativo.”
L’uomo fece una pausa di qualche secondo per ascoltare il reporter all’altro capo della linea.
“Ah sì, può citarmi. Stampi ogni parola.”
Riappese il telefono e lo fece scivolare sulla scrivania. Controllò l’orologio e respirò profondamente. Era stato al telefono con giornalisti per quasi un’ora da quando Susan Hopkins era scappata dal palco per sfrecciare fuori dalla stanza alla fine della sua sciocca conferenza stampa.
L’uomo si chiamava Gerry O’Brien. A cinquant’anni era molto alto e magrissimo. Stava perdendo i capelli, e il volto era tutto angoli e precipizi infossati. Pesava quanto il giorno in cui si era laureato al college. Era una maratoneta, un triatleta, e negli ultimi anni aveva preso a fare corse nel fango e di sopravvivenza. Qualsiasi cosa di difficile, tosta, estrema, dove la gente precipitava giù per le fiancate o vomitava le budella o cadeva per una collina e si spaccava le ginocchia, aveva su il suo nome.
Figlio di immigrati irlandesi, era emerso sulle strade di Woodside, Queens. Suo padre era una guardia carceraria. Sua madre una donna di servizio. Gente dura, e lo avevano cresciuto perché fosse un duro. Se si vuole crescere a Woodside, bisogna combattere. Ok? Non aveva importanza per lui. Sarebbe entrato in competizione con chiunque. Era così feroce, così spietato, che i ragazzini del quartiere lo chiamavano lo Squalo.
Fu la prima persona della famiglia ad andare al college, e poi – territorio sconosciuto – alla scuola di legge. Aveva fatto il suo primo milione prima di compiere i trenta, dando la caccia alle ambulanze – lesioni personali.
Si era fatto fare una foto in cui era molto arrabbiato (e poche persone avevano la capacità di mostrarsi arrabbiate come lui) e aveva pagato per far affiggere dei piccoli poster promozionali per tutta la metropolitana.
Ferito? Ti serve qualcuno di tosto che combatta per i tuoi diritti. Un avvocato vero. Un newyorchese vero. Ti serve Gerry O’Brien. Ti serve lo Squalo.
Quasi istantaneamente, era diventato Gerry lo Squalo. Chiunque prendesse la metro nei cinque distretti conosceva quel nome. Prendeva la metro anche lui solo per guardare le sue pubblicità – e lui la metro la odiava.
Più faceva, più manifesti poteva permettersi. E più manifesti faceva affiggere, più faceva. Ben presto passavano gli spot nella tv della notte, poi di metà pomeriggio. Jackpot. Aveva avuto tre avvocati a lavorare per lui, poi cinque, poi dieci. Poi venti. Quando dieci anni prima aveva venduto l’attività, aveva trentatré avvocati e più di cento persone dello staff.
Era andato in pensione per qualche anno. Aveva girovagato. Vagabondato. Viaggiato per il mondo. Aveva preso troppe droghe. Aveva bevuto troppo. Aveva fatto troppo… di tutto. Entrare nella politica della destra radicale probabilmente gli aveva salvato la vita. Aveva sostituito tutta la robaccia con l’autodisciplina e una visione dell’America che aveva scoperto di condividere con molta gente – un ritorno ai tempi più semplici degli albori.
Tempi in cui la supremazia dei bianchi non era in questione. Tempi in cui il matrimonio era tra un uomo e una donna. Tempi in cui un giovane poteva uscire da scuola a diciotto anni, entrare in una fabbrica e trascorrere il resto della sua vita lavorativa lì dentro, facendo tutti i soldi di cui aveva bisogno per mantenere la sua famiglia.
C’era dell’altro, ovvio, molto altro. Cose più oscure, cose per cui serviva uno stomaco forte, cose che non erano adatte a un consumo più ampio. Aveva grandi piani. Avrebbero ripulito il paese, una volta per tutte. Ma non era cosa che si poteva dire in pubblico, no? Non ancora.
Gerry lo Squalo si alzò dalla scrivania e attraversò la distesa di stanze. C’era qualche segretaria, ma la maggior parte della gente lavorava fuori. Gerry era lì non solo perché era lo stratega di punta, ma anche perché era il body man del capo, il suo assistente più fidato – e non gli piaceva non avere sotto gli occhi il vecchio.
Erano arrivati in volo da Louisville quel pomeriggio. Il suo capo era proprietario di quel… come lo si può chiamare? Appartamento? Certo, un appartamento con dieci camere, dodici bagni e mezza dozzina di uffici con una sala conferenze e una sala da pranzo per lo staff. Prendeva un piano intero di uno dei più alti e costosi hotel del mondo. Quell’hotel era il luogo in cui si era svolta la storia americana. Lì John F. Kennedy aveva avuto i suoi molti appuntamenti segreti pomeridiani. Lì.
Ci avrebbero trascorso la notte. Avevano del lavoro importante da sbrigare a Washington DC la mattina dopo, presto.
Gerry percorse sciolto il corridoio, pose la chiave magnetica sul sensore e passò nelle zone giorno. Il salotto di fronte era arredato con opulento stile da vecchio mondo, come la stanza di una villa vittoriana.
Un uomo dai capelli bianchi stava in piedi presso un’alta finestra, le tende scostate. Fissava la notte. Indossava un tre pezzi nonostante fosse a casa sua e non avesse intenzione di uscire. Le camicie dal colletto aperto erano una sciocchezza, ovviamente. A lui piaceva vestirsi bene come tutti.
Teneva in mano un martini. Il bicchiere sembrava minuscolo. Erano le mani – nonostante l’abito elegante dell’uomo, e la sua evidente salute, aveva le grosse mani nodose di una persona cresciuta facendo lavori manuali, e parecchi. Le mani dicevano: Cosa c’è di sbagliato in questo quadretto?
Era una notte fresca nella capitale della nazione, e il vento ululava fuori dalla finestra, un poco appena. Il vecchio guardava lo scenario dell’immensa estesa urbana e le luci della città. Gerry sapeva che persino dopo tutti quei decenni il ragazzo di campagna dentro al vecchio era abbagliato dalle luci della città.
“Come va la guerra?” disse Jefferson Monroe, presidente eletto degli Stati Uniti, nella sua dolce cadenza del sud.
“Benissimo,” disse Gerry, e diceva sul serio. “È in guai seri e non sa cosa fare. La dichiarazione di oggi ha chiarito il concetto. Non intende sgombrare la presidenza? Fa proprio il nostro gioco. Si sta isolando – l’opinione pubblica passerà dalla nostra parte. Se ce la giochiamo bene, potremmo riuscire a farla uscire di lì prima del previsto. Penso che dobbiamo far salire la pressione – farle lasciare la presidenza in anticipo, molto prima che si concluda un’indagine su brogli elettorali. Poi cancelliamo l’indagine noi.”
Il vecchio si voltò dall’alta finestra. “Ci sono precedenti di un presidente che abbia ceduto il potere in anticipo?”
Gerry lo Squalo scosse la testa. “No.”
“Allora come facciamo?”
Adesso Gerry sorrise. “Ho qualche idea.”
CAPITOLO SETTE
18:47 ora della costa orientale
Studio Ovale
Casa Bianca, Washington DC
Era sola quando accompagnarono nella stanza Luke.
Per un attimo, lui credette che stesse dormendo. Era seduta nel salottino, accasciata su una delle poltrone. Sembrava una bambola di pezza rotta, o una ragazzina delle superiori che mostra disprezzo per l’insegnante con quella postura da fannullona.
La nuova Resolute desk incombeva dietro di lei. I pesanti drappi erano tirati, bloccando le alte finestre. Sul pavimento, lungo i margini del tappeto ovale, era stampata un’iscrizione:
L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa – Franklin Delano Roosevelt
Le parole facevano tutto il giro del tappeto, terminando proprio dove erano cominciate.
Indossava pantaloni azzurri e una camicia bianca. La giacca era appesa sullo schienale di una sedia. Si era tolta le scarpe, che giacevano storte sul tappeto.
Nonostante la postura, aveva gli occhi acuti e vivi. Lo osservavano.
“Ciao, Susan,” disse.
“Hai visto la conferenza stampa?” disse.
Scosse la testa. “Ho smesso di guardare la tv più di un anno fa. Da allora mi sento molto meglio. Dovresti provare.”
“Ho detto al popolo americano che non mi dimetto.”
Luke quasi rise. “Scommetto che la cosa è stata accolta benissimo. Cos’è successo? Questo lavoro ti piace così tanto che non vuoi lasciarlo? Sono piuttosto sicuro che non funzioni così.”
Le apparve un piccolo sorriso in volto. Il sorriso, a malapena presente, gli ricordò perché un tempo fosse stata una top model. Era bellissima. Aveva un sorriso che poteva illuminare una stanza. Poteva illuminare il cielo.
“Hanno rubato le elezioni.”
“Ovviamente,” disse lui. “E adesso tu le rubi a tua volta. Mi pare un bel piano.” Fece una pausa. Poi le disse quello che pensava sinceramente. “Senti, penso che tu stia meglio senza questo lavoro. Adesso non avranno più Susan Hopkins da maltrattare. Lascia che scoprano quanto vanno peggio le cose senza di te. Ti imploreranno di tornare.”
Scosse la testa, il sorriso che si faceva più luminoso. “Non credo che funzioni così.”
“Non lo credo neanch’io,” disse lui.
Scosse la testa. Le sfuggì un lungo sospiro.
“Dove sei stato, Luke Stone? Saresti dovuto rimanere qui. Ci siamo divertiti parecchio qui, una volta scemato un po’ il caos. Abbiamo fatto del gran bene. E tu dovevi insegnarmi a sparare. Ti ricordi?”
Strinse le spalle. “Sì. Volevi sparare al capo dello stato maggiore congiunto. Me lo ricordo. Però non sparo da nove mesi. Andavo al poligono una volta ogni tanto, per tenermi in esercizio. Poi ho pensato, perché preoccuparsene? Non voglio sparare a nessuno. E anche se un giorno dovessi farlo, sono piuttosto sicuro che l’esperienza mi tornerà.”
“Come andare in bicicletta?” disse.
Sorrise. “O caderne.”
Si mise seduta dritta e indicò la sedia di fronte a lei. “Davvero non sai cosa sta succedendo?”
Luke si accomodò sulla sedia. Era una sedia con la spalliera dritta, né comoda né scomoda. “Ho sentito qualche tuono in lontananza. Il nuovo è di destra estrema. Non gli piacciono i cinesi. Riporterà il lavoro manifatturiero. Non so bene come – sparerà a tutti i macchinari? In ogni caso, se è quello che vuole il popolo…”
“L’ignoranza è una benedizione, immagino,” disse Susan.
“Non esattamente una benedizione, però…”
“È un fascista,” disse lei. “È un miliardario, un barone brigante che ha finanziato i gruppi di suprematisti bianchi per decenni, apparentemente anche quando era al Senato. Progetta di andare in guerra contro la Cina il primo giorno in carica, probabilmente con colpi nucleari tattici, anche se non so bene quante persone ci credano davvero. Vuole costruire recinzioni e mura difensive attorno alle Chinatown delle città americane. Le sue osservazioni indicano disprezzo per le minoranze, per i gay, per i disabili, per chiunque non sia d’accordo con lui, così come sprezzo per l’indipendenza degli organi giudiziari del governo.”
Luke non era sicuro di cosa pensarne. Era fuori dal giro da molto. Si fidava di Susan, e sapeva che lei credeva a quello che diceva. Lui però aveva dei problemi a crederci. Aveva servito nell’esercito sotto il comando di presidenti conservatori, e allo Special Response Team sotto il comando di presidenti liberali. Sì, erano diversi l’uno dall’altro, ma radicalmente diversi? Diversi fino a credere nel suprematismo bianco e nelle recinzioni di sicurezza attorno a enclave di minoranze? No. Proprio no. A prescindere da chi fosse al potere, c’era sempre qualcosa che si poteva chiamare american way.